93FE310D-CB37-4670-9E7A-E60EDBE81DAD Created with sketchtool.
< Home

Gianni Canova e l’allarme per l’ignoranza al potere (e la cultura che non sa parlare al Paese)

Intervista. L’ultimo libro “Ignorantocrazia”, l’industria culturale e il cinema oggi. Il rettore della IULM, grande critico cinematografico, il 25 gennaio a Villa d’Ogna grazie a Presente Prossimo

Lettura 3 min.

LR: Venendo al suo ultimo libro: lei evidenzia come alla base dell’ignorantocrazia ci siano due fattori. La progressiva ignoranza che si sta diffondendo in Italia e la mancanza di una industria culturale.

GC: Purtroppo il nostro è un Paese profondamente ignorante. Lo dicono i dati in maniera inequivocabile. Pensi che siamo la nazione occidentale con la scolarizzazione più bassa in assoluto. Questo è un problema enorme: perché l’ignoranza una volta era anche uno sprone per migliorarsi, per studiare e apprendere. Io sono figlio di valligiani bergamaschi e mio padre, socraticamente consapevole del suo “non sapere”, mi ha spinto a costruirmi un’istruzione. Oggi se la competenza è diventata un disvalore e l’ignoranza la normalità è normale un ripercuotersi in ambito politico. Perché ignorantocrazia significa proprio “ignoranza al potere”.

LR: Ma il diffondersi dell’ignoranza e l’assenza di un’industria culturale sono anche elementi che si influenzano fra loro.

GC: Senza dubbio si nutrono l’una dell’altra. Gli arroccamenti su posizioni elitarie da parte di chi ha in mano la cultura e lo snobismo con cui questa stessa cultura tratta i consumi culturali cosiddetti “popolari”, così come la mancanza di interesse nel creare condivisione da parte della scuola e dell’università contribuisce a creare tutto questo. Tuttavia non è una questione di appartenenza politica, io da tempo ripeto che chiunque abbia governato in Italia negli ultimi trent’anni non ha mai messo la cultura al centro del dibattito. E questi sono i risultati.

LR: Secondo il suo pensiero il cinema d’autore e quello popolare sono estranei fra loro e in qualche modo rappresentano molto bene il distacco che esiste fra le élite culturali e il cosiddetto “popolo”. Tuttavia quello di “autore” per il cinema rivoluzionario e innovativo degli anni sessanta era un concetto fondamentale e dalla forte carica sovversiva. Quale significato ha oggi per lei, il termine “autore”?

GC: Direi che ha messo il dito nella piaga. Per la Nouvelle Vague la “politique des auteurs” è stata senza dubbio un manifesto rivoluzionario, e in effetti parlare di autori allora aveva un significato molto più ampio di quello che gli assegniamo oggi. Registi come Fellini, Leone, Monicelli oppure Ford, Wilder e Hitchcock erano capaci di fare un cinema popolare, spesso anche di genere, ma con uno sguardo personale e assolutamente autoriale. Oggi abbiamo registi ancora in grado di muoversi con una logica simile, penso a Guadagnino, che con “Suspiria” prende uno dei cult del cinema horror italiano e lo reinterpreta con il suo stile e la sua idea di messinscena, creando un capolavoro. Diversamente il termine autore oggi rischia di designare dei registi autoriferiti, capaci solo di fare cinema per loro stessi e non per il pubblico. Questo modo di ragionare mi fa accapponare la pelle: fare cinema significa sempre confrontarsi con un pubblico.

LR: Chi fa certamente un cinema popolare e di grande successo è Checco Zalone. Il vero e proprio caso cinematografico italiano di questi ultimi anni.

GC: Io sono un grandissimo fan di Checco. E non da ora. Penso anzi di essere stato uno dei primi a scrivere un libro su di lui. Credo sia il miglior comico italiano e senza dubbio il migliore che ci sia a fare finta di essere scemo. Ma ancora prima lo ritengo un eccellente musicista. La sua esperienza e bravura come jazzista lo rendono una sorta di “uomo-orchestra”. Quest’ultimo film (“Tolo tolo”, ndr) ha avuto un successo forse inferiore rispetto a “Quo vado” perché Checco ha osato. Ha deciso di affrontare un tema scomodo e l’ha fatto rinunciando a Gennaro Nunziante, il vero direttore dell’orchestra Zalone in tutti i film precedenti. Tuttavia il Checco regista mi piace perché dà la sensazione di poter gestire ogni aspetto del suo enorme bagaglio comico.

LR: E invece della querelle fra Martin Scorsese e i fan dei film della Marvel cosa pensa?

GC: Non amo i film Marvel, ma quando ho visto l’ultimo capitolo della saga Avengers (“Avengers: Endgame”, ndr) ho visto un ragazzino di dieci anni di fianco a me commuoversi fino alle lacrime. Non capisco come uno della statura di Scorsese possa affermare che quello non è cinema. Le emozioni che suscita in così tante persone vanno rispettate e non si può pensare che quello che proviamo per “The Irishman” abbia meno valore di quello per un film della Marvel. Sì, credo che Scorsese abbia sbagliato.

LR: Qualcuno però potrebbe ribattere che Scorsese è costretto a farsi produrre i film da Netflix, restando fuori dalle sale, perché le sale sono tutte occupate dai film della Marvel e simili…

GC: Non è assolutamente così! Inoltre il suo film è costato di più della media dei film hoolywoodiani di oggi. E se i film Netflix non vanno in sala è perché le cose stanno così. Per esempio “Joker” – che non è un film Netflix – va in sala e incassa tantissimo, non vedo dove sia il problema.

LR: Ma lei della sala cosa pensa? Crede realmente che rischi di scomparire? Ai festival cinematografici questo è uno dei dibattiti più accesi.

GC: Sto dalla parte del direttore della mostra del cinema di Venezia (Alberto Barbera, il quale ha aperto a Netflix, contrariamente al festival di Cannes in cui i film prodotti per le piattaforme streaming non hanno accesso a meno che non passino prima in sala, ndr). Secondo me la democratizzazione della visione è una cosa giustissima e ognuno è libero di vedere i film dove gli pare. Poi per quanto mi riguarda l’esperienza della visione in sala è insostituibile. È qualcosa che ha delle connotazioni sensoriali ed emozionali uniche e non deve assolutamente essere persa.

Sito Festival Presente Prossimo

Approfondimenti