Sette anni. Tanto c’è voluto a Brian De Palma per concepire, produrre e realizzare “Domino”, il suo trentesimo film in uscita l’11 luglio. Un tempo lunghissimo che basta quasi da solo a rendere l’idea del travagliato percorso che il progetto ha affrontato sin dall’inizio. Una serie di ostacoli, problemi, incomprensioni che ha fatto di “Domino” prima una sorta di film fantasma – di cui si sapeva tutto e niente e del quale a un certo punto si sono perse le tracce – e poi un’opera ibrida, contorta e anodina: disconosciuta dal proprio autore e massacrata dalla critica. Eppure qualcosa di talmente unico e singolare da non passare per niente inosservato. Ma andiamo con ordine…
Dopo “Passion” (2012), De Palma ha attraversato una fase molto problematica dal punto di vista produttivo. Faticando a trovare i soldi per finanziare i propri progetti e finendo lentamente ai margini di Hollywood. Per questo motivo ha accettato la proposta di venire in Europa, beneficiando di fondi danesi – e di una sceneggiatura scritta dall’autore norvegese Petter Skavlan – per produrre un nuovo film. Il risultato è un’opera girata fra la Danimarca e la Spagna, con un cast internazionale (ma senza attori americani) fra cui ben due star de “Il trono di spade” e come unica e vera presenza depalmiana il vecchio collaboratore Pino Donaggio a firmare, ancora una volta, le musiche.
Tuttavia subito dopo l’uscita De Palma ha decisamente preso le distanze dal film. Accusando i produttori di pesanti tagli (si parla addirittura di un’ora in meno rispetto al metraggio originale) e lamentando una paternità che non ha mai sentito sua, soprattutto per il fatto di non avere (per la prima volta negli ultimi vent’anni) avuto nessun ruolo nella stesura dello script.
Fatalmente il film risente di tutto questo. La povertà di mezzi, una sceneggiatura schematica e semplicistica (alcuni dialoghi sono davvero grotteschi) e una messinscena incredibilmente sciatta, non curata e spenta (una fotografia digitale al limite dell’amatoriale a cui si stenta a credere), portano “Domino” a diventare un bersaglio sin troppo facile per hater e detrattori. Tuttavia anche per tutti gli altri non può che essere valutato come un mezzo disastro che rischia di sfociare nel comico involontario e che – lo ammettiamo – per lunghi tratti lascia sconcertati.
Sarebbe però troppo facile fermarsi alla superficie e derubricare “Domino” a un puro e semplice scult senile di un autore ormai bollito. Perché in fondo il film di De Palma, seppure in maniera confusa e poco chiara, ci dice diverse cose sul nostro tempo, sull’epoca che viviamo e su come percepiamo noi e gli altri, su come ci comportiamo e stiamo al mondo.
La storia è quella di Christian (Nikolaj Coster-Waldau), un agente della polizia di Copenaghen che dopo aver perso il partner e amico fraterno Lars per mano di un terrorista affiliato alla cellula libica dell’Isis, Ezra Tarzi, inizia a dare la caccia all’uomo attraverso tutta l’Europa. Al suo fianco c’è anche la collega Alex (Carice van Houten), ex-amante di Lars, decisa a vendicare l’omicidio. Quando i due rintracciano Tarzi in Spagna scoprono che l’uomo è stato ingaggiato da un agente della Cia (Guy Pearce) per aiutarlo a scovare lo sceicco Salah Al-Din, potentissimo e spietato leader jihadista che ha in mente di compiere una strage alla Plaza de toros nel centro di Almeria. Catturare Tarzi e contemporaneamente sventare l’attentato non sarà semplice…
In realtà c’è molto dell’universo depalmiano in “Domino”: la struttura “hitchockiana” della vicenda, la scelta del thriller come genere di riferimento e poi l’ambientazione europea già vista in molta della sua cinematografia. Ma anche un impianto formale che, a tratti, mostra tutto il talento del regista di Newark. A cominciare dal lungo carrello a stringere sulla pistola nella sequenza in cui Christian lascia il letto dell’amante nei primi minuti del film – e che omaggia una celebre scena di “Notorious” (1946) – arrivando sino alla lunga sequenza alla Plaza de toros che ricorda l’elaborato incipit di “Omicidio in diretta” (1998). Così come è tipicamente nello stile di De Palma lo split-screen che caratterizza uno dei momenti più controversi: la strage al Netherlands Film Festival.
E forse sta proprio qui, in una scena marginale, quasi accessoria – in cui un attentato viene trasmesso in diretta dal kamikaze stesso che lo sta compiendo – una delle chiavi di lettura più esplicite di “Domino”. L’Isis che colpisce un festival del cinema, al di là della sardonica ironia e della sferzante stoccata al mondo del cinema d’autore contemporaneo, manda un messaggio molto chiaro. Ovvero l’idea che esista un “reale” che non ha più bisogno del cinema per essere messo in scena e che prescinde dalla ricostruzione della fiction. O in senso più allargato di qualcosa che il cinema oggi, al tempo degli smartphone e dei droni, non sa o non può più raccontare. Un concetto che De Palma aveva già teorizzato con largo anticipo e precorrendo i tempi in quel piccolo capolavoro che era “Redacted”, da lui scritto e diretto nel 2007. E che qui riprende di certo con meno incisività, ma con la medesima intenzione di riflettere sul presente.
Un presente che suggerisce anche una certa idea del contemporaneo, così semplice e diretta che quasi si stenta a credere non nasconda un ragionamento più profondo. In una rappresentazione di buoni contro cattivi, poliziotti contro terroristi, bianchi contro neri così manichea da diventare consolatoria si può scorgere un quadro rivelatore – non si sa fino a che punto intenzionale – dell’Europa di oggi. Un continente diviso, lacerato dai conflitti, eterogeneo e mai completamente afferrabile, al quale si cerca di dare un ordine, una lettura univoca e immediata. Che si tenta di ridurre a un discorso comprensibile. Insomma una visione che potremmo chiamare populista, che dà risposte semplici a problemi complessi e che impone uno sguardo sulla contemporaneità forzatamente limpido e incapace di intercettarne le problematiche. Un mondo cioè che esiste in superficie (quella che il film racconta) ma nel quale ogni aderenza alla realtà appare fantasiosa, inapplicabile, illogica (la sensazione che si prova come spettatori).
Non possiamo essere certi che le intenzioni di De Palma, dello sceneggiatore e dei produttori fossero esattamente queste, ma restiamo convinti che a una visione non troppo sommaria “Domino” regali riflessioni un po’ meno viscerali di quelle più scontate e diffuse. E se così non fosse resterà sempre la piccola soddisfazione di aver visto qualcosa che per via della sua forma malriuscita, è già un piccolo cult. Un mostricciattolo a cui volere bene.
ps: in gergo cinematografico per scult si intende un film talmente brutto, trash o fuori da ogni logica da meritarsi attenzione e giudizi positivi proprio per via di un certo coraggio o di una particolare originalità (sebbene quasi sempre involontari). Non un brutto in termini assoluti quindi, ma un brutto di successo.”