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“Anna” di Niccolò Ammaniti: se muoiono i genitori il mondo diventa crudele

Articolo. La seconda serie tv dello scrittore romano (su Sky e Now) è un meccanismo narrativo quasi infallibile. E racconta un mondo infetto, in cui solo i bambini spietati sopravvivono

Lettura 3 min.

“Si dice sempre che i bambini sono come angeli, puri e innocenti: be’, io non sono molto d’accordo. I bambini piccoli, considerati innocui, possono essere addirittura spietati e crudeli, proprio perché l’innocenza (o inesperienza) non permette loro di rendersi conto se stanno facendo male al prossimo. È in questi casi che gli adulti diventano necessari, per insegnare ai bambini cosa è giusto e cosa è sbagliato”. Così Keiko Ichiguchi in “Non ci sono più i giapponesi di una volta”, libro che raccoglie curiosità e stranezze del Sol Levante. Giapponesi o no, quando gli adulti non ci sono più, sterminati da una pandemia chiamata La Rossa (che colpisce tutti coloro che sono oltre la pubertà), quello che rimane è solo il caos. E a voler sintetizzare è tutta qui “Anna”, la nuova serie in sei episodi di Niccolò Ammaniti, tratta dal libro omonimo del 2015.

Oltre ad essere straordinariamente abile a scrivere libri che sembrano quasi una sceneggiatura (“Io non ho paura”, “Come dio comanda”, “Che la festa cominci”) e tengono attaccati alla pagina – in questo caso allo schermo – come pochi altri, pare che Ammaniti, quando vuole parlare del nostro mondo, si affidi ai bambini. I quali, come ci ricorda la Ichiguchi, non sono angeli. Anzi. Crudeli, amorali, spietati, vivono in una Sicilia spopolata e sfranta, figli di genitori che sono morti di contagio. E senza di loro niente più barriere educative e morali. Solo un’istituzione che odora di tubo catodico (o meglio di cristalli liquidi ad alta definizione) lontano un miglio.

Qualcuno ha citato un capolavoro come “Il signore delle mosche” di William Golding: è vero, ci sono i bambini, c’è la cattiveria. Ma se Golding raccontava il vano tentativo di un gruppo di ragazzi inglesi naufraghi di autogovernarsi, mostrando una visione pessimista e un po’ reazionaria dell’essere umano in piena epoca di totalitarismi, Ammaniti sembra più concentrato sul dopo Apocalisse. Cioè su cosa stanno lasciando questi genitori ormai morti. La risposta è: nulla di buono, o quasi.

La serie si intitola “Anna” ma avrebbe potuto chiamarsi “Angelica” (Clara Tramontano e Matilde Sofia Fazio). È lei, figlia viziata e malvagia di una famiglia benestante, a capeggiare come regina Villa Valguarnera a Bagheria, dove vivono i Blu, una tribù di ragazze e ragazzi tutti pittati stile Yves Klein. Li comandano i Bianchi, ovvero i più grandi che, superata la pubertà, iniziano a infettarsi con La Rossa e coprono i bubboni con della vernice bianca. Angelica dispensa prove e punizioni, pare una Maria De Filippi completamente partita di testa, mentre i Blu e i Bianchi richiamano le cromie di un talent di successo, l’istituzione a cui tutti si votano. Meno Anna (Giulia Dragotto e Viviana Mocciaro), che fuggirà dai Blu, il piccolo fratello Astor (Alessandro Pecorella e Nicola Mangano), che prima rimarrà e poi se ne pentirà, e Pietro (Giovanni Mavilla e Ludovico Colnago), pre-adolescente che vive solitario nel bosco, un passato a dir poco difficile, la ricerca di una compagna che non sia solo amicizia.

Ci sono altri personaggi in “Anna”, e ognuno sembra esprimere una disperazione che è personale e collettiva. I gemelli Mario e Paolo (Danilo e Dario Di Vita), proprietari di un minimarket che vorrebbe trasformarsi in una casa degli orrori ma diventa soltanto il luogo di sepoltura di Paolo (in un frigo fra le merendine) e il bunker petroniano di Mario, che la butta sul nichilismo strafogandosi di qualsiasi cosa trova. Nucci, a capo di una gang ai piedi dell’Etna che farà la fine che si merita. E Katia (Roberta Mattei), la “Picciridduna”, che secondo la follia di Angelica dovrebbe sacrificarsi per salvare tutti, ma in verità è l’unica che si salva davvero, in quanto ermafrodita risparmiata da La Rossa e difatti adulta: una figura tragica, a suo modo poetica, precognizione impossibile di un mondo che verrà e che intanto è divenuto rivelazione sardonica, vacua e sanguinaria di una nazione che non c’è più (muore pure il Papa, in diretta televisiva).

Ammaniti aveva esordito come ideatore, sceneggiatore e showrunner de “Il miracolo”, di cui era anche regista insieme a Francesco Munzi (“Anime nere”) e Lucio Pellegrini (“È nata una star?”) – con un immenso Tommaso Ragno, sacerdote disperatamente in crisi di fede. Qui lo scrittore fa tutto da solo e il risultato, senza essere strabiliante, funziona grazie ad una buona fotografia e ad alcune trovate sceniche azzeccate. In più dimostra di conoscere fin troppo bene i meccanismi del flusso, per dirla alla Jay David Bolter. E rilascia nella plenitudine digitale le sei puntate di “Anna” come un baleno dove ogni episodio “chiama” il successivo. È narrativa popolare e c’è il mare in fondo, un pizzico di Cormac McCarthy, e chissà che nella penisola qualcun altro abbia resistito al potere dei talent.

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