Riunione di classe, prima elementare: presenti 21 mamme e due papà. E le maestre si rivolgono ai genitori (con presenti i papà) dicendo: «mamme». Nei parchetti o nelle ludoteche dopo scuola, le proporzioni fra i sessi sono le stesse: uno a dieci. Centri vaccinali e pediatri: i padri sono ancora meno. «La gender equality è su Marte», commenta la più in carriera delle mie amiche, mentre ci confrontiamo sconfortate. Lei gestisce fondi europei, tiene congressi in altri continenti, lavora 12 ore al giorno, ma se a scuola mancano i calzini antiscivolo di ricambio chiamano lei.
Il padre è tanto se arriva secondo
È un’esperienza concreta della vita di ogni madre: essere considerata il vero, unico punto di riferimento per tutto ciò che riguarda i figli. Il padre è tanto se arriva secondo, spesso scalzato in classifica dalla suocera o dalla babysitter. Ho chiesto a un’altra mia amica (lavora a tempo pieno in una multinazionale, ma ha scelto l’azienda in base alla possibilità di smart working e orari flessibili) come fosse andata la settimana sola a casa col figlio treenne mentre il padre – manager – era in trasferta di lavoro: «È con noi talmente poco che la sua assenza non ha avuto un reale impatto» mi risponde. Per il loro equilibrio familiare è un problema molto più grosso quando è la tata a darsi malata.
Non è solo una questione di tempo materialmente speso con i figli, ma di quello che ora viene definito «carico mentale». Racconta una mia amica maestra: «Un alunno non trovava un fascicolo del libro di testo né a casa né a scuola. Il padre viene a prenderlo a scuola e mi riferisce: “La mamma si scusa per il libro che manca”. Gli ho detto che avremmo trovato una soluzione, ma poi ho chiesto: “E perché dovrebbe essere colpa della mamma?”».
Perché dovrebbe essere colpa della mamma?
Non voglio banalizzare le differenze fra i sessi: gravidanza, parto, allattamento al seno sono di esclusiva competenza materna, e scusate se è poco. Ma un conto è la riabilitazione del pavimento pelvico dopo il parto – che è indubbiamente affare nostro – un altro è ricordarsi l’ubicazione dei libri di testo della primaria. In casa mia dei libri scolastici (ordinarli, ritirarli, sapere dove sono) se ne occupa mio marito, così come della maggior parte delle questioni pratico-burocratiche legate ai bambini. Se si perde il libro di italiano (è successo due giorni fa) è lui che risolve il problema. È sempre lui a fermarsi al bar dopo avere accompagnato i bambini a scuola, a fare l’assaggiatore della mensa scolastica, a fissare gli appuntamenti dalla pediatra. Lo fa anche se lavora a tempo pieno.
Non lo racconto per vantarlo come un esemplare prodigioso, ma solo per testimoniare che si può fare benissimo. Non è un caso isolato: i giovani padri sono più partecipi alla vita dei figli rispetto alle generazioni precedenti e spendono più tempo con loro: da 16 minuti al giorno nel 1962 a 59 minuti nel 2012, e chissà che un giorno non recuperino il gap con le madri (104 minuti). La direzione è quella, gli strumenti cominciano ad esserci: gli uomini hanno diritto sia al congedo di paternità obbligatorio (10 giorni lavorativi, indennizzati al 100%) sia al congedo parentale facoltativo, e nel 2023 (ultimi dati Inps disponibili) ne hanno fatto richiesta in 97mila, con un incremento del 41%. Eppure in molti non se ne sono ancora accorti.
La cruda realtà
L’altro giorno, nel mio negozio di quartiere preferito, incontro una ragazza appena sposata che annuncia felice a me e alla titolare di essere incinta:
- «Va tutto benissimo, tranne che mi hanno lasciato a casa dal lavoro appena ho comunicato la gravidanza»;
- «Denunciali» è stata la mia reazione d’impeto, «chiama la consigliera di Parità, chiama i sindacati, non possono farlo»;
- «Ho concordato un buon risarcimento economico e non mi piace restare dove non mi vogliono», mi ha risposto con rassegnata saggezza, «solo che non so quando ritroverò lavoro, non provo neanche a cercarlo adesso che sono incinta».
Mi sono imbattuta in uno dei tanti casi di discriminazione sul lavoro, e se ci ripenso sono ancora furente (quanto è umiliante avere voglia di lavorare ed essere considerate “di troppo” perché si ha un utero funzionante?) ma la verità è che capisco bene il ragionamento logico che sta alla base della cosiddetta child penalty: se un lavoratore uomo fa un figlio sarà ancora più devoto all’azienda, perché sa di dovere mantenere la famiglia; viceversa se una lavoratrice donna fa un figlio sarà meno devota all’azienda, perché dovrà occuparsi del figlio. È così sorprendente se l’azienda preferisce assumere un uomo?
Viviamo in un contesto dove la scuola dell’infanzia è ancora chiamata «materna» nel linguaggio comune. La chat di classe è universalmente definita «la chat delle mamme». È scontato che, quando il bambino di ammala o c’è sciopero, a casa con lui debba starci la mamma. Se la mensa è considerata scadente oppure l’autobus in servizio scolastico fa ritardo a lamentarsene sono «le mamme preoccupate». A creare traffico la mattina abbiamo «le mamme che portano i figli a scuola col suv». I servizi per l’infanzia sono «per le mamme che lavorano». La realtà è questa, la osserviamo tutti i giorni e contribuiamo a plasmarla non solo con i fatti ma anche con le parole, ogni volta che invece del termine «genitore» usiamo a sproposito il termine «mamma», unico caso di femminile sovraesteso della nostra lingua.
Tutto non si può avere
Se un lavoratore maschio con figli piccoli può permettersi di andare in trasferta per settimane, lavorare ogni giorno 12 ore, essere reperibile sempre, andare al lavoro riposato anche se ha un figlio neonato che piange la notte, è perché a casa c’è una madre che si occupa al 90% delle esigenze domestiche e dei bambini, anche se il più delle volte è anch’essa una lavoratrice (ma meno).
Io non voglio dire che sia un sistema “sbagliato”: per molte famiglie è funzionale che ci sia un genitore più focalizzato sul lavoro e sui soldi e un altro (indovinate quale) che si occupa di più di casa e bambini, però poi non si può pretendere che le spese siano divise a metà o che i padri siano ugualmente coinvolti nella vita dei loro figli. Nemmeno ci si può sorprendere più di tanto se le aziende discriminano in base al sesso o se un papà che fa il papà viene chiamato «mammo». Tutto non si può avere.
