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Il cinema horror? Una classica (e vecchia!) storia estiva

Articolo. Come ogni estate gli horror riempiono la programmazione di sale e arene, ma anche delle piattaforme streaming. Ne abbiamo scelti un paio che ci dicono molto sui nostri tempi.

Lettura 5 min.
A Classic Horror Story

L’estate è la stagione dell’horror. Al cinema almeno. Tradizionalmente quando le sale chiudono per la pausa estiva e la programmazione rallenta, l’orrore diventa il genere più frequentato da distributori, esercenti e spettatori. Sarà perché attira il pubblico dei giovani che d’estate ha più tempo libero, perché la calura e l’accidia favoriscono la ricerca di emozioni forti, o magari perché molti film dell’orrore classici sono ambientati proprio durante la stagione estiva e spesso in posti di vacanza, sta di fatto che quando si alza la temperatura cresce anche la voglia di prendersi qualche sano spavento.

In queste settimane sia al cinema che in streaming si trovano horror di tutti i tipi. Dai distopici sci-fi come A Quiet Place II, ai mistery come They Talk, passando per le case infestate di Possession – L’appartamento del diavolo e La casa in fondo al lago e fino ai comedy-horror come Il mostro della cripta. Curiosamente molti di questi film – e soprattutto quelli italiani (They Talk e Il mostro della cripta) fanno un uso meta-cinematografico del genere e riflettono sulla rappresentazione giocando molto sull’idea che ci sia qualcosa di profondamente spaventoso nella realtà e il cinema sia in qualche modo uno strumento capace di far emergere questo orrore. Oppure che sia il gesto cinematografico stesso a generare l’orrore e in fondo le immagini ne siano l’emanazione più brutale. A dire il vero niente di particolarmente nuovo e originale – il cinema e l’horror si interrogano da sempre sul potere medianico dell’immagine – eppure qualcosa di tanto ricorrente da non poter essere interpretato che come un segno dei tempi.

A questo proposito ci sono due film – fra quelli in circolazione in questi giorni – che hanno attirato la nostra attenzione e nei quali il discorso della meta-rappresentazione emerge una volta in più in maniera forte.

Old di M. Night Shyamalan

Dopo aver completato la trilogia dei supereroi con Split (2016) e Glass (2019) Shyamalan torna al suo cinema più personale, sospeso fra il thriller soprannaturale e l’horror d’atmosfera. Tratto dalla graphic novel franco-svizzera Castello di sabbia di Pierre Oscar Lévy e Frederik Peeters, Old è quasi tutto ambientato su una spiaggia tropicale da sogno sulla quale però succedono cose molto bizzarre. Protagonista è una famiglia, padre madre e i due figlioletti, fratello e sorella di sei e undici anni, che durante una vacanza già parecchio tormentata a causa della crisi di coppia dei genitori, si trova a condividere una giornata in spiaggia con altri nuclei familiari, tutti a loro modo segnati da relazioni complicate.

Non sveleremo il mistero che fa anche da twist narrativo del film (sebbene sia il titolo sibillino sia la locandina lascino intendere molto), ma come sarà facile immaginare per chi conosce il regista de Il sesto senso a un certo momento – a dire la verità piuttosto presto – i protagonisti si rendono conto che qualcosa non va e le loro stesse vite sono in pericolo. A quel punto anche solo lasciare la spiaggia diventerà un’impresa disperata e ogni minuto perso peserà come un macigno.

Sì perché Old è prima di ogni altra cosa un film sul tempo. Un’opera che ragiona sullo scorrere dei minuti, delle ore, degli anni e quindi della vita. Seppure con uno sguardo leggermente ingenuo e cerando, al solito, delle metafore un po’ grossolane Shyamalan costruisce un film affascinante, capace di interrogarsi sui grandi temi dell’esistenza e allo stesso tempo di usare la suspense come dispositivo di senso, attraverso cui filtrare le paure più ataviche dell’umanità (la morte, la malattia, la perdita degli affetti).

Ma allo stesso tempo Old è uno dei film più politici del regista statunitense di origine indiana. Si diceva della rappresentazione come tema trasversale dell’horror contemporaneo; qui è usata in senso assolutamente politico. I personaggi del film a un certo punto si accorgono della presenza, in lontananza, di telecamere che riprendono tutto quello che succede sulla spiaggia. Come se le loro vite fossero il soggetto di un reality-show o di un (brutto) film dell’orrore. In realtà la spiegazione è ancora più inquietante (e taceremo anche di questa per non rovinare la sorpresa), ma diventa l’occasione per riflettere su temi ancora diversi e arricchire il film di ulteriori sfumature inquietanti.

Il discorso si concentra sulle politiche dello sfruttamento del corpo, della bioetica le scelte in tema medico sanitario. Qualcosa di assolutamente contemporaneo e centratissimo sul nostro presente. Anche se le questioni sollevate dal film – e dalla graphic novel che è del 2010 – non hanno nulla a che vedere con il Covid o la pandemia dicono molto del rapporto sempre più stretto fra gli interessi medici, politici ed economici e su come l’eterno desiderio dell’uomo per la vita eterna resti il più insopprimibile di tutti.
(Uci Orio e Curno / Anteo Treviglio)

A Classic Horror Story di Roberto De Feo e Paolo Strippoli

Già dal titolo si capisce (quasi) tutto. Per prima cosa il fatto che per un film italiano si utilizzi l’inglese è segno di come i riferimenti stilistici, estetici e narrativi arrivino non dal nostro paese ma certamente dall’universo hollywoodiano e poi l’indicazione che fa riferimento non tanto al contenuto del film ma piuttosto al suo genere e stile, mette in chiaro come il tema principale non sia la storia ma la sua rappresentazione. A Classic Horror Story è un meta-film a tutti gli effetti, nel quale la finzione prende il posto del soprannaturale nel creare l’orrore e tutto, finanche i personaggi, sembra conscio di far parte di un racconto.

La storia è quella di un gruppo di persone – una giovane coppia diretta a un matrimonio, una ragazza che sta andando ad abortire e un medico fallito di mezz’età che sta tornando a vivere dalla madre – in viaggio verso la Calabria a bordo di un vecchio camper sgangherato. Fra loro non si conoscono e hanno tutti prenotato il carpooling di Fabrizio, autista del camper, studente calabrese di cinema a Roma di ritorno a casa per l’estate. A causa di un incidente i cinque si trovano sperduti in mezzo a un bosco della Sila in cui non funzionano i cellulari e c’è solo un vecchio e inquietante cascinale che sembra uscito da un racconto di Shirley Jackson.

I registi mischiano con innegabile maestria le straordinarie location della Calabria interna con l’immaginario horror americano classico (appunto), citando senza soluzione di continuità e un po’ di furberia, tutti i grandi capolavori del genere (da Venerdì 13 a Non aprite quella porta e Le colline hanno gli occhi, fino a The Wicker Man e al recentissimo Midsommar). E infarciscono il tutto con un miscuglio di leggende, miti e storie di riti apotropaici (riferimenti alla ‘ndrangheta compresi) del sud Italia abilmente modificati per rendere il più truculento possibile il lato gore.

Il risultato è un film ammiccante e studiatissimo in cui ogni possibile caduta di stile è efficacemente compensata dalla sua immediata messa in discussione (vedere la sequenza post-credit per capire). I personaggi osservano quanto la loro situazione contenga tutti i più evidenti cliché dei film dell’orrore, si presentano parlando in camera attraverso lo smartphone e infine guardano, scrivono e girano addirittura un film nel film in diretta mentre le cose stanno accadendo. Persino la protagonista, interpretata da Matilda Lutz, cita esplicitamente il proprio ruolo nel suo film precedente: Revenge (per chi non l’avesse visto assolutamente da recuperare!).

Insomma un film ammiccante e ostentatamente indirizzato al pubblico di Netflix (peraltro a sua volta oggetto di parodia nel finale) che cerca di aggiornare temi su cui, come si diceva, il cinema dell’orrore riflette da diversi anni. Eppure un’opera suggestiva, piena di idee (forse un po’ troppe) e di amore per il genere. Ma soprattutto in grado di mostrare un cinema cui siamo poco abituati dalle nostre parti: per le scelte estetiche (luci e fotografia così non si vedono quasi mai nel cinema italiano), quelle narrative (per certi versi davvero audaci) e per la recitazione degli attori (ben diretti e privi di ogni manierismo interpretativo). E non è poco.
(Netflix)

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