Il baghèt è la voce del tempo d’inverno. Una voce salvata dall’oblio dagli studi di Valter Biella, musicista che, dagli anni Ottanta, ha ricostruito la storia della cornamusa bergamasca. Presente nella nostra provincia fin dal 1300, il baghèt ha una struttura semplice e radicata nel dialetto: una baga (sacca), una diana (canto), due orghègn (bordoni) e il bochì (bocchino). A differenza della cornamusa scozzese, non nasce per cerimonie o cortei militari, ma nell’ambito della vita contadina, per scaldare le mani e la voce nei mesi d’inverno. I baghètér, i musicisti contadini, lo suonavano solo quando il lavoro agricolo veniva messo in pausa, ritrovandosi nelle stalle o nei cortili. Il suono di questo strumento riempiva gli spazi freddi e scandiva il ritmo della vita agricola e comunitaria.
Il repertorio è legato all’inverno e al Natale: oltre a valzer e polche, le note del baghèt accompagnavano le «Pastorelle» e persino balli popolari, tra cui il «bal dol mòrt» (traduzione: il ballo del morto), che rappresentava scene di morte e di resurrezione e ricordava il ciclo delle stagioni. Non a caso, come una clessidra, il baghèt scandiva il tempo del Natale e, proprio dopo l’Epifania, veniva riposto, pronto a tornare all’inverno successivo.
Scomparso negli anni Cinquanta, il baghèt è rinato grazie a Biella, che ha recuperato strumenti, spartiti e tracce nelle valli dove era sopravvissuto, Val Gandino e media Val Seriana. Oggi, a Casnigo, la «Giornata del Baghèt» celebra questa tradizione con concerti, laboratori e mostre, riportando il suono antico nelle strade e nelle chiese. Ascoltare oggi il baghèt, tra una «pastorèla» o un canto popolare, significa tornare al Natale di un tempo: un legame con la terra, con le stagioni e con generazioni di musicisti. È un suono che unisce passato e presente, sinonimo delle feste invernali e profondamente bergamasco.
