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Gucci, “West Side Story”, “Spider Man”, “Diabolik”: al cinema per un Natale elegantissimo, musicale, adrenalinico e nostalgico

Guida. Senza dimenticare la (stella) cometa di “Don’t look up” e il ritorno di “Matrix”. Con le feste la voglia di cinema cresce e i grandi film attesi da tanto tempo sono finalmente in uscita

Lettura 5 min.
West Side Story

Ammettiamolo: andare al cinema durante le feste è una tradizione importante tanto quanto il panettone o il vin brulé. E in questo Natale di (quasi) ritorno alla normalità quello di vedersi un film in sala è un piacere al quale non ci si può assolutamente sottrarre. Con la famiglia, gli amici o, perché no, anche da soli – che è una delle piccole gioie della vita più sottovalutate in assoluto.

Insomma ne vale la pena, anche perché quest’anno, forse più del solito, le distribuzioni hanno calato gli assi, inserendo nel periodo delle feste alcuni dei film più attesi della stagione e in alcuni casi a lungo rimandati proprio per farli uscire adesso.

Noi, come sempre, abbiamo stilato una breve ma essenziale lista di consigli, che va ad aggiungersi a quelle pubblicate nelle scorse settimane e ancora validissime visto l’onda lunga dei film in sala per le feste. Cercando di non scontentare nessuno.

“Don’t Look up” di Adam McKay

Una cometa grande come l’Everest e denominata dagli scienziati “killer di pianeti” è in rotta di collisione con la Terra. Due astronomi di un’università di provincia (Leonardo di Caprio e Jennifer Lawrence) la scoprono e lanciano l’allarme. Nessuno però sembra prenderli troppo sul serio e fra movimenti complottisti e negazionisti, politici inconcludenti, multinazionali avide e media incapaci di affrontare le cose con serietà, la tendenza alla sottovalutazione rischia di risultare fatale.

Da uno dei registi (e sceneggiatori) più brillanti del panorama hollywoodiano un film sorprendente e ironico ma anche acuto e originale. E soprattutto capace di parlare del presente in maniera efficacissima, magari un po’ schematico e semplicistico – e con il difetto di piacersi un po’ troppo – ma che ha il grande pregio di arrivare a tutti. Non ci vuole un genio per capire che la cometa è una metafora della pandemia e che tutto il circo che si scatena intorno all’evento è una fotografia del nostro presente difforme e schizoide.

Un tempo in cui nemmeno la presenza evidente e macroscopica di un corpo celeste che si sta per schiantare sulle nostre teste convince chi si rifiuta di alzare lo sguardo al cielo (il titolo “Don’t Look Up” è appunto lo slogan dei “no-comet”). Ed è una fotografia impietosa e cupissima, che forse si poteva raccontare davvero solo attraverso un disaster-movie. Per capire che la vera catastrofe non è mai quella che arriva da un altro mondo, ma la catastrofe, semmai, siamo noi.
(Capitol/Anteo Treviglio/Netflix dal 24 dicembre)

“Spider Man: No Way Home” di Jon Watts

L’operazione è ambiziosissima: chiudere una trilogia – quella iniziata nel 2017 con “Spiderman: Homecoming” – tirando però le somme di tutto l’universo cinematografico con al centro l’Uomo Ragno. Sì perché “Spider Man: No Way Home” non è un cinecomic imbastito a partire dalle storie a fumetti dell’eroe Marvel, ma da tutti i film a esso dedicati. E allora ecco spuntare un multiverso: una sorta di sovrapposizione di dimensioni parallele le quali, normalmente separate, per un inghippo della storia, diventano comunicanti. È la scusa per tirar dentro tutto e il contrario di tutto: amici, nemici, ricordi, rimozioni, racconti e traumi che sembravano passati e invece iniziano a rivivere e a riportare tutto indietro.

Il messaggio è ovviamente proprio questo, ovvero che il passato non si può riparare e bisogna avere il coraggio di farci i conti, anche al costo di azzerare e dimenticare, se si vuole guardare al futuro. Ma anche che esiste un filo sottile che unisce le vite e le esperienze di tutti quanti e che ognuno di noi (anche come spettatore) conta ed è a sua volta parte della storia (infinita) di Spider Man. Un film suggestivo e roboante, con momenti di grande pathos, commozione e scandito da enormi colpi di scena. L’unico guaio è che se non si conoscono a memoria tutti (ma proprio tutti) i film dell’Uomo Ragno si rischia di non capirci quasi nulla. E multiverso o meno, questo non è esattamente un dettaglio.
(Del Borgo/Uci Orio e Curno/Arcadia Stezzano/Anteo Treviglio)

“Diabolik” dei Manetti Bros.

Nell’epoca in cui i cinecomic vanno per la maggiore non poteva mancare il film su uno dei fumetti più popolari di casa nostra. Certo Diabolik non è l’Uomo Ragno e non è Superman (ma nemmeno uno come Joker, per dire) e richiede tutto un altro tipo di approccio, racconto e stile narrativo. Quasi nessuno però in Italia sa fare il cinema di genere come i Manetti Bros. E in questo adattamento del celebre fumetto delle sorelle Giussani i due registi romani lo dimostrano una volta di più. Scelgono la strada – per nulla scontata – dell’approccio filologico e ricostruiscono in maniera impeccabile, e stupefacente, l’Italia degli anni Sessanta. È un trionfo di strumenti analogici (registratori a nastro, casseforti a combinazione meccanica, telefoni col filo) e alto design italiano (architetture, mobili, elementi d’arredo iconici) che fa tanto boom economico. E tranne che per le auto – la celebre Jaguar E-Type di Diabolik e la Citroën DS del suo antagonista, l’ispettore Ginko – la cittadina immaginaria di Clerville diventa una vera madeleine che riporta i ricordi a un passato quasi mitologico del nostro paese.

È in effetti un po’ fuori dal tempo questo “Diabolik”, irresistibilmente anacronistico e con un ritmo lento, in opposizione totale agli ipercinetici cinecomic odierni. La storia, modellata con cura maniacale sul terzo albo della serie “L’arresto di Diabolik”, racconta dell’incontro fra il celebre ladro (Luca Marinelli) e Eva Kant (Miriam Leone) in cui quest’ultima ruba letteralmente la scena e si prende la parte della protagonista. Dando seguito a quel tocco profondamente femminile (più che femminista) che contraddistingue da sempre le avventure del personaggio creato da Angela Giussani nel lontano 1962.
(Capitol/Uci Orio e Curno/Arcadia Stezzano/Anteo Treviglio)

“House of Gucci” di Ridley Scott

Chiariamo subito: quasi tutti gli spettatori italiani vedranno “House of Gucci” doppiato e quindi non riusciranno a capire fino in fondo l’incredibile cialtroneria dell’operazione (a proposito: alcune sale programmano spettacoli in lingua originale. Il consiglio, non solo in questo caso, è di preferire quelli).

Tuttavia, anche senza godere della versione originale, la totale assurdità delle scelte degli autori risaltano piuttosto chiaramente. Da Ridley Scott che parla dell’affaire Gucci forse uno si aspetterebbe qualcosa di simile a un melodramma dai toni cupi, o magari a una specie di thriller psicologico. Invece niente di tutto questo. Il film è una fanfara di luoghi comuni, stereotipi e maschere da commedia dell’arte a metà fra “I Soprano” e il Bagaglino. E dove gli italiani di cui si racconta – benché membri dell’alta borghesia milanese di origine toscana – sembrano dei mafiosi da operetta e, non si capisce per quale motivo nella versione originale parlino in inglese con pesante inflessione italiana (che è come se noi girassimo un film su un caso di cronaca ambientato negli Usa e lo facessimo interpretare da attori italiani che parlano come Stanlio e Ollio).

Il risultato, visto che la forma non può prescindere dal contenuto, è un pasticcio da non credere. La storia nota dell’assassinio di Maurizio Gucci (Adam Driver) ordinato dalla moglie Patrizia Reggiani (Lady Gaga) è in realtà il racconto della seduzione per il lusso e per il potere dato dall’appartenenza al brand della celebre casa di moda. Un’ebbrezza talmente smodata da spingere alla più bieca avidità e, appunto, all’omicidio. Un discorso che se sviluppato nel modo giusto sarebbe stato anche interessante, ma che fatto così, di fronte a tutto il resto, si smarrisce completamente.
(Capitol/Uci Orio e Curno/Arcadia Stezzano/Anteo Treviglio)

“West Side Story” di Steven Spielberg

Bloccato dalla pandemia e in uscita con un anno di ritardo sta finalmente per arrivare il remake firmato da Spielberg di uno dei musical più amati di tutti i tempi. I fan del film di Robbins e Wise del 1961, a sua volta tratto dal musical con Leonard Bernstein a scrivere la parte musicale, non potranno che apprezzare, ma anche chi non ha mai visto o non ha mai sentito parlare di “West Side Story” si innamorerà di questa nuova versione.

La storia è nota ed è ambientata nella Manhattan degli anni Cinquanta in cui si fronteggiano le bande dei Jets, newyorkesi bianchi di seconda generazione, e degli Sharks, immigrati portoricani da poco giunti nella Grande Mela, per il controllo dell’Upper West Side. In mezzo una storia d’amore tragica ispirata a Romeo e Giulietta che forse aiuterà a portare un po’ di pace nel quartiere, prima che la gentrificazione faccia piazza pulita di tutto e renda vana ogni contesa per il territorio.

Spielberg resta fedele al musical, non modifica l’ambientazione storica ma riesce ad aggiornare brillantemente alla contemporaneità una storia attuale ancora oggi. Che parla delle difficoltà dell’integrazione, delle disparità sociali e delle contraddizioni di un paese grande, complesso e multiforme come gli Stati Uniti. Un inno alla vita e all’amore, che da solo può salvare il mondo, ma anche un messaggio diretto alla pancia trumpiana dell’America. E un saggio di cinema realizzato da uno dei più grandi autori contemporanei capace di trovarsi a suo agio anche con un territorio per lui inesplorato come quello del musical. Da non perdere.
(Conca verde/Arcadia Stezzano/Anteo Treviglio)

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