Sicuramente almeno una volta vi sarà capitato di ascoltare una loro canzone: dai ritornelli diretti e incisivi di «Sei la mia droga (parte 1)» fino alle atmosfere più malinconiche di «Affogare», i Legno sono entrati di diritto nel panorama indie italiano con il loro stile a metà tra leggerezza e poesia. Ciononostante, le identità di Legno Triste e Legno Felice sono ancora un mistero, così come i loro volti nascosti da due maschere cubiche.
Il prossimo 10 ottobre, i Legno torneranno a Bergamo e suoneranno al Druso di Ranica, con un live che si preannuncia come uno degli appuntamenti più attesi dell’autunno musicale cittadino. Lo scorso aprile hanno pubblicato il loro terzo album «Piccola abitante di Saturno», uscito per Apollo Records e distribuito da Ada Music Italy, e, da questo ottobre, lo suoneranno nel loro club tour 2025-2026. In vista della data bergamasca abbiamo parlato con Legno Triste, per farci raccontare il disco, il rapporto con la maschera e le aspettative per la serata al Druso.
ES: Come è nato il vostro progetto musicale?
LT: Il progetto Legno nasce ormai qualche anno fa, attorno al 2018: siamo due personaggi senza volto e senza identità che hanno messo questa scatola in testa con l’obiettivo di fare arrivare prima la musica in una società dove l’apparenza ormai vince su tutto. Volevamo fare l’opposto: non farci vedere e far arrivare i messaggi prima di ogni cosa.
ES: Passiamo invece al vostro album. «Piccola abitante di Saturno» è incentrato sulle dinamiche d’amore e lo avete definito «una colonna sonora per quelle esperienze che rimangono dentro». Se dovessi presentarlo con un’immagine concreta, quale sceglieresti?
LT: Io penserei subito ad un cielo stellato, facendo anche riferimento proprio a Saturno. Essendo entrambi molto amanti dello spazio, di tutto quello che ci circonda e della natura, è proprio lì che spesso troviamo ispirazione. Guardiamo la bellezza intorno a noi e cerchiamo di captarne i messaggi.
ES: In questo album, l’amore attraversa tante sfumature: dalla title-track malinconica ai litigi inevitabili di «Girotondo», fino ai piccoli attimi sospesi di «Luminosissimi». Volevate trasmettere un’idea precisa di amore?
LT: In realtà non c’è un’idea soltanto: noi raccontiamo l’amore per quello che abbiamo vissuto. Ci sono momenti dell’amore dove siamo più malinconici, perché finisce una relazione, e momenti più felici, perché una relazione inizia. Quindi abbiamo raccontato l’amore a 360°, ma non solo dalle nostre esperienze, anche dalle storie di chi ci supporta. In questi anni, abbiamo sempre mantenuto un contatto con chi ci segue, tanto che preferiamo definirli amici più che fan; sono le persone che ci scrivono e si rispecchiano nelle nostre canzoni e che, a volte, ci raccontano le loro storie. Noi cerchiamo di diventare una spugna, assorbiamo le energie di questi ragazzi che vedono, probabilmente, in noi un amico. È una cosa bellissima: raccontiamo le nostre storie, chiaramente, ma anche quelle degli altri.
ES: E tra queste storie ce n’è una, tra i brani dell’ultimo album, a cui sei più legato?
LT: Ci sono due canzoni alle quali io sono molto legato: la prima, «Piccola abitante di Saturno», e l’ultima, «L’altra parte della Luna». Queste canzoni aprono e chiudono l’album a cerchio, perché nella prima abbiamo voluto iniziare parlando di una storia che finisce, mentre nella seconda raccontiamo di un amore che inizia. Era bello dare una sorta di speranza nei confronti dell’amore, soprattutto in una società dove di amore ce ne vorrebbe un po’ di più. Abbiamo voluto chiudere con una canzone positiva, anzi, con una dichiarazione d’amore nei confronti di una persona.
ES: La vostra identità mascherata è ormai un marchio di fabbrica. Com’è oggi il vostro rapporto con Legno Triste e Legno Felice? Vi siete mai chiesti cosa accadrebbe se lasciaste cadere la maschera?
LT: Ci abbiamo pensato a volte però, ad essere onesti, non c’è mai stata una morbosità nel sapere chi c’è dietro la maschera; anche ai nostri concerti non c’è mai stata la volontà delle persone di saperlo. Io, per esempio, sono amante dei podcast, ascolto molto anche la radio e spesso non vado a cercare chi è a parlare, perché, da quella voce, mi identifico una persona, mi faccio una sorta di identikit della sua personalità; probabilmente, anche questo arriva a chi ci ascolta. Poi chissà, un domani non si sa mai, perché non ti nego che non è sempre semplice nascondersi e che avremmo anche voglia di guardare le persone che ci seguono, soprattutto ai live, occhi negli occhi.
ES: E il fatto che parliate così spesso di questa generazione, ossessionata dall’immagine e dall’apparenza, mentre voi vi avete rinunciato, con le vostre maschere, è una provocazione?
LT: Sicuramente e lo diciamo in «Generazione triste». Nei live proviamo ad insegnare alle nuove generazioni come “fregare” le persone che dicono che siamo una generazione triste legata soltanto ai social. Questo non è vero perché anche noi “viviamo”. Detto questo, bisognerebbe però “staccare” i nostri cervelli, tornando ad essere curiosi della vita: giocare, andare a fare un giro con gli amici fuori porta, però senza il telefonino. Anche ai concerti non ci godiamo più nulla: bisognerebbe bloccare questa cosa e viversi un po’ il momento e raccontarsi.
ES: Al primo ascolto, «Piccolo abitante di Saturno» mi ha riportato un po’ all’indie “vecchio stile”, un po’ più tradizione cantautorale e meno elettronico. Vi riconoscete in questa definizione?
LT: Assolutamente sì. Noi veniamo da ascolti principalmente cantautorali: De Gregori, Venditti, Guccini, Battiato. Quindi, su queste canzoni – come era successo anche in alcuni pezzi dei vecchi dischi – abbiamo lavorato, a livello produttivo, sempre con full band, con tutti i suoni “caldi”: chitarra, batteria, sassofono. Abbiamo cercato di riportare un po’ la vecchia scuola e di far ascoltare soprattutto ai giovanissimi un qualcosa che forse negli anni si è un po’ perso. Ormai in una canzone è tutto molto elettronico, talvolta è anche molto finto da un certo punto di vista, mentre noi vogliamo far arrivare un po’ di verità anche a livello di strumentazione.
ES: E a livello di scrittura invece? Recentemente ho letto che vi hanno accostato a Gio Evan, con cui avete anche un feat. Vi sentite un po’ parte dello stesso mondo?
LT: Sicuramente con Gio Evan c’è una bella affinità e forse su alcune canzoni abbiamo dei legami, però non proprio a livello artistico. Gio lancia tantissimi messaggi, tutti molto anche incentrati sulla natura, sulla spiritualità, mentre noi forse raccontiamo più la società “di paese”, più spicciola, meno spirituale; quella che va al supermercato la mattina o ballare la sera.
ES: Il Druso, dove suonerete il 10 ottobre, è un club storico, legato alla musica indie e rock. Cosa vorreste lasciare al fan che vi verrà ad ascoltare?
LT: A noi piacerebbe sempre che tornasse a casa felice. So che è abbastanza scontato, però, quando io vado a vedere un live, voglio tornare a casa sempre contento. Vorrei staccare per quelle due ore di concerto dalla routine: soprattutto adesso basta accendere il giornale o guardare sui social per vedere notizie brutte.
ES: Guardando avanti, cosa vi immaginate per i Legno nei prossimi anni?
LT: Ci hanno fatto a volte questa domanda, ma il bello del nostro progetto è che noi non guardiamo mai troppo avanti, cerchiamo di navigare a vista e facciamo le cose perché ci va di farle e quando ci va di farle. Non prepariamo mai nulla. Tutto è nato per un’amicizia, per un gioco quasi tra me e Legno Felice e quindi così deve essere. Speriamo di continuare così, di trovare sempre persone che, come si dice in Toscana, vengano a vedere due bischeri con la scatola in testa, facendole star bene ed emozionare. Parecchi, quando finisce il concerto, ci scrivono e ci dicono come si sono sentiti, perché si rispecchiano nelle canzoni. Ecco, forse una cosa che spero è che anche un domani queste canzoni possano arrivare alle persone, che siano poche o tante.