93FE310D-CB37-4670-9E7A-E60EDBE81DAD Created with sketchtool.
< Home

Quattro serie più un bonus da guardare a ottobre

Articolo. L’autunno porta con sé nuove serie capaci di avvolgerci come un plaid caldo, tra drammi intensi, crime psicologici, commedie che sanno strappare un sorriso anche quando la realtà è spietata

Lettura 7 min.
The Pitt

Le giornate si accorciano, l’aria si fa frizzante e le foglie colorano le strade di giallo e arancione: è ufficialmente tempo di tuffarsi tra coperte e divano, con una tisana fumante in mano e lo schermo acceso.

«The Pitt»

Disponibile su Sky e Now

Ho iniziato «The Pitt» memore dei cinque «Emmy» appena vinti — tra cui miglior serie drammatica, miglior attore e miglior attrice protagonista — e mi incuriosiva capire come un medical potesse ancora dire qualcosa di nuovo dopo anni di serie ospedaliere tutte più o meno uguali. La risposta arriva già dai primi episodi. «The Pitt» torna a mettere al centro la realtà di un pronto soccorso, ma lo fa da un punto di vista preciso: quello del dopo. Dopo la pandemia, dopo la retorica degli eroi in corsia. La scelta narrativa è radicale: un’intera stagione scandita in tempo reale, seguendo Robby e il suo team per un singolo turno di dodici ore. Nessuna pausa, nessun artificio, solo il battito incessante del pronto soccorso, con la macchina da presa che entra nelle stanze come farebbe una troupe documentaristica. Gli episodi combinano storie che si chiudono nell’arco di un’ora e altre che si sviluppano lungo più puntate, mostrando la complessità di un lavoro dove i secondi contano e la noia coesiste con il dramma.

Il realismo è assoluto. Le procedure mediche non sono simulate e la regia evita la colonna sonora tradizionale: niente musica a indicare come sentirsi, solo il suono dei passi, delle sirene e dei corpi, per rendere lo spettatore partecipe, quasi fisicamente, delle scelte e dei dilemmi del team. «The Pitt» non edulcora nulla: la medicina appare cruda, estenuante e imprevedibile. Ma è proprio in questa brutalità che emerge la sua forza. Racconta la dedizione, la competenza e la fatica di chi affronta ogni giorno il peggio, senza poter mai abbassare la guardia. Il “pozzo” del titolo è quello in cui tutti, in un modo o nell’altro, siamo finiti e da cui si può risalire solo insieme.

«La fidanzata»

Disponibile su Prime

A primo impatto sembrava l’ennesimo thriller domestico d’alta borghesia, questa volta con Robin Wright al centro, attrice, regista, produttrice, e anche carnefice. Poi, però, la serie si è rivelata meno frivola del previsto. Dietro alla sua superficie lucida, dentro ai suoi interni perfetti, si muove una tensione vera: quella di una società che non riesce più a distinguere tra affetto e possesso, tra protezione e dominio.

La storia è un campo minato di apparenze. Laura, madre ricca e controllante, vede nel nuovo amore del figlio, Cherry, una minaccia. Non solo perché è “diversa” — più giovane, più povera, più libera — ma perché la sua sola presenza incrina l’ordine statico su cui Laura ha costruito la propria esistenza. Da lì parte un conflitto di classe travestito da rivalità privata. Due donne che si osservano, si imitano e si distruggono, mentre il figlio resta sullo sfondo come un oggetto di scambio, un trofeo di status.

Ogni episodio alterna il punto di vista dell’una e dell’altra. Ognuna racconta la propria versione dei fatti, e in entrambe le versioni l’altra appare come una manipolatrice. È un gioco di specchi che ricorda quanto la realtà sia sempre più soggettiva e polarizzata: ciò che conta non è ciò che accade, ma chi riesce a controllarne la narrazione. Laura non riesce più a fidarsi di nessuno perché tutto ciò che possiede è fragile. Cherry diventa il suo incubo perché rappresenta un mondo che non può comprare. La loro guerra domestica è una metafora elegante e crudele del nostro tempo, in cui la paura di perdere il potere si traveste da difesa della famiglia, della reputazione, dell’ordine. E quando i titoli di coda scorrono sulle note di «Sweet but Psycho», ci scappa un sorriso amaro: perché, in fondo, in un mondo che insegna a competere, continuare a credere nell’amore è forse l’unica forma di follia rimasta.

«Task»

Disponibile su Now

In «Task», Brad Ingelsby prende il crime e lo rovescia. Dal momento che in questa serie non è tanto importante chi ha fatto cosa. Al centro, due padri spezzati ai lati opposti della legge: Tom Brandis (Mark Ruffalo), ex sacerdote e agente dell’FBI, e Robbie Prendergrast (Tom Pelphrey), operatore ecologico che guida una banda di rapinatori per necessità. La serie rivela subito il colpevole, spostando l’attenzione sul percorso umano che porta ogni personaggio a fare le proprie scelte. Ruffalo e Pelphrey incarnano due ferite: Tom affronta il lutto della moglie e il figlio in carcere, cercando di reggere la propria vita con disciplina e rituali che mitigano il dolore. Robbie, invece, bilancia la cordialità domestica con rapine notturne e lutti irrisolti, mostrando come la “colpa necessaria” diventi parte della sopravvivenza quotidiana. Entrambi oscillano tra autodistruzione e gesti di cura, creando una tensione emotiva che va ben oltre il thriller poliziesco.

La serie non si limita ai due protagonisti. Maeve (Emilia Jones), ventunenne che regge casa, turni di lavoro e fratelli più piccoli, è il vero cuore morale del racconto: la sua quotidianità mostra con precisione come il lavoro di cura, invisibile e sottovalutato, cada ancora sulle donne. La sua figura serve anche a far emergere la fragilità di Robbie, zio affettuoso ma incapace di sostenerla davvero, e a dare un volto concreto al prezzo delle scelte maschili. Sul versante opposto, nella task force guidata da Tom, si muovono Lizzie (Alison Oliver) e Aleah (Thuso Mbedu). Lizzie è la più giovane e inesperta del gruppo, quella che ancora crede nella purezza della legge e che, attraverso gli errori e la paura, impara cosa significhi davvero “servire” la giustizia. Aleah, più esperta e pragmatica, è il suo contrappunto: la collega che conosce la durezza del mestiere e ne accetta i compromessi, ma non ha perso del tutto la capacità di empatia.

Insieme, le due agenti costruiscono un’alternativa possibile al mondo dei protagonisti maschili: lavorano in squadra, si proteggono a vicenda, rappresentano un’idea di giustizia che non passa per la forza o per la colpa, ma per la cura. Il crime diventa un dispositivo per leggere la realtà: le rapine, le indagini, le sparatorie non sono fini a se stesse, ma strumenti per osservare le conseguenze delle scelte individuali sulle generazioni future. Ogni azione in «Task» ha un prezzo che ricade sugli altri: i figli pagano i debiti dei genitori, le comunità assorbono i traumi collettivi, e le istituzioni sembrano premiare la durezza più della redenzione.

In fondo, «Task» è una serie sulla responsabilità, ma la affronta senza retorica. Si chiede — e ci chiede — cosa significhi davvero «fare la cosa giusta»: verso chi amiamo, verso chi crescerà dopo di noi, e verso noi stessi. Non offre risposte, ma mostra le conseguenze: errori che si ripetono, legami che resistono, piccoli gesti che tengono insieme ciò che resta. «Task» racconta la fatica del vivere più che il piacere del riscatto. È un racconto politico nel senso più umano: mostra il prezzo della sopravvivenza e la fragilità della bontà in un mondo che spesso non riconosce valore né all’una né all’altra.

«Hotel Costiera»

Disponibile su Netflix

Prime Video l’ha presentata come «la prima serie girata in Italia con protagonista americano», e in effetti nemmeno in un futuro distopico avrei immaginato di vedere James Williams, star di Grey’s Anatomy, recitare in una serie con Maria Chiara Giannetta. Ma, alla fine, l’esperimento funziona: «Hotel Costiera» è un ibrido riuscito che dice molto sul modo in cui l’Italia viene ancora raccontata – e desiderata – da chi la guarda da fuori. La storia è quella di Daniel De Luca (Jesse Williams appunto), ex marine in fuga da un passato ingombrante che si rifugia in un albergo affacciato sulla Costiera Amalfitana. Lì si trasforma in una sorta di «risolutore di problemi gentile» per turisti e locali, mentre aiuta l’amico di sempre (Tommaso Ragno) a ritrovare la figlia scomparsa. Intorno a lui ruota una galleria di personaggi italiani che oscillano tra il pittoresco e l’archetipo, e che finiscono per incarnare, consapevolmente o meno, l’immaginario di un Paese che resta intrappolato nel suo stesso cliché.

«Hotel Costiera» è una serie che si muove sul confine tra procedurale americano e commedia italiana: la struttura a «caso di puntata» è da tv generalista USA, ma l’ironia di fondo è tutta nostrana. È la televisione che parla due lingue e non ne padroneggia del tutto nessuna, ma trova un equilibrio nella leggerezza. Gli episodi sono semplici, prevedibili, a volte perfino troppo lineari, ma nel loro modo inconsapevole restituiscono un’immagine interessante dell’intrattenimento globale: un mondo in cui l’Italia non è più location, ma set emotivo, un posto dove gli americani vengono a guarire da se stessi.

Jesse Williams, con la sua calma magnetica, porta in scena un personaggio che vive in sospensione, come se anche lui non sapesse se restare turista o diventare parte del luogo. Maria Chiara Giannetta gli fa da contrappunto con precisione e calore, mentre Sam Haygarth ruba ogni scena con il suo Tancredi, aristocratico ironico e irritante quanto basta.

La regia gioca volutamente con l’estetica da cartolina: tramonti dorati, limoneti, mare calmo. Ma sotto quella superficie si intravede qualcosa di più: la nostalgia per un’Italia che non esiste più, o forse non è mai esistita davvero. È un’illusione condivisa: l’America sogna un Paese senza conflitti, e l’Italia, compiaciuta, le restituisce esattamente quell’immagine. «Hotel Costiera» è questo: una serie che non racconta il reale, ma la fantasia collettiva del reale. Leggera, elegante e onesta nel suo essere intrattenimento puro.

Bonus «Shrinking»

Disponibile su Apple TV

Colpevolmente, non mi ero accorta che la seconda stagione di «Shrinking» fosse uscita a ottobre…ma di un anno fa. Alla prima avevo dedicato un articolo intero, e ora, dopo aver guardato anche questa, posso dirlo: è tra le serie migliori che ho visto in vita mia. «Shrinking» riprende i protagonisti Jimmy e Paul (Jason Segel e Harrison Ford) nel loro studio di terapia, con lo stesso equilibrio che rendeva brillante la prima stagione: ironia e leggerezza al servizio di temi seri. Jason Segel e Harrison Ford non recitano ruoli “sicuri”: sono due guide che soffrono, che sbagliano, che sono fragili e non si nascondono dietro frasi consolatorie o sorrisi di circostanza. L’ironia non è un riempitivo, è il modo in cui il racconto riconosce la contraddizione dell’esperienza umana: si può ridere di ciò che ferisce, senza sminuirlo.

Si può odiare qualcuno, ci si può arrabbiare, provare paura o disgusto, e allo stesso tempo arrivare a comprenderlo. «Shrinking 2» mostra che l’empatia non è un sentimento che si sposa con la linearità, perché non è automatico perdonare o accettare. È un processo accidentato, fatto di errori, battute sbagliate, piccoli gesti, frustrazione, desiderio di controllo. Ogni personaggio è un microcosmo di contraddizioni, e l’interazione tra loro diventa un laboratorio su come le crepe umane possano essere affrontate, illuminate e persino accolte con humor. Il vero “trucco” del regista Bill Lawrence sta nel ritmo: la leggerezza non cancella la gravità, la comicità non smussa il dolore. Gli episodi sono come esercizi di osservazione: guardi, ascolti, ti confronti, senza che la serie ti dica cosa pensare. L’intelligenza narrativa sta nel creare uno spazio dove lo spettatore può riconoscersi, sbagliare giudizio, correggersi, ridere e commuoversi nello stesso minuto. E poi il cinismo da orso buono di Harrison Ford in questa serie, meriterebbe un «Oscar»!