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Le elezioni politiche 2022: una guerra social tra i leader. Quando è cominciata davvero

Articolo. Il 25 settembre è sempre più vicino, la corsa alle elezioni accende la competizione tra gli esponenti delle varie coalizioni che si lanciano messaggi a suon di post social e provocazioni nei talk show televisivi. Ma sono state davvero queste piattaforme a cambiare la relazione con i partiti e il modo in cui la politica comunica?

Lettura 6 min.

Ogni giorno un giornalista si sveglia e sa che dovrà correre più veloce dei tweet di Salvini, Conte, Meloni, Calenda, Letta, Di Maio, eccetera eccetera. Una premessa – che forse è più una promessa (tranquilli, non di quelle elettorali) metodologica per approcciarsi alla lettura di questo articolo – è che esso non nasce con l’intento di alimentare schieramenti e opposizioni. Ma, nel caso non lo sapeste, sono più di 30 i partiti politici in corsa per un totale di 5.558 su 600 seggi disponibili, 400 alla Camera e 200 al Senato.

Mi perdonerete, quindi, se mi dimenticherò di qualcuno e soprattutto non cercate di capire per chi voterò alle prossime elezioni, perché appartengo alla famosa categoria dei lavoratori fuori sede, ai quali non è concesso il privilegio di votare al di fuori del proprio seggio di residenza. Perché, del resto, siamo una Repubblica fondata sul lavoro, a quanto pare non abbastanza sviluppata dal punto di vista tecnologico da realizzare un sistema di voto che sfrutti il digitale e contribuisca a ridurre l’astensionismo – attenzione, questa non è una polemica, forse.

Tornando al titolo di questo articolo, vorrei partire dall’esatto momento in cui tutto è cominciato. Qualche giorno fa, mi sono svegliata e con gli occhi stropicciati dal sonno ho preso in mano il telefono per controllare l’ora e, visto che mancavano pochi minuti al fatidico istante in cui mi sarei dovuta alzare dal letto, ho deciso di riattivare i meccanismi neuronali del mio cervello, prendendo una decisione fatale, soprattutto per voi che state leggendo. Sono entrata su Twitter e il primo contenuto che mi è capitato di fronte è stato un tweet di Salvini: «PRIMA GLI ITALIANI». Non voglio entrare nel merito dell’affermazione ed esprimere giudizi di valore, ma ciò che mi ha fatto riflettere è che si tratta di uno slogan che si ripete inalterato con la stessa ritualità con la quale tornano puntuali i tormentoni estivi che, mentre si fanno portatori di una bandiera di novità, in fondo si assomigliano un po’ tutti. Qualche giorno dopo è arrivato il reel di Berlusconi che approdava su TikTok, ho scoperto che Conte pubblica contenuti curati da tempo e con una certa continuità e ho visto meme e post che prendevano in giro la goffaggine di Calenda nel cercare alleati.

Ho provato a mettermi nei panni di quel povero giornalista che si sveglia prestissimo e cerca di destreggiarsi tra mille social, prendere nota delle dichiarazioni, stare attento alle rettifiche, ai botta e risposta, ai commenti, ai video. Poi per fortuna la sveglia che avevo posposto ha ripreso a suonare e mi sono ricordata che dovevo iniziare la mia di giornata e tornare al mio lavoro, quello vero.

Una politica più “pop”

Prima ancora prima della diffusione pervasiva mass media, i messaggi politici erano concepiti ed espressi da soggetti quali i partiti, i governi, i sovrani. Il discorso politico era dunque un processo comunicativo tra élite . Ma con la diffusione capillare della televisione, la comunicazione politica è stata obbligata ad adattarsi ai suoi linguaggi e ad adottare i codici tipici di questo medium.

La televisione ha dato vita ad una messa in scena della comunicazione politica che ha assunto una dimensione teatrale, sfruttando l’inclinazione del pubblico a credere nelle cose per ciò che sembrano e a fidarsi dei messaggi di questa scatola magica che ha assunto a tutti gli effetti i contorni di un’istituzione. Una tendenza confermata dalla generazione del boom economico e da quelle precedenti, per le quali essa rappresenta ancora l’unico mezzo per accedere alle informazioni. Come dimostrano le proverbiali affermazioni di mia nonna che ogni volta, quando vado a trovarla esordisce come se avesse in mano la verità, pronunciando frasi del tipo: «Hai sentito cosa ha detto la televisione?!».

A partire dalla seconda metà del Ventesimo Secolo è aumentata importanza dei leader a discapito dei partiti. E un ruolo fondamentale in questo processo si attribuisce, ancora, alla televisione. Quella che si è affermata di conseguenza è stata una tendenza alla formazione di partiti “personali” che identificano il leader come sintesi e ragion d’essere di un partito, piuttosto che puntare sull’ identificazione da parte dei cittadini con la sua ideologia, come avveniva in passato.

La centralità assunta dai leader dipende sia dalla diffusione della tv, che da altre cause concomitanti quali l’incapacità dei partiti di rappresentare ampie porzioni di elettorato in contrapposizione, oltre che dalla definizione di una politica internazionale che ha fatto perdere centralità ai governi locali e alle istituzioni che ne derivano.

In questi scenari i leader sono diventati la condizione necessaria per l’esistenza dei partiti, che non dipendono più da una rigida organizzazione burocratica. Essi sembrano al contrario perseguire interessi particolari, fanno leva sulle emozioni, e costruiscono il proprio consenso sulla base di una strategia individuale che punta alla mobilitazione di massa sulla base dell’adesione improvvisa ad un nuovo idolo: ne sono un esempio Berlusconi prima, Renzi, Grillo, Di Maio, Conte, poi.

I cambiamenti dell’ambiente mediale hanno influito anche sulle modalità di conduzione delle campagne elettorali che invadono i social com’era avvenuto in precedenza con la televisione. In questi scenari, quelle che i leader dei partiti conducono, sono delle vere e proprie campagne permanenti dato che la conquista del consenso si delinea come un’attività quotidiana che non può più essere ricondotta esclusivamente alle settimane che precedono un appuntamento elettorale. Insomma, è sempre “campagna elettorale”.
Durante le campagne elettorali vere e proprie, poi, internet gioca un ruolo fondamentale perché consente di aggirare i media tradizionali e inviare messaggi senza subire alcun tipo di mediazione da parte dei giornalisti.

Con la diffusione dei media digitali, la circolazione delle informazioni non è più controllata e determinata da un ristretto numero di persone, ma è diventa l’esito di una continua competizione, negoziazione e interdipendenza tra le varie piattaforme quali Facebook, Instagram e TikTok. Sui social network, infatti, anche i soggetti non appartenenti alla ristretta cerchia delle élite politico-giornalistiche sono in grado di commentare, contestare e ribaltare in tempo reale il framing proposto dai cosiddetti tradizionali. In una parola: disintermediazione.

Così, dopo che Giorgia Meloni, leader di Fratelli d’Italia ha chiesto che il cartone Peppa Pig fosse cancellato dai palinsesti Rai per indottrinamento gender, ecco subito il popolo del web a scatenarsi creando meme che la ritraggono mentre cerca maldestramente di nascondere ai figli la visione del programma. Senza voler tralasciare tutte le rappresentazioni parodistiche dello slogan del PD «Scegli», riprese dallo stesso Enrico Letta, che per la carbonara, tra pancetta e guanciale, ha espresso la sua preferenza per il secondo, ovviamente. Dunque, anche la comunicazione politica risente di questo ambiente ibrido, ne sono un esempio i tweet e i post dei candidati che vengono ripresi dai media. Un post ripreso da un programma televisivo permette ad un messaggio di arrivare ad un numero di cittadini notevolmente maggiore.

Quella che ne emerge è una comunicazione politica frammentata che riduce il dibattito pubblico ai minimi termini: battute ad effetto, brevi citazioni, sono le armi della persuasione di questi leader “ultratecnologici”. E allora eccoli, tutti felici e sorridenti, impettiti a nascondersi dietro ai loro slogan che devono essere massimo di tre parole, perché si sa, l’utente medio si annoia e la soglia di attenzione su internet cala vertiginosamente ogni giorno di più.

Ci sono i 5 Stelle, «Dalla parte giusta», la Bonino con «Io sono Emma» che non è proprio riuscita a fare meglio di Giorgia, c’è Di Maio con «Difendiamo la libertà» la cui esortazione, dopo aver lasciato il Movimento, sembra più la dichiarazione di uno studente fuori corso da dieci anni che finalmente decide di fare la rinuncia agli studi. Poi ci sono Calenda e Renzi con «L’Italia sul serio» che si colloca a metà strada tra una rassicurazione e una presa in giro.

Televisione, social network e politica: il dramma della popolarità

I social network e la loro compenetrazione nei media hanno generato una continua ricerca della popolarità nella politica, in base al quale i politici che vogliono conquistare il consenso devono catturare l’attenzione del pubblico e per farlo devono adattarsi di più rispetto al passato a quello che la gente comune trova interessante e coinvolgente.

Ecco perché i candidati sono spronati a cercare il sostegno dei cittadini attraverso un linguaggio più accessibile in modo da rendere la politica più appetibile agli spettatori. Ciò ha determinato nel rapporto tra politica e sfera televisiva la diffusione di due nuovi formati: da un lato c’è un’informazione che prova ad intrattenere e ad essere più piacevole e dall’altro non si può fare a meno di notare la presenza dei politici o temi politici nei programmi di cultura popolare come soap, riviste di gossip, spettacoli teatrali e sportivi, talk show, ecc.

Il rapporto tra cittadini e politici si è caricato inevitabilmente di una componente emozionale, per cui per i candidati diventa essenziale entrare in sintonia con le preoccupazioni della cultura popolare che influenza la formazione dell’opinione pubblica al punto che gli attori politici ne riprendono le dinamiche per ottenere consensi.

La progressiva necessità da parte degli attori politici di raggiungere quella parte di elettori che preferisce l’intrattenimento è dunque uno dei principali motivi che spinge i candidati a fare di tutto per essere rappresentati nei programmi di intrattenimento, nelle riviste e sui social. Non a caso, il famoso video col quale Silvio Berlusconi ha fatto il suo ingresso su TikTok, ha ottenuto più di 9 milioni di visualizzazioni, 650 mila mi piace e 45 mila commenti.

Ogni giorno un giorno un giornalista si sveglia e sa che dovrà correre più veloce dei Tweet di Letta, Salvini e Berlusconi. Poi entra su Facebook e vede un meme su un reel di Calenda. Si ricorda che deve scrivere un articolo di commento sulla partecipazione di Conte ad un talk show televisivo, infine controlla le notifiche su LinkedIn: forse è arrivato il momento di cambiare lavoro.