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Gianni Canova e l’allarme per l’ignoranza al potere (e la cultura che non sa parlare al Paese)

Intervista. L’ultimo libro “Ignorantocrazia”, l’industria culturale e il cinema oggi. Il rettore della IULM, grande critico cinematografico, il 25 gennaio a Villa d’Ogna grazie a Presente Prossimo

Lettura 4 min.
(Gianni Canova)

Gianni Canova, rettore della IULM, docente di cinema, critico, giornalista, saggista e autore televisivo si impegna da anni per la promozione e la diffusione del dibattito culturale nel nostro paese. Volto noto di Sky, per cui è commentatore nelle trasmissioni a tema cinematografico e autore e conduttore de Il cinemaniaco, ha anche fondato le riviste di critica cinematografica I duellanti (chiusa nel 2015) e 8 ½.

Bergamasco originario della Val Seriana, Canova sabato 25 gennaio a Villa d’Ogna (ore 18, ingresso libero) sarà ospite di Presente Prossimo, discutendo con Davide Sapienza dei temi trattati nel suo ultimo libro: “Ignorantocrazia: Perché in Italia non esiste la democrazia culturale” pubblicato con Bompiani lo scorso settembre.
Il saggio affronta il problema della progressiva ignoranza che si sta diffondendo in Italia, messa in evidenza dai dati relativi ai test Invalsi sugli studenti delle superiori pubblicati a luglio dello scorso anno. A ciò si accompagna il disinteresse diffusissimo per la cultura.

Le responsabilità sono certamente individuabili nella scuola, ma l’autore non risparmia critiche all’università e all’industria culturale italiana, appiattite su un generale snobismo per tutto ciò che è “popolare” e inclini a coltivare i propri interessi in maniera autoreferenziale. Entrambe risultano “incapaci di dialogare con le esigenze di crescita culturale e professionale del Paese”.

LR: Prima di iniziare vorrei chiederle un ricordo di Federico Fellini, di cui ricorrono in questi giorni i cento anni dalla nascita, e a cui ha anche in qualche modo dedicato la rivista da lei fondata qualche anno fa: 8 ½:

GC: Fellini è certamente uno dei più grandi registi italiani di tutti i tempi. Un autore a cui sono legatissimo e che per me rappresenta la summa di una stagione forse irripetibile del nostro cinema. Mi piace ricordarlo con una delle sue frasi più famose: “L’unico vero realista è il visionario” perché credo contenga davvero il senso della sua poetica. Il suo cinema era pura finzione, non aveva nessuna pretesa di rappresentare la realtà, ma dava forma ai sogni. “La dolce vita”, “Amarcord” e “8 ½” sono i suoi film da me più amati.

LR: Venendo al suo ultimo libro: lei evidenzia come alla base dell’ignorantocrazia ci siano due fattori. La progressiva ignoranza che si sta diffondendo in Italia e la mancanza di una industria culturale.

GC: Purtroppo il nostro è un Paese profondamente ignorante. Lo dicono i dati in maniera inequivocabile. Pensi che siamo la nazione occidentale con la scolarizzazione più bassa in assoluto. Questo è un problema enorme: perché l’ignoranza una volta era anche uno sprone per migliorarsi, per studiare e apprendere. Io sono figlio di valligiani bergamaschi e mio padre, socraticamente consapevole del suo “non sapere”, mi ha spinto a costruirmi un’istruzione. Oggi se la competenza è diventata un disvalore e l’ignoranza la normalità è normale un ripercuotersi in ambito politico. Perché ignorantocrazia significa proprio “ignoranza al potere”.

LR: Ma il diffondersi dell’ignoranza e l’assenza di un’industria culturale sono anche elementi che si influenzano fra loro.

GC: Senza dubbio si nutrono l’una dell’altra. Gli arroccamenti su posizioni elitarie da parte di chi ha in mano la cultura e lo snobismo con cui questa stessa cultura tratta i consumi culturali cosiddetti “popolari”, così come la mancanza di interesse nel creare condivisione da parte della scuola e dell’università contribuisce a creare tutto questo. Tuttavia non è una questione di appartenenza politica, io da tempo ripeto che chiunque abbia governato in Italia negli ultimi trent’anni non ha mai messo la cultura al centro del dibattito. E questi sono i risultati.

LR: Secondo il suo pensiero il cinema d’autore e quello popolare sono estranei fra loro e in qualche modo rappresentano molto bene il distacco che esiste fra le élite culturali e il cosiddetto “popolo”. Tuttavia quello di “autore” per il cinema rivoluzionario e innovativo degli anni sessanta era un concetto fondamentale e dalla forte carica sovversiva. Quale significato ha oggi per lei, il termine “autore”?

GC: Direi che ha messo il dito nella piaga. Per la Nouvelle Vague la “politique des auteurs” è stata senza dubbio un manifesto rivoluzionario, e in effetti parlare di autori allora aveva un significato molto più ampio di quello che gli assegniamo oggi. Registi come Fellini, Leone, Monicelli oppure Ford, Wilder e Hitchcock erano capaci di fare un cinema popolare, spesso anche di genere, ma con uno sguardo personale e assolutamente autoriale. Oggi abbiamo registi ancora in grado di muoversi con una logica simile, penso a Guadagnino, che con “Suspiria” prende uno dei cult del cinema horror italiano e lo reinterpreta con il suo stile e la sua idea di messinscena, creando un capolavoro. Diversamente il termine autore oggi rischia di designare dei registi autoriferiti, capaci solo di fare cinema per loro stessi e non per il pubblico. Questo modo di ragionare mi fa accapponare la pelle: fare cinema significa sempre confrontarsi con un pubblico.

LR: Chi fa certamente un cinema popolare e di grande successo è Checco Zalone. Il vero e proprio caso cinematografico italiano di questi ultimi anni.

GC: Io sono un grandissimo fan di Checco. E non da ora. Penso anzi di essere stato uno dei primi a scrivere un libro su di lui. Credo sia il miglior comico italiano e senza dubbio il migliore che ci sia a fare finta di essere scemo. Ma ancora prima lo ritengo un eccellente musicista. La sua esperienza e bravura come jazzista lo rendono una sorta di “uomo-orchestra”. Quest’ultimo film (“Tolo tolo”, ndr) ha avuto un successo forse inferiore rispetto a “Quo vado” perché Checco ha osato. Ha deciso di affrontare un tema scomodo e l’ha fatto rinunciando a Gennaro Nunziante, il vero direttore dell’orchestra Zalone in tutti i film precedenti. Tuttavia il Checco regista mi piace perché dà la sensazione di poter gestire ogni aspetto del suo enorme bagaglio comico.

LR: E invece della querelle fra Martin Scorsese e i fan dei film della Marvel cosa pensa?

GC: Non amo i film Marvel, ma quando ho visto l’ultimo capitolo della saga Avengers (“Avengers: Endgame”, ndr) ho visto un ragazzino di dieci anni di fianco a me commuoversi fino alle lacrime. Non capisco come uno della statura di Scorsese possa affermare che quello non è cinema. Le emozioni che suscita in così tante persone vanno rispettate e non si può pensare che quello che proviamo per “The Irishman” abbia meno valore di quello per un film della Marvel. Sì, credo che Scorsese abbia sbagliato.

LR: Qualcuno però potrebbe ribattere che Scorsese è costretto a farsi produrre i film da Netflix, restando fuori dalle sale, perché le sale sono tutte occupate dai film della Marvel e simili…

GC: Non è assolutamente così! Inoltre il suo film è costato di più della media dei film hoolywoodiani di oggi. E se i film Netflix non vanno in sala è perché le cose stanno così. Per esempio “Joker” – che non è un film Netflix – va in sala e incassa tantissimo, non vedo dove sia il problema.

LR: Ma lei della sala cosa pensa? Crede realmente che rischi di scomparire? Ai festival cinematografici questo è uno dei dibattiti più accesi.

GC: Sto dalla parte del direttore della mostra del cinema di Venezia (Alberto Barbera, il quale ha aperto a Netflix, contrariamente al festival di Cannes in cui i film prodotti per le piattaforme streaming non hanno accesso a meno che non passino prima in sala, ndr). Secondo me la democratizzazione della visione è una cosa giustissima e ognuno è libero di vedere i film dove gli pare. Poi per quanto mi riguarda l’esperienza della visione in sala è insostituibile. È qualcosa che ha delle connotazioni sensoriali ed emozionali uniche e non deve assolutamente essere persa.

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