93FE310D-CB37-4670-9E7A-E60EDBE81DAD Created with sketchtool.
< Home

Parlare di morte e di malattia sui social network: il caso Vialli

Articolo. Quando si parla di malattie neurodegenerative e di tumori sui media e sui social la tendenza predominante è quella di utilizzare metafore belliche, trasformando i malati in eroi o peggio ancora in vittime. Ma qual è l’impatto e il ruolo che queste narrazioni hanno sulla vita delle persone che convivono con la malattia?

Lettura 6 min.
(immagine Mohamed Tahdaini)

Prima di cominciare a scrivere questo articolo ho voluto prendermi il giusto tempo per riflettere e respirare. Volevo scegliere con cura e attenzione le parole da utilizzare per affrontare un tema che pur nella mia diversità mi rende uguale a tutti gli altri: la morte.

La morte mi fa paura, per cui di fronte alla sua inevitabilità mi sono sempre ripetuta, come se si trattasse di un mantra, una frase dello scrittore Murakami Haruki: «la vita non è l’opposto della morte ma una sua parte integrante». Ma la frase in realtà non basta.

La morte è stata rimossa dai discorsi sociali, la si vive ancora (fortunatamente) nei luoghi sacri e per il resto ci si consegna alle tendenze prometeiche di una società sempre più performante, nella quale il progresso della scienza pare averci fatto perdere dimestichezza con l’idea di questa sua inevitabilità. L’altro lato della medaglia è che la sempre maggiore incidenza delle malattie degenerative, dei tumori, sulla popolazione mondiale, ci mostra un’altra prospettiva. Quest’ultima ci parla, sì, dell’inevitabilità della morte ma soprattutto ci fa tornare coi piedi per terra.

Anzi più precisamente ci scaraventa al suolo con una velocità improvvisa, imprevista, scioccante tale per cui la domanda che prima di tutto viene spontaneo porsi è: perché proprio a me? Questa ascesa così cruenta, oltre che consegnarci all’inevitabilità della morte, ci fa sperimentare quanto quest’ultima sappia essere ingiusta, invadente, inopportuna, sbagliata. Assurda. E se è vero che la morte ci spaventa e cerchiamo di allontanare il più possibile l’idea, ancor prima ci spaventano le malattie, e il dolore che ne consegue, che sia esso di natura fisica o psicologica.

Ma come si declina questa narrazione su internet e più in generale sui media? Qualche settimana fa ho partecipato ad una conferenza sulla comunicazione della malattia e una donna in platea mi ha fatto una domanda spiazzante. Mi ha chiesto come mai sui media e nelle trasmissioni televisive non si dichiara mai (o si parla comunque poco) che ci sono dolori e malattie sulle quali la scienza non può far nulla, se non intervenire con dei palliativi.

La risposta l’ho trovata dentro di me, semplicemente perché essendo nata con una disabilità psico-motoria convivo col dolore fin da quando sono nata: è molto più facile nasconderlo agli altri o farsene beffa che riconoscerlo, ammetterlo a sé stessi e alle persone che ci amano. Ad un genitore, ad un fratello, ad un amico, ad una moglie o a un figlio.

Ecco perché io per prima per anni mi sono nascosta dietro alla metafora di una battaglia, contro me stessa e contro i miei limiti per poi trovare la risposta nel testo di una canzone di Niccolò Fabi che già dal titolo non lascia scanso ad equivoci: «Vince chi molla».

Lasciare andare e lasciarsi andare

Ho appreso la morte di Siniša Mihajlović, prima ancora che di quella di Gianluca Vialli, in una trasmissione sportiva che disegnava le gesta eroiche di un giocatore carismatico, vincente, un grande allenatore, un combattente integerrimo, rimasto ancorato alla panchina del Bologna anche quando le sue condizioni di salute stavano ormai degenerando – in pochi hanno ricordato però che da quella panchina, malattia o no, Mihajlović venne esonerato il 6 settembre 2022.

A fianco a me c’era una ragazza che ha perso sua madre dopo aver passato più di 5 anni a sottoporsi ad ogni tipo di cura per cercare di debellare un tumore. E quel modo di raccontare la malattia mi è sembrato grossolano, fuori luogo, indelicato, stupido per certi versi. E così mentre su tutte le testate di giornale, su tutti i social rimbalzavano i tweet e i messaggi di cordoglio in un impeto di rabbia non ho resistito alla tentazione di dire la mia.

Come? Ovviamente con un post polemico su Facebook nel quale mi scagliavo contro la retorica che si scatena dietro alle malattie oncologiche e più precisamente contro il linguaggio velleitario col quale si cerca di inquadrare puntualmente le malattie degenerative. Sui social pullulano narrazioni che parlano di lotta, di guerra, di vittoria. Ma è appropriato parlare di sconfitta quando una persona non sopravvive? Non si è forse impegnato abbastanza?

«Ha lottato come un leone» è un’espressione inadatta. Perché quando una persona si ammala, non ha scelta: deve sottoporsi alle cure e sperare. Sperare che il tumore non sia aggressivo, che il corpo reagisca bene, che le cure siano efficaci. Chi sopravvive non è più coraggioso o più forte: vi assicuro che tutte le persone che «non ce la fanno» sicuramente non vorrebbero «mollare» non vorrebbero smettere di vivere.

Ci sono ancora malattie e tumori che sono purtroppo inguaribili e di fronte a questa consapevolezza le metafore belliche rivelano la loro inadeguatezza, nella misura in cui l’idea di affrontare una battaglia sottintende la possibilità di farcela, di vincerla. Ma quando si tratta del cancro o di un tumore e più in generale delle malattie neurodegenerative non è per niente scontato che sia così.

Il mio post ha suscitato un ampio dibattito ma soprattutto sono stata felice di ricevere il tacito assenso di persone che attraverso una reaction si riconoscevano nelle mie parole. Tra di loro c’erano compagne di scuola che hanno perso un genitore, c’è chi dona i capelli alle associazioni benefiche, amiche che si prendono cura dei propri cari e che hanno come aspettativa di vita un futuro nel quale curarsi per il resto dell’esistenza, sia comunque sufficiente, sia abbastanza.

Poi, quando anche le condizioni di Gianluca Vialli hanno cominciato ad aggravarsi, mi sono chiusa in un doveroso silenzio stampa. Sentivo la necessità di prendermi del tempo per scrollarmi di dosso la rabbia che mi faceva essere impulsiva e non mi permetteva di leggere gli avvenimenti con lucidità. In particolare un titolo clickbait ha fatto scattare il bisogno di prendere le distanze da questo marasma di informazioni flash: «Vialli ricoverato a Londra, la mamma 87enne lo raggiunge».

La mia mente non ha resistito alla tentazione di creare uno scenario nel quale un’ipotetica signora anziana prende un aereo per affrontare un viaggio che l’avrebbe portata da suo figlio, che con ogni probabilità si trovava in fin di vita in un letto di ospedale. Mi sono sentita invadente, stupida, immotivatamente curiosa e ho scacciato quell’immagine pensando che da persona che convive col dolore quotidianamente, avrei potuto utilizzare il mio per fare qualcosa meglio che adirarmi come al solito.

La saggezza di Gianluca Vialli

Gianluca Vialli era un calciatore, uno sportivo ma soprattutto un padre che non ha mai amato definire quella col cancro una battaglia: «Non credo che sarei in grado di vincerla, è un avversario molto più forte di me. Il cancro è un compagno di viaggio indesiderato, però non posso farci niente. È salito sul treno con me e io devo andare avanti, viaggiare a testa bassa, senza mollare mai. Devo solo sperare che questo ospite indesiderato si stanchi e mi lasci vivere il più a lungo possibile».

Chi affronta una malattia non vuole essere un eroe ma un esempio. Perché soprattutto quando arriva la consapevolezza che la morte avverrà per cause di cui si ha consapevolezza subentra la necessità di eliminare il superfluo, vivendo un tempo di qualità in cui ogni giorno si moltiplica per cento. Come ha detto Vialli: «Cerco di essere un esempio per le mie figlie e cerco di spiegare loro che la felicità dipende dalla prospettiva dalla quale guardi la vita, ridere, aiutare gli altri, di essere gentile. Il punto è che sono consapevole del fatto che ho poco tempo per essere un buon esempio».

Ho deciso di scrivere questo articolo perché anch’io convivo con una malattia da quando sono nata e l’ho sempre definita una compagna di giochi perché nei miei ricordi d’infanzia nei quali facevo rieducazione motoria, l’unico modo col quale il mio fisioterapista riusciva a convincermi a fare gli esercizi e a sopportare il dolore era promettermi che alla fine mi avrebbe lasciato giocare.

Avevo quattro anni e ho sempre bollato quelle che sono a tutti gli effetti delle strategie di sopravvivenza come «Pigrizia». Ma se ripenso adesso a quei momenti non posso fare a meno di provare tenerezza. La mia malattia mi ha insegnato a riconoscere i segnali che mi manda il mio corpo, a dargli ascolto. E così so che se vado a visitare un posto nuovo e cammino per tutta la mattina, il pomeriggio devo riposarmi, altrimenti il giorno dopo posso fare al massimo cinque metri.

Per l’Epifania ho deciso di andare a Roma da sola per la prima volta. La prima impressione che ho avuto appena uscita dal binario era quella di un mondo gigantesco che mi faceva sentire ancora più piccola del solito. Convivere con una malattia come la mia per la quale non esiste una cura, significa sentirsi continuamente esposti, fragili, messi a nudo. Soprattutto in luoghi affollati nei quali la gente corre, va di fretta, si spintona, ti travolge senza neanche accorgersi.

Quando è arrivato il momento di tornare a casa mi sono recata di nuovo in stazione. Dopo tre giorni di movimenti faticosi e inusuali l’autonomia residua delle mie gambe era a zero, mi facevano male anche le dita dei piedi e di solito quando arrivo a quel punto so che ho raggiunto la mia soglia limite. Dovevo raggiungere il tabellone che indica partenze e arrivi e superarlo, lo guardavo in lontananza, mi trascinavo con gli arti dolenti e avevo fiducia nel fatto che ce l’avremmo fatta. Tuttavia ero così stanca che più camminavo e più avevo l’impressione che quel tabellone si allontanasse, mentre attorno a me c’erano persone che mi pareva si muovessero alla velocità della luce.

Mi sentivo avvilita, mi sono fermata istintivamente e ho fissato la vetrina di un negozio mentre pensavo che se voglio vivere, conoscere, sperimentare, devo accettare il fatto che quel dolore tornerà sempre a farsi sentire. A dirmi che se visito Roma di giorno, poi la sera non posso andare a ballare, perché sono troppo stanca. Mi dico che va bene che tanto mi piace starmene sul divano a guardare la tv mentre immagino tutte le situazioni e gli incontri di cui sono costretta a privarmi, per pigrizia. Sì, per pigrizia, mi dico.

Convivere con una malattia significa accettare dei compromessi, fare delle rinunce. Significa fare i conti con le sconfitte che sono inevitabili perché fanno parte della vita, tanto quanto la morte. Lo so io e lo sa bene chi ogni giorno si sottopone a delle cure conservando un briciolo di speranza, nonostante tutto.

Non so esattamente qual è la mia aspettativa di vita e non mi interessa saperlo. Quello che so per certo è che il dolore che sento ogni giorno morirà con me. E fino ad allora, farò tutto ciò che è in mio potere per far sì che questo ospite indesiderato diventi il più simpatico possibile.

Approfondimenti