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Riccardo Luna: “Immuni non è perfetta, ma è uno strumento in più per arginare la diffusione del covid-19”

Intervista. L’app segnala eventuali rischi di contagio e gli utenti vengono avvisati tempestivamente. In questo modo possono isolarsi e contattare il proprio medico. Ma i dubbi (e le polemiche) non mancano. Abbiamo fatto qualche domanda ad uno dei maggiori giornalisti tecnologici italiani

Lettura 4 min.

Immuni è arrivata. Da lunedì scorso è possibile scaricare l’app di tracciamento studiata dall’Italia – nello specifico dallo studio Bending Spoons – per contenere il contagio da covid-19 e ricostruire in tempi brevi i nuovi focolai. Un debutto da 500 mila download in 24 ore, con il primo posto nella classifica italiana delle app più scaricate che inaugura con le migliori premesse la primissima fase di sperimentazione dell’applicazione, disponibile in tutta Italia – anche se ad oggi l’app non è possibile il download su tutti i device: per Android serve almeno Android 6, mentre non funziona dall’iPhone 6 a scendere.

Aprendo Immuni sul proprio smartphone si coglie subito come gli aspetti di tutela della privacy abbiano segnato in maniera peculiare il progetto. Sono tante in queste ore le discussioni intorno all’app, a partire proprio dalla questione relativa al nostro privato, di cui abbiamo parlato qualche giorno fa con l’avvocato Luca Bolognini.

Ma come funziona Immuni? La sua peculiarità dovrebbe essere quella di intervenire in maniera tempestiva di fronte a un caso positivo, potendo risalire velocemente a chi è stato in contatto con lo stesso per un tempo tale da essere considerato a rischio.

Nello specifico Immuni funziona così: il tracciamento è basato su tecnologia Bluetooth e quindi non utilizza i dati di geolocalizzazione come si era paventato inizialmente. L’app inoltre non raccoglie alcun dato identificativo dell’utente, come nome, cognome, data di nascita, indirizzo, numero di telefono o indirizzo email. A comunicare sono soltanto i device, in questo caso gli smartphone delle persone, grazie al continuo segnale Bluetooth emesso dall’app. In questo modo ogni smartphone registra la prossimità fra due utenti, tenendo traccia del contatto e della durata dello stesso direttamente nella memoria del telefono.

Nel caso in cui un utente risulti contagiato, con l’aiuto di un operatore sanitario potrà caricare su un server una chiave crittografica, le stesse chiavi che vengono controllate dall’app periodicamente per verificare che fra i contatti registrati non ci siano gli identificativi dei casi segnalati come positivi. Se invece l’identificativo dell’utente contagiato risulta nella memoria del proprio telefono dovrebbe attivarsi un alert che avvisa del possibile rischio.

Questo il funzionamento dell’app, che esula da tutta la fase successiva di controlli, verifiche, test e tamponi a seguito di un sospetto contagio. Di fatto nessun dato sensibile viene raccolto, eventuali informazioni che l’utente sceglierà di condividere sul server saranno gestiti dal Ministero della Salute e cancellati entro il 31 dicembre 2020, l’intera gestione dell’applicazione sarà affidata al Governo e l’app resta in ogni caso uno strumento facoltativo. Nessuno sarà obbligato a scaricarla.

Tuttavia il funzionamento di Immuni sta generando parecchie polemiche: inizialmente sembrava che, almeno in una fase iniziale, dovesse essere testata solo in alcune regioni. Invece ad oggi l’app è scaricabile da chiunque. Circolano inoltre avvisi in merito a tentativi di frode legate ad Immuni e alcuni bug registrati sui dispositivi Apple. Insomma la confusione sull’app di contact tracing in generale si mantiene alta.

Noi, per capire più nello specifico la bontà o meno del progetto, abbiamo intervistato il giornalista Riccardo Luna, già direttore responsabile di Agi - Agenzia Giornalistica Italia, protagonista della trasformazione del giornalismo nell’era digitale e, fino a poco tempo fa, Digital Champion dell’Italia, figura incaricata di guidare le iniziative nazionali per rendere ogni europeo digitale.

AS: Riccardo, partiamo da una considerazione emotiva. Immuni sta per arrivare, ma non c’è la sensazione che sia già tardi?

RL: Dipende. Tardi per la Fase 1 sicuramente, per la Fase 2 non so, di certo non tardi per uno strumento che si propone di aiutarci a convivere con un virus che è presente sul nostro territorio e lo sarà probabilmente ancora per un anno. Certo, sarebbe stato meglio averla un mese fa, ma non dimentichiamo che serviva una modifica ai sistemi operativi di Apple e Google perché potesse funzionare e questa non è cosa che dipende dagli sviluppatori dell’applicazione. Inoltre siamo la prima democrazia europea a rilasciarla e non è cosa da poco, così come non è da sottovalutare che sia stata necessaria una modifica mondiale sul funzionamento del Bluethoot per renderla efficace.

AS: E se non la scaricheranno un numero di persone sufficiente?

RL: Io credo che in questa prima fase non saranno in molti a usarla, non c’è dubbio che ora non se ne avverte l’urgenza. Il clima nel Paese è diverso rispetto a 40 giorni fa. Questo non significa che non possa essere un buon test. Va comunque testata per verificarne il funzionamento. Se, come si teme, ci dovesse essere una nuova ondata di contagi in autunno, allora sarà utile e tutti la useranno.

AS: L’area metropolitana di Seul è nuovamente in lockdown, eppure loro sono stati tra i primi a usare un’app di tracciamento a cui anche l’Italia si stava ispirando.

RL: Capiamoci, l’app da sola non contiene il virus e non può impedire che i contagi aumentino, è uno strumento che, dovendo convivere con il virus, ci permette di identificarlo. Lo scopo principale adesso è non far collassare nuovamente il sistema sanitario. L’app ti avvisa, poi serve il modo per fare un tampone entro 48 ore e organizzare l’isolamento. Come ribadito dall’OMS, Immuni deve servire a rallentare la velocità di diffusione del virus, ma servono le tre T: trace, test e treat, tracciare digitalmente la catena trasmissiva, testarla e curare i pazienti.

AS: L’arrivo di Immuni ha acceso un forte dibattito in Italia…

RL: Il dibattito sulla privacy è sempre utile, poi noi diamo i nostri dati di geolocalizzazione a chiunque sbagliando e senza porci troppe domande, ma se qualcosa risveglia la consapevolezza dell’importanza della privacy e della sua tutela è positivo. Sarà un grande salto culturale per tutti.

AS: Secondo te è stato fatto un buon lavoro? Non si rischia che a non sapere dove vanno questi dati e lasciando troppa libertà poi non si riescano a verificare?

RL: Io trovo che dal punto di vista della privacy non c’erano tante alternative a meno di usare il modello sud coreano con il Gps e la geolocalizzazione che traccia tutti gli spostamenti. Ma questo non è necessario, non è necessario sapere dove sono stato, ma con chi sono entrato in contatto. Non era necessario nemmeno avere fretta, un’app non si sviluppa in emergenza. Io personalmente l’avrei resa obbligatoria perché tutela moltissimo la privacy e può avere un impatto molto positivo, ma il compromesso è buono. Sicuramente non sarà perfetta, ma è uno strumento in più.

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