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Il twirling è un buon modo per capire che la competitività nello sport (ma anche nella vita) non è tutto

Racconto. Dalla disciplina “del bastone” ho imparato a fare pace con i miei limiti, a partire da quelli fisici. E ho scoperto che perdere non è necessariamente un fallimento. Ma contano di più la responsabilità verso gli altri e la collettività

Lettura 6 min.

“Che sport fai Filippo?” “Calcio
E tu Chiara?” “Danza
Tu Marta che sport frequenti?” “Twirling
Tuirl…che?

Fu chiaro fin dal mio primo anno di elementari che avevo scelto uno sport non pervenuto nella quasi totalità dei manuali del bravo maestro e del perfetto alunno. Un fattore che da un lato mi faceva sentire piuttosto speciale, ma dall’altro mi metteva un po’ in imbarazzo. Così, per fugare ogni dubbio sulla questione cominciai a elaborare strategie per dare la risposta più esaustiva possibile: “È uno sport dove lanci e fai roteare un bastone di metallo a ritmo di musica, con alcuni movimenti della ginnastica artistica”.

A quel punto, il volto perplesso dell’interlocutore si distendeva in un sorriso radioso: “Aaaaaah, quindi sei una majorette!

Ho sempre pensato che ogni volta che un insegnate arriva a questa conclusione, da qualche parte una maestra o un maestro di twirling muore. Un po’ come le fate di Peter Pan quando un bambino dice di non credere in loro. Stecchite. Solo che per rimediare non basta battere le mani, ma bisogna augurarsi di non essere a tiro di bastone. Il problema non riguarda le majorette ovviamente, ma è un po’ come dire che il rugby e il football sono la stessa cosa.

Tutto è iniziato quando avevo 5 anni. Una sera mia sorella tornò a casa stringendo in mano un lungo bastoncino argento, terminante in due pomoli bianchi, uno grande e uno piccolo. Con un movimento del polso, lo fece roteare sotto ai miei occhi.
Fu amore a prima vista. L’anno successivo mi iscrissi anch’io al corso.

Ok, ma cos’è il twirling? So che qualcuno di voi se lo starà ancora chiedendo.

Per risparmiarvi la googlata, vi riporto la prima frase di Wikipedia: “Il twirling è una disciplina ginnico-sportiva e uno sport individuale, di coppia e di squadra, maschile e femminile, caratterizzato dall’uso di un attrezzo denominato bastone e da movimenti del corpo che seguono con armonia una base musicale”. Se invece volete la mia versione, il twirling è stato una possibilità di provare piacere nel fare attività fisica nonostante la naturale goffaggine, una casa dove rifugiarmi, esprimermi e sfogarmi liberamente e soprattutto una famiglia. Poi ovviamente è stato lo sport che mi ha accompagnata dai sei anni fino ai ventotto e il genere di esperienza che auguro a tutti di provare prima o poi. Nello sport, come in qualsiasi altro campo.

Pensandoci bene, non so quale dovrebbe essere la formula ideale per introdurre un bambino allo sport. Una delle prime cose da mettere in chiaro probabilmente è che non ci sono scorciatoie e che i miglioramenti arrivano solo dopo tanto lavoro, costanza e pazienza. Non è una semplice formula magica, un just do it seguito da risultati eccelsi, giunti come per rivelazione. Anzi, diciamolo per onestà intellettuale: a volte i risultati non arrivano affatto.

Eccoci così alla seconda verità a cui sono giunta con il tempo: non tutti sono portati per le stesse discipline allo stesso modo e non bisogna sentirsi dei falliti se non si raggiungono determinati livelli. Sembrerà banale, ma quando vedo genitori riversare il loro bisogno di affermazione sui risultati sportivi dei figli, capisco quanto non sia scontato. Forse è complice un immaginario idealizzato, dove il modello a cui aspirare si traduce automaticamente nei campioni straordinari che gareggiano in tv, i quali però sono più l’eccezione che la regola. Un’eccezione fatta di sacrifici immensi e ore e ore di allenamento ogni giorno. Ammirevole, naturalmente, ai miei occhi perfino eroico, ma non tutti dobbiamo per forza puntare così in alto.

Per conto mio, sul fronte familiare sono stata molto fortunata: ho sempre fatto sport a livello amatoriale, senza grandi pretese, limiti o pressioni da parte dei miei genitori. Libera di godere dei miei appuntamenti settimanali in palestra o di lanciarmi con entusiasmo in ogni cosa. Pattinaggio sul ghiaccio, bici, trekking, nuoto (per la gran parte nel fiume d’estate), volano, gare di corsa a perdifiato nei prati. E poi il twirling, naturalmente. Molte iniziative terminavano con una spanciata colossale, ginocchia sbucciate ed ematomi sparsi più o meno in tutto il corpo, ma poco importava. Una spolverata dalla ghiaia, cerotto, pomata e ripartivo.

I primi attriti con lo sport sono arrivati tra la fine delle elementari e l’inizio delle medie, preceduti dalla frequentazione dei grest (per chi non lo sapesse, il nome dei centri ricreativi estivi in provincia di Brescia). È lì che i miei compagni hanno scoperto il piacere di prevalere sulle squadre avversarie. Un sentimento di competizione dove gli anelli deboli causavano inevitabilmente il malcontento generale. Una sorta di brodo primordiale, paradigma che crescendo ho ritrovato in una società che ci vuole sempre prestanti, secondo la logica del si mangia o si è mangiati. Homo homini lupus, insomma.

Per conto mio, da eterna simpatizzante dei perdenti quale sono sempre stata, feci la conoscenza di un sentimento ben più insidioso: l’ansia da prestazione. Un disagio accentuato dalla mia scarsa propensione verso gli sport che prevedessero una palla di qualsiasi misura (cioè praticamente tutti quelli praticati a livello scolastico). Il che ebbe come conseguenza che nelle ore di ginnastica ero sempre l’ultima ad essere scelta per la formazione delle squadre. La perdente della combriccola insomma. Quando poi l’insegnante mi eleggeva capitano era anche peggio: perché io ero l’elemento chiave di una sicura sconfitta.

Al tempo vivevo questa fama come un personale fallimento. Una macchia vergognosa sul mio curriculum scolastico. Un non essere abbastanza brava, agile, resistente. Col senno di poi, mi sono resa conto che nessuno dei miei compagni di classe bravi a pallavolo ha mai concluso niente in quel settore. O se lo ha fatto, non mi ha rivoluzionato la vita.

Per fortuna, con il twirling era diverso.

Non che abbia mai brillato particolarmente. Spesso mi sono caduti dei bastoni in testa (fanno piuttosto male), talvolta ho avuto delle giornate no, ma per il resto mi ha sempre resa immensamente felice. Alla base di questa opportunità di realizzazione credo ci sia una ragione molto semplice: nel gruppo della mia città nessuno resta in panchina, tutti possono mettersi in gioco e partecipare alla realizzazione degli esercizi finali. Fattore accompagnato da un’assenza di limiti anagrafici: si va dalle bimbe di sei anni, alle madri di cinquant’anni.

Certo, magari non ho raggiunto livelli straordinari e non ho mai partecipato a campionati, ma dubito che le mie sorti sarebbero state molto diverse in qualsiasi altra realtà. Senza contare che nel mio caso la felicità e gli insegnamenti non si misurano certo in medaglie.

Per esempio, il twirling mi ha dato molto: ho preso atto dei miei limiti e ci ho fatto pace, sono entrata in confidenza con il mio fisico cicciottello insalamato nei body e l’ho accettato (per una ragazzina nella società attuale non è affatto scontato). Ho imparato ad affrontare il pubblico durante le esibizioni (sebbene fosse costituito quasi esclusivamente da amici e parenti) e a gestire un pochino meglio lo stress.

Avrei raggiunto gli stessi risultati anche senza andare in palestra? Forse sì, ma mi sarebbe costato molto più tempo e fatica. Li avrei agguantati anche a un livello più alto? Da persona perennemente in ansia ne dubito, anzi, probabilmente avrei mollato molto tempo fa.

A qualsiasi livello, lo sport ha la bellezza di mettere le cose in chiaro fin da subito: per ogni passo avanti, ce ne sono altri dieci da fare. Una consapevolezza che, attiva uno stimolante processo di gestione dell’errore e rielaborazione del fallimento, almeno quando viene incanalata nel modo giusto. Le lezioni sono un continuo provare, sbagliare, insistere, riprovare, darsi da fare, tenere duro.

Mentre svolgi un esercizio di squadra, perdi il senso del limite tra individualità e gruppo: è un lavoro costante su di sé e sulle proprie capacità, una sfida che richiede concentrazione e impegno. Allo stesso tempo c’è una sfera più ampia: un atto di responsabilità verso le compagne, di coordinazione, affidamento e fiducia. La collettività, prima della competitività. Il sé al servizio del buon risultato di tutti, ma ben fuori dal dualismo vincitori-perdenti. Perché in fondo vinci sempre qualcosa nello sport amatoriale, o semplicemente non hai nulla da perdere. Una persona abituata a ragionare in termini competitivi lo leggerà come un atto di codardia, un non volersi mettere in gioco del tutto. Io l’ho sempre visto come una ricchezza. Quasi una rivoluzione.

Poi lavorando a così stretto contatto ho avuto l’opportunità di incontrare delle atlete meravigliose, ma soprattutto delle splendide amiche. Dalle mie ormai ex-compagne di squadra fino alla maestra, dalle bimbe fino alla responsabile del gruppo.

Ho appeso i bastoni al chiodo a settembre, quando coniugare gli orari di lavoro, quelli della palestra e i miei quasi trent’anni (acciacchi annessi) ha cominciato ad essere complesso. Non so se tornerò in futuro, ma mi piace pensare che sia vero quello che dice la nostra Manuela parlando della corsa: le passioni nate in gioventù ce le portiamo dietro tutta la vita.

In definitiva, il twirling mi ha permesso di assumere un punto di vista più ampio sulle discipline sportive e forse su di me. Di provare piacere dal non eccellere per forza e di farne un nuovo tassello per la felicità. Spesso ne parlo con la me stessa di sei anni, sepolta da qualche parte in fondo all’animo.

Le dico di non preoccuparsi, anche se facciamo ancora schifo a pallavolo. Di fare il meglio di sé, ma divertendosi.

Quando mi sento particolarmente ideologica, rivendico a gran voce il diritto di amarci nel nostro essere mediocri. Del provare piacere in quel che facciamo, anche se il risultato non sarà il massimo. Anche se non saremo mai delle supereroine.

Tanto la sufficienza in ginnastica l’abbiamo sempre presa.

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