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La formazione per allenare le soft skill

La velocità con cui ricerca e tecnologia cambiano l’ambito in cui ciascuno di noi lavora e opera impone una continuità al percorso della propria formazione. Eppure risulta difficile, in un’azienda, motivare gli investimenti nella formazione non strettamente “tecnica”, come è quella per le competenze trasversali. In questo articolo la risposta alle domande che si presentano a chiunque voglia investire sulla formazione delle soft skills.

Lettura 16 min.

Non ci sono dubbi sull’importanza di dare continuità alla formazione “tecnica”, perché è l’evoluzione stessa delle tecnologie e della ricerca, in qualsiasi ambito dell’operare umano, a imporre aggiornamenti continui. Risulta invece più difficile, in un’azienda, motivare gli investimenti nella formazione non strettamente “tecnica”, come è quella relativa alle competenze trasversali, alle soft skills.
Eppure, stando a quel che abbiamo visto nei molti articoli dedicati all’argomento in Skille, un buon livello delle soft skills dei dipendenti può incidere molto positivamente su processi e risultati aziendali. Fare formazione in questo campo diventa perciò molto utile, ma come fare?
Più specificamente: come si possono allenare le soft skills? E come si possono rilevare gli esiti di questo tipo di formazione?
Proviamo ad affrontare queste difficili domande, che inevitabilmente si presentano a chiunque voglia investire sulla formazione delle soft skills.

Sommario

Cosa sono le competenze?
Metodi per la formazione aziendale
T-Group e Action Learning
Utopia in azienda
Durata ed effetti della formazione
L’importanza della documentazione

Cosa sono le competenze?

I molti articoli Skille dedicati alle soft skills ne hanno descritto in modo approfondito l’importanza nella vita aziendale, collegandole a situazioni ben definite e alle dinamiche più generali dell’interazione. Si è parlato, ad esempio, di come gestire le riunioni e di come raccogliere i suggerimenti dei dipendenti, ma anche di idee e strumenti per affrontare problemi generali legati alla condivisione, all’engagement, all’esercizio della leadership, alla meritocrazia ecc.

A questo punto diventa necessario affrontare di petto una domanda difficile: quali caratteristiche deve avere una formazione orientata allo sviluppo delle soft skills?

Prima di tentare una risposta, può essere utile un chiarimento preliminare sul concetto di “competenza”, perché la parola viene usata in modi molto diversi e il suo significato nel “senso comune” resta vago. Facendo riferimento a un punto di vista abbastanza diffuso in letteratura, si possono considerare le competenze come combinazioni di conoscenze, abilità e attitudini (o atteggiamenti).

Traducendo in un’equazione:

COMPETENZE = (CONOSCENZE + ABILITÀ + ATTEGGIAMENTI)

Che cosa vuol dire? Un esempio sarà sufficiente a chiarirne il senso.
Consideriamo un caso familiare: la competenza di guidare bene un autoveicolo.

Tale competenza necessita di alcune conoscenze: ad esempio, quelle che vengono proposte durante le lezioni di scuola guida, necessarie per completare i test dell’esame. Per guidare bene è necessario conoscere la segnaletica, le regole del codice della strada, avere un’idea del comportamento della vettura in diverse condizioni (es: come aumenta lo spazio di frenata all’aumentare della velocità, l’esistenza del fenomeno dell’aquaplaning) e così via.

Nei testi per preparare l’esame si trovavano anche informazioni sulla struttura del motore e capitava di chiedersi: è davvero necessario avere queste conoscenze per guidare bene? I pareri in merito erano diversi.
Qualcosa di analogo succede anche nel campo della formazione sulle soft skills:

- È necessario che un buon manager conosca come funzionano i gruppi?

- Quali conoscenze dovrebbe avere un buon manager, per coordinare, condurre e “guidare” bene se stesso e i gruppi nelle relazioni quotidiane sul lavoro?
- Dovrebbe avere conoscenze di psicologia, di sociologia, di filosofia, oppure sarebbe pretendere troppo?

Se si risponde “no”, si dovrà spiegare perché tali conoscenze sarebbero ininfluenti; se si risponde “sì”, si presenterà un’altra domanda: quali, quanto e come dovrebbero essere approfondite tali conoscenze?

Passiamo ora dalle conoscenze alle abilità: per guidare bene un veicolo non bastano le “conoscenze” che possono essere apprese nell’aula di scuola guida o studiando un testo. Bisogna provare a guidare davvero, affinando la propria abilità nel fare. Quali e quante abilità si allenano dipende dalla “situazione formativa” e dal modo in cui si fa pratica.
Ad esempio: se mi alleno a guidare soltanto in una cittadina costiera di medie dimensioni, su strade asfaltate e piane, potrei trovarmi in difficoltà in altre condizioni (ad esempio nel traffico di una metropoli, su strade strette e sterrate di montagna, in salite o discese particolarmente ripide, su fondi stradali innevati o ghiacciati e così via).
Anche questi esempi possono essere presi come metafore delle innumerevoli situazioni che si incontrano nella vita aziendale: posso essere capace di “condurmi” bene nelle relazioni interpersonali quando queste avvengono in condizioni relativamente calme, “piane” e tra poche persone, ma potrei avere difficoltà quando l’intensità emotiva o la quantità degli scambi aumenta, quando ci sono persone “nuove”, quando cresce l’incertezza del “clima” aziendale e così via.

Le soft skills hanno a che fare proprio con la capacità di “condurci” nelle situazioni interattive più diverse e sono cruciali perché, come ha riassunto efficacemente un operaio di un’azienda metalmeccanica durante un incontro formativo, per lavorare bene è senza dubbio necessario “fare funzionare bene le macchine”, ma è altrettanto necessario “fare funzionare bene insieme le persone”.

Passiamo, per concludere, agli atteggiamenti.
Nel caso della guida, persone che hanno conoscenze e abilità simili possono comportarsi in modo molto diverso nella stessa situazione di traffico: c’è chi guida in modo prudente, chi in modo “aggressivo”, chi è titubante e così via. C’è chi fa mosse azzardate (un sorpasso ad esempio), anche quando sa che non andrebbero fatte (piano della conoscenza); a volte è proprio l’abilità a giocare brutti scherzi, alimentando un senso di eccessiva sicurezza (overconfidence), che può portare a sottovalutare dettagli importanti e, prima di tutto, i propri limiti.

Anche a proposito degli atteggiamenti si possono fare analogie tra la competenza di guida e le competenze relazionali nelle dinamiche aziendali.
Riassumiamo il tutto in questo schema:

Questa premessa era necessaria per mettere bene a fuoco quanto segue: sviluppare le soft skills richiede un lavoro combinato sui tre piani della conoscenza, dell’abilità e dell’atteggiamento. E così torniamo alla domanda di partenza: come si può fare?

C’è una differenza fondamentale di complessità tra le situazioni di guida (di autoveicoli) e le situazioni in cui si interagisce con altri esseri umani: come notava il sociologo tedesco Max Weber, paradossalmente proprio la nostra capacità di formarci aspettative reciproche e di proiettarci al futuro ci rende reciprocamente “imprevedibili”.
Nei gruppi ci sono trasformazioni “lente”, invisibili, che a volte si manifestano all’improvviso: lunghi periodi di “routine” (dove le sequenze delle interazioni si ripetono sostanzialmente uguali, in modo prevedibile) sono talvolta interrotti da passaggi di stato improvvisi, “endogeni” (quando certi “nodi” interni vengono al pettine); a volte le interazioni organizzative devono cambiare per tenere conto dei mutamenti esterni e, in questo caso, può essere difficile tenere insieme il cambiamento “voluto” (progettato, ipotizzato) con il cambiamento “effettivo”.
È proprio nel governare questo mix di prevedibilità e imprevedibilità che si rivela importante la sottile arte delle soft skills.

Metodi per la formazione aziendale

Non pretendiamo di offrire qui un quadro esaustivo dei metodi formativi (per chi volesse approfondire un buon punto di partenza è il libro di G.P. Quaglino, Fare Formazione, Raffaello Cortina, Milano). Vogliamo però dare un’idea generale di alcune opzioni metodologiche fondamentali, per aiutare il lettore a inquadrare le proprie scelte ed eventualmente a distinguere e a valutare gli approcci che incontra.

Consideriamo, per iniziare, la famiglia dei metodi con approccio prevalentemente “frontale”, tipico della “lezione” accademica:

  • Lezione (con o senza slides, con interazione limitata a domande, richieste di chiarimenti ecc.)
  • Discorso, conferenza (si pensi agli eventi TEDx)
  • Letture commentate (con eventuali discussioni, che fanno aumentare il livello dell’interazione)
  • Seminari (anche in questo caso il livello d’interazione è tipicamente più alto rispetto alla lezione, ma molto dipende dall’impostazione data da chi conduce il seminario)

Questi approcci privilegiano tipicamente il livello delle conoscenze, che come abbiamo visto sono soltanto una delle dimensioni delle “competenze”.

In queste proposte c’è spesso un assunto implicito, che deve essere messo in discussione: si ritiene, implicitamente, che le conoscenze possano essere trasferite da una testa all’altra con un “passaggio” di informazioni, quasi come se si facesse un travaso da chi possiede la conoscenza a chi ancora non la possiede. Lo scienziato Heinz von Foerster (che tra l’altro fondò, nel 1957, il Biological Computer Laboratory dove si incontrarono personaggi fondatori della cibernetica e della teoria dell’informazione come Norbert Wiener, Johann von Neumann, Gregory Bateson e Claude Shannon) usava l’immagine dell’Imbuto di Norimberga per commentare le premesse di questo approccio. In sostanza: spesso si insegna come se la conoscenza dovesse passare, come attraverso un imbuto, dalla testa di chi sa alla testa di chi non sa.

Molti di noi avranno avuto esperienze di lezioni illuminanti, efficaci, coinvolgenti. Ma non dovrebbe essere difficile ricordare lezioni il cui contenuto è apparso banale, oscuro, oppure è svanito rapidamente dalla memoria.
La formazione “frontale” incentrata sul passaggio di informazioni, eventualmente accompagnata da alcune “dimostrazioni” pratiche, può essere sufficiente quando si tratta di istruire all’esecuzione di compiti e a seguire procedure ben definite, mentre è limitante quando si tratta di allenare competenze complesse.
Da tempo si sottolinea l’importanza di ricorrere ad approcci che attivino i gruppi in formazione più di quanto riescano a fare gli approcci puramente “frontali”.
Ecco alcuni esempi:

  • Simulazioni
  • Studio di casi (reali o fittizi)
  • Auto-casi
  • Outdoor
  • T-Group (training group)
  • Action-Learning

Ogni punto include ovviamente una grandissima varietà di opzioni.

Nelle simulazioni rientrano giochi di ruolo (role-play) ed esercitazioni di varia natura. I partecipanti sono invitati ad agire e a ragionare proiettandosi in una situazione ipotetica, “come se” dovessero realmente affrontarla. Ad esempio, il modello “in-basket” (posta in arrivo) richiede ai singoli di prendere delle decisioni relative a una serie di documenti che sollevano vari problemi di natura organizzativa; in seguito si valuta come sono state prese le decisioni (delegando oppure no, delega con riserva, rinvio) e si possono confrontare le scelte individuali dei partecipanti, per poi aprire un confronto sul tema della decisione e della delega, “animato” dall’esperienza appena vissuta e dal riferimento a casi lavorativi (personali dei partecipanti o tipici dei contesti lavorativi).

Lo studio di casi può riguardare vicende reali o simulate (ad esempio partendo da situazioni raccontate dal cinema). L’interazione tra i partecipanti, in sottogruppi e/o in plenaria, dipende dalle “azioni” che vengono richieste: interpretare il caso di studio, fare ipotesi d’azione per affrontarlo e così via. A partire dallo stesso stimolo, qui il modo in cui il singolo formatore riesce a congegnare il compito può fare radicalmente la differenza.

Si parla di auto-casi quando i casi da discutere sono portati dagli stessi partecipanti, facendo riferimento alla loro esperienza lavorativa: si tratta di un metodo molto delicato da utilizzare e in genere da proporre a gruppi che non siano formati da colleghi di lavoro.

Le attività outdoor – all’aperto o comunque fuori dal contesto aziendale e d’aula in senso tradizionale – innestano la formazione sulle esperienze possibili in cornici diverse da quelle consuete e mettono spesso l’accento sul team-building, sul senso del limite, su questioni riconducibili a parole chiave come “rischio”, “sfida”, “imprevisto”, “novità” e così via. Se ben condotte, tali attività permettono ai singoli e al gruppo in formazione di “lavorare” su di sé grazie alla condivisione di un frame insolito, più o meno “spiazzante”.

Qui come in tutti i metodi “non frontali”, è importante non trascurare il piano delle “conoscenze”, che potrebbe restare sullo sfondo rispetto alle abilità d’interazione allenate. Se il formatore non riesce a correlare efficacemente i tre piani segnalati all’inizio (conoscenze, abilità e atteggiamenti) e se non riesce a fare emergere connessioni “sensate” tra le esperienze vissute e la realtà lavorativa ordinaria, si rischia di fare intrattenimento anziché formazione. E il fatto che l’intrattenimento proposto sia eccitante non significa che esso abbia davvero un potenziale formativo, né che possa incidere efficacemente sulle relazioni ordinarie sul posto di lavoro, facendole migliorare.

Perché le conoscenze (teorie, concetti ecc.) sono utili? Perché servono come chiavi di lettura polivalenti delle esperienze e possono guidare il buon esercizio delle proprie abilità, aiutando a trasferire le abilità da un contesto all’altro, da una cornice all’altra.

T-Group e Action Learning
Questi due modelli meritano un approfondimento particolare, considerando il significato che possono assumere nell’allenamento delle soft skills.
Il modello del T-group (sensitive training group) è stato concepito negli anni Quaranta, introdotto da Kurt Lewin, uno dei più influenti psicologi sociali del XX secolo.
L’idea fondamentale può essere riassunta così: creare una dinamica in cui il gruppo (in genere 8-15 partecipanti) diventi soggetto, strumento e oggetto di apprendimento. Come può accadere? Il formatore propone al gruppo un problema da affrontare e il lavoro del gruppo attorno al problema diventa parte del problema e, al tempo stesso, occasione per darsi feedback reciproci, per sperimentare come esprimersi, per migliorare la propria consapevolezza delle dinamiche di gruppo. Per questa ragione il T-Group diventa anche occasione per allenare la propria “sensibilità”, la propria capacità di “sentire” (sensitivity training) le dinamiche di gruppo, ciò che gli altri “sentono” e come “risentono” di quel che accade.
In sintesi, nel T-Group:

  • piccoli gruppi “non strutturati”, affrontando un problema, diventano per se stessi strumento e oggetto d’apprendimento: si impara dalle proprie azioni e interazioni;
  • ci si concentra sul “cosa”, sul “come” e sul “perché” della comunicazione;
  • si affina la sensibilità alle dinamiche di gruppo imparando a “leggerne” lo sviluppo e migliorando la consapevolezza sugli effetti del proprio comportamento sugli altri (o del comportamento degli altri su di sé);
  • si allena la “riflessività”, cioè la capacità di riflettere sulle esperienze che si stanno vivendo, prendendo (dinamicamente) in considerazione alternative che migliorino l’interazione con gli altri;
  • si esercita la capacità di dare e recepire feedback significativi.

L’ipotesi formativa prevede che l’affinamento di questa sensibilità porti a riflettere e ad agire diversamente anche nelle dinamiche lavorative: questo è il “rientro” nel lavoro ordinario di ciò che accade nel frame della formazione. Naturalmente l’esito dipende in gran parte dal problema affrontato e dal modo in cui il formatore introduce e “contiene” il lavoro di gruppo.

Il metodo dell’Action Learning risale invece agli Anni Settanta e ha come iniziatore Reg W. Revans. La mossa fondativa sta nel legare apprendimento e azioni quotidiane nei contesti lavorativi. Si parte qui da un progetto o da un problema reali, affrontati in gruppo.
I gruppi, con il supporto del committente e assistiti da uno specialista nella formazione degli adulti, dispongono di risorse (tempo e budget) per procedere nel loro lavoro: si affronta il problema/progetto e si impara da quel che si fa, dai tentativi, dalle difficoltà, dagli errori e così via.
Le conoscenze che il formatore introduce rendono ragionato il fare, cioè l’esercizio e l’affinamento delle abilità, e aiutano a riflettere sui propri atteggiamenti.
Riassumendo il progetto in uno schema, si ha quanto segue:

Utopia in azienda
Vediamo ora un’originale esperienza di formazione sulle soft skills, sperimentata in diversi contesti ma inaugurata e messa a punto nell’azienda metalmeccanica di Bonate Sotto, la Record Spa.
Un primo aspetto singolare dell’esperienza è che essa ha permesso di lavorare in momenti diversi con tutti i dipendenti dell’azienda. Il punto di partenza del primo episodio formativo (in un ciclo di diversi episodi) è stato un problema che, nell’affrontarlo, fa emergere molti nodi ricorrenti della vita organizzativa reale: l’esperimento mentale dell’utopia.
Si tratta di un caso/problema simulato che risulta fortemente sfidante e coinvolgente per i gruppi, in quanto propone uno dei grattacapi organizzativi più antichi e complessi mai concepiti nella storia del pensiero: l’esperimento mentale sfida ad immaginare insieme ad altri un’organizzazione ideale, ma ragionare sull’ideale costringe a ragionare al tempo stesso sull’effettivo, sull’auspicabile e sul confine a volte controverso tra ciò che è possibile e ciò che è impossibile.

In generale, si può dire che l’utopia che un gruppo è capace di immaginare e il modo in cui si prendono (o non si prendono) decisioni sui singoli “nodi” dell’esperimento mentale dicono molto a proposito di quel gruppo.
Il compito non ha un livello di difficoltà predefinito: affrontando le fasi dell’esperimento mentale, in una sequenza studiata per fare emergere i problemi cruciali della vita organizzativa, è il gruppo stesso a determinare livelli crescenti di difficoltà nel compito, quanto più riesce a immaginare obiezioni e alternative alle ipotesi che esso genera. In altri termini, il gruppo incontra e sfida i limiti del “già detto” e del “già pensato”, per avventurarsi nell’impensato organizzativo e riflettere di conseguenza, in modo inedito, sulle proprie potenzialità.
All’inizio può sembrare di essere distanti dai problemi della vita aziendale, ma a un certo punto, improvvisamente, ci si accorge di essere molto vicini. Se ne accorgono così due partecipanti:

  • A: Posso chiedere una cosa: al posto di parlare di un’isola immaginaria [di utopia], che non esiste, se provassimo a parlare dell’azienda invece?
  • B: L’isola è una specie di metafora: prendila come metafora.
  • A: I problemi di cui parliamo adesso, se prendi l’azienda, saltano fuori uguali. L’isola non esiste, l’azienda è qua. Parliamone.

Il punto è che l’utopia-metafora permette di parlare di nodi molto intricati “a distanza di sicurezza” dai vissuti aziendali, ma al tempo stesso in modo da cogliere i nessi e i “rientri” possibili tra la simulazione e la vita lavorativa. Questo potenziale collegamento può essere sviluppato in seguito, elaborando ipotesi anche molto articolate sui margini di miglioramento possibili per la qualità delle interazioni nella propria organizzazione.

Combinando alcuni principi cruciali del T-Group e dell’Action Learning, un ciclo di incontri formativi “innescato dall’utopia” allena ad affrontare in modo creativo i problemi cruciali di ogni organizzazione, stimolando la ricerca del difficile equilibrio tra il senso di possibilità e il senso di realtà, che generalmente sono “tarati” in modo differente nei singoli componenti del gruppo.

L’esperimento mentale dell’utopia permette a chi lo affronta di riflettere sulla propria organizzazione da punti di vista inediti, potenzialmente generativi di miglioramenti sui piani della comunicazione interna, della cooperazione e del “clima” aziendale.

Decisiva in tal senso è la seconda fase del lavoro, che accompagna i partecipanti nella ricerca di nuovi e migliori allineamenti tra i quattro piani del vissuto organizzativo (l’effettivo, il presunto, i miglioramenti auspicati e i miglioramenti consentiti).

Data l’importanza attribuita alle tre dimensioni delle competenze citate in apertura, per le diverse tappe del percorso formativo sono dichiarati in partenza i saperi, le abilità e gli atteggiamenti su cui si lavorerà in modo più diretto.
Ecco, ad esempio, una visione parziale della Scheda che accompagna il progetto.
Nel “ritaglio” qui proposto si evidenziano i saperi e alcune delle abilità oggetto di particolare attenzione:

Ecco, per concludere, alcune battute dall’utopia (trascrizioni fedeli del parlato), tra le righe delle quali si possono intuire i problemi affrontati e l’affiorare di difficoltà e di intuizioni promettenti:

  • «Ecco perché iniziamo già ancor prima di attraccare all’isola… iniziamo con le diatribe. I conflitti iniziano già prima che ci sbarchi, no?»
  • «Il confronto ti rende più voglioso»
  • «Se ognuno si focalizza solo sul proprio problema, diventa un grande problema»
  • «Il fatto di parlare troppo non va bene, ma il non parlare aumenta le tensioni. Ci vuole una via di mezzo»
  • «Noi ci conosciamo? Non pensiamo mica di andare d’accordo con tutti perché andiamo sull’isola?»
  • «Mi stavo chiedendo: c’è un 30% che non ha parlato e nel nostro gruppo non sappiamo neanche cosa vuole»
  • «Siamo partiti facendo un sogno e sta diventando un incubo»
  • «Eh, ma noi potremmo essere un gruppo… che comunque non ce la facciamo. Cioè, non è detto che riusciremo a realizzare… potremmo morire sulla nave prima di arrivare all’isola… Così com’è una tenda non riusciamo a piazzarla»
  • A: «Se andavo da solo sarebbe stato più facile»;
    B: «C’è una premessa, siamo noi e l’isola. Non c’è altra ipotesi né altra premessa. Questa è la nostra realtà»
  • «L’azienda tenta di creare gruppo, ma non è concepito da tutti come una cosa positiva, purtroppo. Non tutti hanno la sensibilità di capire che il problema più grosso sono i problemi relazionali. Che sono più difficili da affrontare dei problemi tecnici»

Durata ed effetti della formazione

Non esistono ricette universali per definire tempi ed effetti della formazione.
Questioni e problemi circoscritti possono essere affrontati con momenti formativi ad hoc, in sede o residenziali. Ad esempio, per migliorare in modo significativo la gestione delle riunioni, mettendo a punto modelli adatti a tipologie diverse di riunione, può essere sufficiente un ciclo di pochi incontri, che permetta di mettere a fuoco in modo coinvolgente la natura del problema e di studiare strategie di miglioramento monitorabili e rivedibili nel tempo.

Per questioni più complesse, come la gestione dei conflitti o il miglioramento della comunicazione tra livelli gerarchici diversi (o tra pari), l’allenamento richiederà tempi più lunghi e in alcuni casi si dovrà entrare nella prospettiva dell’apprendimento continuo.
Facendo un parallelo con lo sport, si può dire che anche nelle dinamiche aziendali le partite da giocare sono sempre diverse e i tracciati su cui correre cambiano col tempo. Un buon atleta ha bisogno di allenarsi continuamente per migliorare la propria performance o anche semplicemente per mantenere il livello di performance già raggiunto.

La domanda sulla durata della formazione può essere riformulata così: quanti margini di miglioramento e quanti “attriti” penalizzanti ci sono nelle relazioni tra gli attori organizzativi? Finché ci sono attriti penalizzanti e margini di miglioramento una buona formazione è utile e dunque è auspicabile che continui.
Accade quel che accade per gli atleti: la formazione (training, allenamento) fa sì che l’atleta “lavori” sulle proprie abilità, focalizzando l’attenzione di volta in volta su aspetti specifici della propria preparazione: le abilità acquisite in un dato momento non possono essere “congelate” e mantenute senza esercizio, ma evolvono, sono esposte per così dire alla legge dell’entropia e della decadenza. L’allenamento è l’impegno continuo nel governare questa evoluzione. A volte si tratta di espandere il ventaglio delle azioni possibili, a volte di far sì che l’atleta riesca a rispondere prontamente (con la giusta “presenza mentale”) alle sempre imprevedibili “reazioni” con cui gli altri e l’ambiente rispondono alle sue azioni.

Per questo risulta anche difficile “misurare” l’esito della formazione sulle soft skills e definire in anticipo tutti gli obiettivi: parte dei bisogni formativi e degli obiettivi emergono di solito mentre si fa formazione. Ciò tuttavia non può diventare un alibi per evitare di affrontare la spinosa questione degli “effetti” della formazione.

Insomma, non dovrebbe capitare quel che mi disse una volta il dipendente di un’azienda, riferendosi ad un corso di formazione sulla comunicazione interpersonale affrontato alcuni anni prima: si era trattato di una lezione/seminario prevalentemente frontale, che aveva dato nuovi spunti alle persone già sensibili al problema, ma aveva lasciato completamente indifferenti coloro per i quali il corso era di fatto più urgente, cioè coloro che apparivano meno sensibili all’importanza del tema. Inoltre, non era possibile indicare effetti significativi e persistenti di quell’incontro sul piano delle dinamiche aziendali.

Una buona formazione deve aspirare ad avere degli effetti tracciabili e a riconoscerli, pur restando consapevole (e condividendo tale consapevolezza col committente) del fatto che gli effetti non sono sempre misurabili, perché sono “sotterranei”, poco visibili.
A volte si tratta di “piccoli cambiamenti” che solo per cumulazione progressiva danno grandi effetti (secondo un principio di non linearità che attraversa tutti i sistemi naturali: dalla cumulazione di piccole variazioni si hanno a un certo punto cambiamenti rilevanti improvvisi).

L’importanza della documentazione

Un’ultima, breve annotazione deve essere dedicata alla documentazione.
A volte il formatore consegna delle dispense preconfezionate, che riassumono i punti toccati durante il percorso, ma non permettono di ripercorrere la specificità del processo che ha coinvolto i partecipanti e non aiutano a collegare ciò che accaduto durante la formazione e ciò che accade in azienda.

È auspicabile invece che la documentazione aiuti a ripercorrere il processo cognitivo/emotivo vissuto dal gruppo, stimolandone e sostenendone a distanza la ristrutturazione cognitiva e pratica sul piano delle soft skills, ristrutturazione a cui una buona formazione dovrebbe introdurre.

La documentazione in questa prospettiva aiuta: sia come “dispensa” personalizzata, sia come infografica o manufatto situato in punti chiave dell’azienda, promemoria visibile di una conquista cognitiva comune o di una scoperta/un impegno condivisi.
Ciò che non è documentato in modo “personalizzato” non lascia traccia. Se teorie, concetti e ipotesi di lavoro vengono ripresi “con le parole” dei gruppi e agganciati alle ipotesi di cambiamento, tutto diventa più sensato e comprensibile per tutti.

Fare formazione significa per me accompagnare singoli e gruppi nell’esplorazione delle proprie possibilità non ancora pensate, attraverso la creatività e l’intelligenza collettiva che il gruppo stesso può sprigionare, se messo in condizione di lavorare bene.
Qui, come nell’artigianato, sono la mano e la cura del formatore a fare la differenza e in questa prospettiva la documentazione diventa importante come mappa e registro delle scoperte fatte esplorando l’impensato organizzativo.

Checklist

Verifica con questa breve verifica come viene svolta l’attività formativa nella tua azienda. E se avviene nel modo corretto.

  1. La formazione sulle soft skills fatta finora in azienda (se c’è) è stata rivolta o potrebbe essere rivolta a tutti i dipendenti?

  2. La formazione sulle soft skills fatta finora in azienda (se c’è) ha “toccato” in modo chiaro le tre dimensioni delle “competenze” (conoscenze, abilità, atteggiamenti)?

  3. Il formatore, interrogato a bruciapelo, sa citare metodi formativi diversi dal proprio e specificare le ragioni delle proprie scelte metodologiche?

  4. Qual è il rapporto tipico tra formazione “frontale” e formazione non frontale nel lavoro fatto finora sulle soft skills in azienda?

  5. Sapresti citare degli effetti visibili e significativi della formazione sulle soft skills svolta finora in azienda? Quanti? Di che portata (breve/medio/lungo termine, quanti dipendenti coinvolti…)?

  6. La documentazione dell’attività formativa svolta ha l’aria di essere “preconfezionata”? (preconfezionata = preparata prima degli incontri e potenzialmente distribuibile così com’è in qualsiasi altra azienda e situazione formativa)

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