93FE310D-CB37-4670-9E7A-E60EDBE81DAD Created with sketchtool.
< Home

Le notizie “spazzatura” e quello che vogliamo leggere davvero (sui social e non solo)

Articolo. I social network rappresentano per un numero sempre maggiore di persone la fonte principale per documentarsi su quello che accade. Ma la qualità di ciò che leggiamo in rete, da cosa, o meglio da chi dipende? L’algoritmo ci mostra solo ciò che vogliamo vedere. E la disponibilità tecnologica, di fatto, ci ha consegnati ad un’epoca di profondissima ignoranza, o semplicemente, si è limitata a portarla alla luce

Lettura 6 min.
(immagine Iurii Vlasenko)

Ogni giorno, un utente medio si sveglia, accende il telefono, entra su Facebook, legge una notizia sull’ultimo taglio di capelli di Belen Rodriguez o un articolo che commenta le dichiarazioni shock dei concorrenti del GF VIP e non resiste alla tentazione di dire la sua: «Siete ancora un giornale?», «Ma che ce ne frega? Sono questi i problemi dell’Italia?».

Devo ammettere che, di fronte alle news che riportavano lo stato di salute del cane di Michelle Hunziker o agli articoli ultra-dettagliati che commentavano minuto per minuto la rottura tra Allegri e Ambra, anch’io ho faticato a tenere a bada il leone da tastiera che c’è in me e a contenere l’indignazione.

Poi ho deciso di andare a fondo, di ricercare le cause di questo impoverimento per capire se effettivamente fosse colpa del famigerato algoritmo di Facebook, che attribuisce rilevanza alle notizie che si prestano a diventare virali, a prescindere dalla bontà dei contenuti.

Ebbene, sono qui oggi per svelarvi una terribile verità, quasi quanto i titoli clickbait che rivelano i retroscena della rottura tra Totti e Ilary o delle ads che parlano di rimedi sulla calvizie, mentre stiamo cercando di guardare un video su Youtube. L’algoritmo ci mostra solo ciò che vogliamo vedere. Se la notizia non vi sembra abbastanza shock, o meglio se quello che avete letto non vi suona come nuovo, sappiate che la questione è molto più complessa di così.

Non mi riferisco solo al fatto che i contenuti che vediamo nel nostro News Feed sono il risultato delle pagine a cui mettiamo «Mi piace», delle nostre interazioni (a cui gli algoritmi hanno pieno accesso col nostro tacito consenso, ma questo meriterebbe un articolo a parte), dei post su cui passiamo la maggior parte del tempo a leggere quello che dicono gli altri.

Internet, la rete e i social network hanno modificato radicalmente la nostra relazione con la profondità. Una profondità che non rimanda più solo all’ambito spaziale, ma si riferisce al rapporto con le informazioni, al modo in cui viviamo le relazioni sociali, ci appropriamo della cultura, accediamo nei mercati, ascoltiamo musica e così via. Abbiamo smesso di leggere i quotidiani cartacei perché preferiamo accedere quotidianamente alle informazioni “casuali” che rimbalzano sui profili social dei nostri “amici”. Ma niente avviene per caso e tutto è determinato da cause precedenti, diceva qualcuno, più saggiamente di me.

Vediamo allora quali sono i fattori che ci hanno fatto sprofondare in una deriva informativa resa possibile da tecnologie sempre più intelligenti che schiacciano ogni istante, ogni momento, ogni ricordo, in un «tempo reale» senza renderlo quasi mai davvero accessibile.

L’istantaneità ha surclassato gli archivi. Internet, da luogo in cui si accede per documentarsi potenzialmente su qualsiasi cosa, è diventato il mondo del pressappochismo, nel quale ogni cosa sarà tristemente dimenticata. Ma come siamo arrivati a questo punto?

A portata di obiettivo

Ho un problema con gli smartphone. Ne ho avuti tantissimi, dagli intramontabili Nokia ai ricercatissimi ultratecnologici IPhone. E ogni capitolo della storia si conclude puntualmente con me che li perdo, ci rovescio l’acqua sopra e più in generale li faccio smettere di funzionare. Ho anche un problema con le foto. Ne scatto in continuazione, tanto che tutti i miei amici mi odiano, mi hanno odiato tutte le persone con le quali ho avuto relazioni, probabilmente questa ossessione è il motivo per cui alcune relazioni sono addirittura finite.

Insomma, attraverso il telefono mi assicuro di documentare cose che poi non vado quasi mai a rivedere, fino a che, nel momento in cui il dispositivo smette di funzionare, la mia memoria fotografica (e autobiografica) non si riduce alle (pochissime) foto che ho stampato e a quelle che condivido sui social.

Anche la cultura sta seguendo la medesima direzione. È diventata parziale e difficile da interpretare. Questo perché a diffondere cultura non sono più pochi soggetti, facilmente identificabili in virtù di un ruolo istituzionalmente riconosciuto. Ma l’emittente corrisponde più ad un agglomerato che si polverizza in miliardi di impulsi elettronici differenti.

Sembra chiaro, dunque, che la caratteristica del preponderante di questo processo involutivo sia proprio l’assenza di un contesto che riunisca tutti i piccolissimi frammenti in un catalogo ordinato. Una grande biblioteca digitale che, come i grandi libri di una volta, tenga insieme le nuove, sfuggenti, volatili, enciclopedie moderne.

I dettagli fanno ancora la differenza?

Una parte del desiderio di restare in superficie e non approfondire, è figlia del rapporto conflittuale tra il nostro spirito archivistico che ci spinge a conservare, ad accumulare a raccontare la storia, e la contingenza del reale che continua a produrre alla velocità della luce. Il nostro limite di esseri umani è che noi non disponiamo di soffitte abbastanza grandi per accumulare tutto ciò che viene prodotto in ogni istante.

Internet, però, non ha scuse. Anzi, i motori di ricerca non ne hanno. Tanto che in principio, quando il buon Google nacque, la sua mission era «Organizzare le informazioni a livello mondiale e renderle universalmente accessibili e utili». Un proposito tanto nobile, quanto irrealizzato, col senno di poi.

Per alcuni anni i creatori di Google ci hanno provato davvero a dare attuazione a questi propositi, per così dire umanitari, attraverso progetti che promuovevano la digitalizzazione dei libri con l’obiettivo di facilitare lo scambio tra le biblioteche sparse nel mondo. Qualcosa però nel frattempo è andato storto. Perché ad un certo punto siamo stati schiacciati dall’attualità e il motore di ricerca più utilizzato al mondo ha iniziato a proporci una frettolosa ricognizione del presente, disinteressandosi di tutto quello che è successo nei duemila anni di storia precedente.

È come se qualcuno trovandosi di fronte ad un archivio gigante, anzi più che gigante, di libri che diffondono la conoscenza si mettesse a sfogliare «Chi?» o una qualsiasi rivista di gossip: la Bibbia, Dante, Ariosto, Galileo Galilei, Proust, Joyce… Signorini. E dunque, la domanda sorge qui spontanea: di chi e a chi stiamo parlando? La verità è che la storia, il nostro passato, le scoperte scientifiche, ci riguardano e hanno a che fare con noi, determinano le nostre possibilità e influenzano ciò che siamo. Ci riguardano l’inquinamento, lo scioglimento dei ghiacciai, le poesie di Neruda, i quadri di Van Gogh, hanno a che fare con noi. Ma senza esagerare.

Perché ci interessa innanzitutto sapere cos’è successo oggi, che tempo farà domani, se potremo andare in montagna nel weekend e se l’attaccante che abbiamo acquistato al Fantacalcio recupererà dall’infortunio al rientro dai Mondiali. Google ha semplicemente compreso il meccanismo delle nostre priorità e si è limitato ad assecondarle, per sopravvivere prima e per prosperare poi.

C’era una volta l’enciclopedia

Fino a prima della diffusione capillare di Internet, la cultura era un fatto elitario. Ma la democratizzazione delle informazioni resa possibile dalla condivisione delle stessetramite la rete, ha reso obsolete le pesantissime e noiose enciclopedie cartacee e ci ha obbligati a fare i conti con i nostri limiti. Perché quando arriva il momento di scegliere tra il gol dell’Atalanta e le poesie di Ungaretti, scegliamo quasi sempre i primi. La disponibilità tecnologica, di fatto, ci ha consegnati ad un’epoca di profondissima ignoranza, o semplicemente, si è limitata a portarla alla luce.

Un altro dato interessante è che da quando internet esiste, o meglio da quando internet ci ha permesso di accedere in tempo reale a quello che succede dall’altra parte del mondo, i quotidiani, soprattutto quelli cartacei, non li legge più nessuno. Li leggono gli uffici stampa, i politici, i giornalisti stessi, ma nella realtà dei fatti, nella vita di tutti i giorni stanno scomparendo. Basta mettersi di fronte ad un’edicola per rendersene conto.

Il punto è che se prima il canale di informazione principale erano i giornali cartacei, adesso sono stati surclassati dalla barra di stato di Facebook e affini, con la conseguenza che gli utenti sono tendenzialmente più informati di prima ma si espongono ad un pulviscolo di informazioni, fidandosi semplicemente dei titoli che leggono (e senza sforzarsi di andare oltre). Questo meccanismo ha finito per alterare i principi di “imparzialità” che storicamente si attribuiscono alla stampa.

I giornali sono stati caricati per molto tempo di significati alti che dovevano essere tutelati. Non a caso «la libertà di stampa», nei regimi democratici moderni, è un indicatore molto potente della libertà di espressione. Tuttavia, quando l’economia dell’industria editoriale è andata in crisi, i giornali hanno cominciato a venire a patti con l’audience del web, gettando la maschera che nascondeva i meccanismi su cui si alimentano i Ioro guadagni. Quindi dal motto «all the news that’s fit to print» del «New York Times», si è passati ad un più moderno: tentare di vendere il più possibile, ad ogni costo.

Quello che fa notizia oggi

Il compromesso col quale i siti di notizie hanno dovuto fare i conti oggi sono i box di informazione, i cosiddetti banner che devono essere in grado di attirare l’attenzione del lettore, di incuriosirlo e invitarlo a restare, possibilmente leggendo anche il resto. Quindi ecco che rimbalza su tutti i social la donna che decide di farsi crescere la barba, o quella con le unghie più lunghe del mondo. «Come farà a lavarsi?» si chiede il lettore, morboso.

Poi c’è la sezione animali da coccolare (il gattino ritrovato) o l’invasione di campo di un eroe con propositi ambientalisti durante i Mondiali di calcio. E infine c’è la sezione dedicata alle tragedie e alle cose spaventose. Perché le persone nutrono una passione smodata per l’orrore fine a sé stesso. È il motivo per il quale i video che immortalano morti cruente impazzano sul web. A fronte di queste considerazioni, viene dunque spontaneo chiedersi: è davvero solo colpa dell’algoritmo di Google?

È auspicabile che un sito di notizie, seguendo questa deriva, si trasformi in un grande archivio di video che mostrano l’emotività dei panda e un altro in una raccolta di video che riprendono incidenti stradali e via dicendo. E quando ci chiederemo il perché sapremo la risposta e fingeremo di dimenticarla, nascondendoci dietro all’indignazione: ai lettori piace così e questo basta.

Quel che è certo, per ora, è che abbiamo aperto un grande vaso di Pandora che ci sta scivolando dalle mani. In una versione più attuale, è come se provassimo a fare il backup del telefono mentre ci accorgiamo che sta per esplodere. E in quei cinque secondi vedessimo scorrere il nastro della nostra vita, con tutti le istantanee dei momenti più significativi andate perse per sempre.

Speriamo di riuscire a trovare presto il tasto Salva per cercare di porre rimedio alla deriva in cui ci stiamo cacciando, prima che sia troppo tardi.

Approfondimenti