Da Guadagnino ai Safdie, dai Dardenne a Pálmason, ecco una guida alle storie che raccontano la vita quotidiana, la lotta interiore e le sfumature dell’umano.
«L’amore che rimane» di Hlynur Pálmason
Diretto dall’islandese Hlynur Pálmason, tra i registi più interessanti e promettenti del cinema europeo contemporaneo, arriva uno dei film più sorprendenti dell’anno. Presentato al festival di Cannes lo scorso maggio, «L’amore che rimane» trova finalmente distribuzione anche qui da noi e il consiglio è quello di non lasciarselo scappare. Il film, ambientato in Islanda, racconta la storia di una famiglia in dissoluzione: due genitori che si stanno separando e tre figli adolescenti che quasi non se ne accorgono, immersi in un quotidiano fatto di silenzi e gesti ripetitivi. Perché mamma e papà – lei scultrice, lui pescatore – cercano in ogni modo di rendere la separazione il meno dolorosa possibile. Intorno a loro la natura mastodontica e potente dell’estate islandese, con la sua luce interminabile, i suoi silenzi riempiti dal suono del vento, dell’acqua e della voce degli animali e i suoi spazi aperti e solitari.
Ma che cosa racconta «L’amore che rimane»? Forse nulla, forse tutto. Come ci ha abituati il cinema di Pálmason, è un racconto di realtà: lucida, fredda, contraddittoria, fatta di drammi e di un presente che scivola via veloce. Eppure, allo stesso tempo, capace di accendersi di magia e meraviglia, catturando l’invisibile, il fragile, l’irripetibile in uno sguardo, in un gesto di dolcezza. Il regista non cerca colpi di scena spettacolari: preferisce costruire il proprio racconto attraverso sguardi misurati, gesti quotidiani, momenti di tenerezza e fragilità che rivelano – con estrema delicatezza – la complessità di una famiglia che cambia, e con essa la sua idea di casa, amore, legami. In questa prospettiva, emerge la capacità di trasformare il quotidiano in cinema di grande profondità, tessendo un racconto che sembra minimale e invece vibra di complicità, nostalgia, malinconia e speranza. Ogni inquadratura è misurata, ogni gesto dei personaggi è carico di significato. I figli, osservatori quasi silenti, diventano specchi della fragilità umana, del modo in cui la vita continua anche quando le strutture familiari cambiano. E il fatto che Pálmason scelga di lavorare con i propri figli come attori, aggiunge uno strato ulteriore di autenticità: ciò che vediamo sullo schermo è vita e cinema nello stesso tempo, ed è questa fusione a renderlo così straordinario. Quasi che a essere messa in scena fosse la vita del regista e allo stesso tempo la nostra, quella di tutti. Come solo il grande cinema sa fare.
Durata: 1h49
In programmazione dal 4 dicembre
«The Smashing Machine» di Benny Safdie
I fratelli Safdie, tra i registi più interessanti e celebrati del nuovo cinema d’autore americano, dopo una dozzina di lavori insieme tra corti, lungometraggi e documentari, si sono divisi. Se il prossimo film di Josh, «Marty Supreme», con Timothée Chalamet nei panni del campione di tennistavolo Marty Reisman, è uno dei titoli più attesi della stagione autunnale, «The Smashing Machine», diretto da Benny – il più giovane dei due, noto anche come attore – ha già conquistato il «Leone d’argento» per la miglior regia all’ultima Mostra di Venezia. Non è un caso che entrambi i film siano incentrati sulla storia sportiva di un atleta, non celebre né particolarmente vincente.
«The Smashing Machine» racconta infatti la vita di Mark Kerr, campione di arti marziali miste, segnato da una vita difficile da cui è uscito a pezzi, ma dentro la quale è stato anche capace di trovare una sorta di redenzione. Kerr (interpretato da uno straordinario Dwayne «The Rock» Johnson), stella nascente della lotta libera nei primi anni Novanta, esordisce nel 1997 nel circuito dell’MMA e qui, dopo un iniziale ascesa fatta di vittorie, inizia un lento declino causato dalla dipendenza da steroidi e antidolorifici e da un rapporto tormentato con la moglie Dawn (Emily Blunt), dal quale riuscirà a risollevarsi anche grazie all’aiuto dell’amico fraterno Mark Coleman (Ryan Bader).
Safdie, che spoglia la storia di qualsiasi retorica o compiacimento estetico, similmente a quanto fatto da Aronofsky con «The Wrestler», costruisce un film che parla soprattutto di corpo: quello grande, grosso e possente di Johnson, che è però un concentrato di fragilità. Il film si muove costantemente su questa contraddizione apparente: la violenza, la cattiveria, a volte eccessiva, di un uomo che trova nel combattimento un luogo di esaltazione totale, e la fragilità, il fallimento, la perdita di ogni certezza nella vita quotidiana. È in questo spazio intermedio che Safdie inserisce la sua macchina, seguendo Kerr con uno sguardo preciso eppure rispettoso, mostrando il prezzo fisico e psicologico del ring senza indulgere nel melodramma. Lì dentro il film racconta la precarietà dell’umano, la tensione tra forza e vulnerabilità, e ci costringe a confrontarci con l’idea che il vero combattimento non si svolge solo sul tappeto: la sfida più difficile da affrontare, da battere e da sopportare è la vita quando si mette di traverso. Forse è proprio per questo che il regista sceglie un atleta che non è mai diventato una star, che non ha scritto leggende né conquistato un posto nella storia dei campioni: per parlare di normalità, e mostrare come, anche dentro corpi straordinari e vite fuori scala, si nasconda la stessa umanità che ci contraddistingue tutti.
Durata: 2h03
In programmazione: Uci Orio e Curno, Arcadia Stezzano, Starplex Romano e Anteo Treviglio
«After the Hunt - Dopo la caccia» di Luca Guadagnino
Il nuovo film di Luca Guadagnino, come tutti i suoi ultimi lavori girato e ambientato negli Stati Uniti, è ancora una volta diversissimo da tutto il suo cinema precedente, elemento che dimostra una libertà formale e tematica che ormai è diventata il suo marchio più riconoscibile. «After the Hunt» è un oggetto stratificato, ambiguo, costruito come un thriller morale ma attraversato da un’ironia cupa, quasi da esperimento sociologico. Ambientato nel 2019 all’interno del campus dell’università di Yale, è incentrato intorno a un’accusa di molestie mossa nei confronti di Hank (Andrew Garfield), un assistente della cattedra di filosofia, da parte di Maggie (Ayo Edebiri), una sua dottoranda. Coinvolta direttamente in questa vicenda è la titolare dell’insegnamento e diretta responsabile di entrambi, Alma (Julia Roberts), che inizialmente fatica a prendere posizione e una volta deciso di stare dalla parte della ragazza, vede lentamente il proprio mondo venire messo in discussione da una serie di rivelazioni, ambiguità e contraddizioni che non solo incrinano le sue certezze morali, ma la costringono a confrontarsi con la fragilità del ruolo che occupa e con i compromessi nascosti sotto la superficie impeccabile dell’ambiente accademico.
L’università come luogo di privilegio, di protezione reciproca, di piccole ipocrisie accademiche: «After the Hunt» racconta un microcosmo popolato da personaggi disincantati in cui la questione del #MeToo è meno centrale di quanto sembri. Guadagnino non si cura di stabilire chi abbia ragione: preferisce tenere lo spettatore in bilico, sfruttando la vicenda come pretesto per una sorta di character study. Il cuore del film non è il mistero dell’evento, ma la dinamica quasi speculare tra le due protagoniste. Alma e Maggie parlano molto, spesso con frasi che rimbalzano loro addosso come boomerang. Ogni accusa, ogni ammonimento, ogni micro-lezione morale sembra poter essere rivolto anche a chi la pronuncia. Un sistema chiuso, un circuito di specchi: ognuna vede nell’altra ciò che rifiuta di riconoscere in se stessa. E quando il film giunge alla sequenza finale – quella che dà il titolo all’opera – si capisce il senso ultimo di tutto il racconto. Le due donne, dopo aver attraversato un intero percorso di sospetti, solidarietà intermittente e continue rinegoziazioni dei propri ruoli, rivelano con una naturalezza agghiacciante di non aver capito niente: continuano a muoversi nella negazione, incapaci di afferrare la verità che le riguarda. Forse è il film più cupo di Guadagnino, ma anche uno dei più lucidi, capace di osservare uno dei nodi culturali del presente mostrandone la complessità e le innumerevoli sfumature che lo accompagnano.
Durata: 2h18
Disponibile su Prime video
«Giovani madri» di Jean-Pierre e Luc Dardenne
I fratelli Dardenne tornano a fare ciò che sanno fare meglio: prendere una realtà che molti preferirebbero ignorare e trasformarla in un cinema che ci obbliga a interrogarci non solo su cosa pensiamo di certi temi, ma anche su come ci poniamo di fronte ad essi, soprattutto per il modo in cui li osserviamo. Ma questa volta c’è qualcosa di diverso. Il film sembra respirare a un ritmo più lento, quasi esitante, come se anche la macchina da presa avesse bisogno di trovare il proprio passo all’interno del microcosmo che esplora, cercando la grazia, il rispetto e la giusta distanza. La storia è quella di quattro adolescenti – Celia, Céleste, Aisha e Marla – che vivono in una casa di accoglienza per giovani madri a Liegi, dopo passati familiari difficili e gravidanze inattese. Con i loro neonati cercano di ricostruire un equilibrio mentre le educatrici le aiutano a ritrovare stabilità e autonomia.
Le loro strade, inizialmente unite, cominciano progressivamente a separarsi, tra fragilità personali e tentativi di immaginare un futuro possibile. Giovani donne che sono madri per davvero e le cui storie, pur filtrate dalla finzione, sembrano quasi frutto di un racconto documentario. I Dardenne abbandonano il consueto sguardo sul singolo – il loro cinema è diventato celebre e ha fatto scuola, per come è sempre stato in grado di raccontare attraverso esperienze di singoli personaggi “pedinati” in maniera incessante dalla macchina da presa a mano posta appena dietro le spalle e la nuca, temi di marginalità universali – per attestarsi su un piano plurale, collettivo che rende il film più irregolare del solito, ma anche più vero. Lo stile è quello asciutto di sempre, ma il controllo sembra meno ferreo e a tratti i Dardenne sembrano lasciare in sospeso alcuni dettagli, con storie appena accennate, altre trattenute, altre ancora abbandonate. Non si tratta di errori o trascuratezza ovviamente, ma del tentativo di rendere attraverso la forma l’incompiutezza e l’incompletezza delle vite che si mettono ad osservare. E alla fine, ciò che resta non è una tesi, né una denuncia e nemmeno un programma etico, ma una sorta di esitazione: l’impressione che la fragilità non sia un tema sociale, ma una condizione umana che ci riguarda tutti. I Dardenne non ci chiedono di empatizzare con queste giovani madri – sarebbe troppo facile – ma di riconoscere, nel loro sforzo di tenere insieme ciò che costantemente rischia di cadere a pezzi, qualcosa che somiglia molto alla nostra lotta quotidiana.
Durata: 1h55
In programmazione: Conca verde e Anteo Treviglio
