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Le donne pastore del film di Anna Kauber al festival «Fabergamo»

Intervista. «In questo mondo» (2018), vincitore come Miglior documentario italiano al 36° «Torino Film Festival», verrà proiettato durante la serata inaugurale del festival «Fabergamo». Che giovedì 22 settembre dalle ore 20, presso il Teatro Sant’Andrea in Porta dipinta, si aprirà con due artiste bergamasche: Sara Zangarini e Francesca Romana Romano. A seguire sono previste l’intervista alla regista Anna Kauber e le testimonianze dei pastori tra valle Camonica e terre di pianura. L’inaugurazione sarà musicata dal maestro Tonino Macis e condotta da Gerardo Ferrara

Lettura 4 min.

Nato nel 2019 e giunto alla sua quarta edizione «Fabergamo», festival ispirato al pensiero e alle canzoni di Fabrizio De André, torna dal 22 al 25 settembre tra le Mura di città Alta. L’organizzazione è a cura dall’associazione culturale Chitina Artistica con la collaborazione dell’associazione MAITE e del collettivo abitante in ExSA (ex Carcere di Sant’Agata). Protagoniste del programma di quest’anno saranno le donne, con testimonianze che affrontano il superamento degli stereotipi di genere.

Ospite della prima serata è Anna Kauber, regista, scrittrice e paesaggista parmense, che da diversi anni documenta e divulga la vita e il lavoro nel mondo rurale, occupandosi in particolare di tematiche sociali e culturali delle comunità. Nel 2014 ha pubblicato «Le vie dei campi», vincitore del premio di letteratura rurale «Parole di Terra». Attorno al tema della relazione fra esseri umani, terra e cibo, ha realizzato il docufilm «Ciclone Basmati», girato fra Italia e India, e la raccolta di videointerviste «Ritratti di donna e di terra», che ricerca e documenta la specificità di genere in agricoltura e nella trasformazione dei prodotti della terra.

«In questo mondo» racconta la vita delle donne pastore in Italia. La figura del pastore, nell’immaginario e nella simbologia più diffusa, è sempre stata associata al genere maschile. Nonostante lo scetticismo – se non l’esplicita opposizione della cerchia personale così come di quella pubblica – la ricerca dimostra quanto il settore dell’allevamento ovi-caprino si stia femminilizzando. Mosse da una forte, appassionata determinazione, sempre più donne scelgono di svolgere questo lavoro di cultura tradizionale patriarcale, superando ogni difficoltà e accettandone le sfide e le fatiche.

Il film è la raccolta corale dei vissuti di alcune di loro nei contesti della loro vita quotidiana, fra animali e vegetazione, in una immersione totale nei suoni, nei profumi e nelle luci dell’elemento naturale delle Terre Alte. Nasce quindi dalla personale esperienza della regista. I legami di amicizia e affetto che si sono creati sono diventati la linea narrativa, intima e spontanea, che introduce alla comprensione delle motivazioni delle protagoniste, alla fatica e alle difficoltà, così come alla consapevolezza e soddisfazioni della loro scelta. Il documentario apre lo sguardo su questo mondo poco conosciuto, interpretato secondo l’approccio nella cura: degli animali e dei luoghi abbandonati della montagna, dei quali preservano la straordinaria biodiversità animale e vegetale. Ne abbiamo parlato con la regista.

CD: Come è nato il film e come hai lavorato per realizzarlo?

AK: Il documentario è il risultato di un viaggio in auto durato due anni, in solitaria, senza troupe: dal 2015 al 2017 ho percorso diciassettemila chilometri vivendo con le donne pastore e intervistandole nei loro luoghi. Ho condiviso con ognuna di loro alcune giornate stando a stretto contatto, talvolta dormendo in alpeggio. Ho conosciuto e filmato circa un centinaio di donne dai venti ai centodue anni, perché per raccontare la pastorizia moderna è necessario ripercorrerne il passato millenario, che nelle forme e nelle modalità, non è sostanzialmente cambiata.

CD: Perché proprio le donne pastore?

AK: Il progetto di ricerca fa capo al mio andare nel mondo rurale, attività che svolgo da molti anni, approfondendo le tematiche di relazione e di genere. Le donne sono meno raccontate: la storia ufficiale se ne è sempre occupata poco e l’attenzione verso le donne anziane si può dire praticamente inedita a livello di documentazione. Il progetto per me è stato fonte di pura gioia: sognavo da tempo di realizzarlo e non ci è voluto coraggio, né è stato faticoso, al contrario, è stato impegnativo solo a livello temporale, per tutto il resto è stato stupendo, facile e ha dato luogo a incontri arricchenti, mai ostacolati dalla diversità, né idiomatica, né anagrafica.

CD: Cosa era importante per te trasmettere? Su cosa si concentra il racconto?

AK: Il principio fondativo delle mie ricerche si basa sullo scambio in condivisione, sulla relazione, non su domande. Ho incontrato giovani donne pastore con due lauree e anziane signore che parlano solo dialetto, tutte sono state in grado di mettere in gioco il proprio vissuto con empatia. Questo ha permesso che il documentario si caratterizzasse per una forte componente di intimità. L’intendo del progetto non è fornire istanze, né io sono partita con preconcetti, l’idea del film è lo svelamento di ciò che ho condiviso con queste donne, che nell’unione con paesaggi e animali sono i tre elementi preponderanti. È stato un viaggio di crescita interiore anche per me, che non sono la stessa di quando sono partita. Per niente.

CD: Che idea ti sei fatta del perché la pastorizia sia considerato un mestiere per uomini?

AK: Si tratta – come sempre – di un inciampo storiografico, ovvero ciò che si vuole narrare e come. Sia nei numeri, che per impronta culturale, la pastorizia è sempre stata associata al maschile. Sono le storie più sottili, quelle che chiamiamo microstorie, che anche antropologicamente devono riformularsi sulla presenza femminile nel mondo pastorale. Perché non è affatto raro che le donne, in special modo dall’appennino tosco-emiliano in su, si occupassero del gregge: si pensi alle «pastorelle», che sin dalla prima infanzia andavano in malga sole a curare le vacche. Non in remoto passato, ma anche una generazione prima della nostra. Si parla sempre di bambini, ma ricordiamolo, erano anche bambine.

CD: Non solo donne anziane, ci sono molte giovani ragazze che scelgono di dedicarsi a questo mestiere. Che cosa hai riconosciuto in loro?

AK: Le nuove figure stanno emergendo con una forza e una consapevolezza del sé estremamente trasversale anche rispetto al percorso di studi. Ciò che accomuna tutte è l’essersi conquistate il proprio ruolo, indipendentemente dallo stigma che vuole la donna dedita al solo contesto famigliare. La pastorizia è un mestiere che non ha tempi morti, né vacanze, e di poco guadagno, perciò la “chiamata” a questo lavoro da parte delle donne è unica e alimentata da bisogni altri. Si tratta di un collegamento molto forte con la natura, in direzione opposta alla vita urbanocentrica incapace di rispondere ad una minima esigenza di felicità interiore. Così i greggi sono luoghi di autonomia e di affermazione della libertà per queste donne.

CD: Cosa determina il legame tra le pastore e il loro gregge?

AK: Nel film emergono l’orgoglio e la fierezza di chi si è conquistata un lavoro che non lascerebbe mai, che non è ricattabile. Uno dei tratti distintivi è il concetto di cura estremamente sviluppato nella relazione della donna con gli animali. È un rapporto empatico e non gerarchico, che non conosce violenza. Va fatta però una considerazione fondamentale: il gregge è femmina. Così si verifica una somiglianza fisica nei cicli della vita, un’intesa femminile, che tutte le pastore mi hanno riportato come dato estremamente rilevante, riconosciuto anche dai pastori maschi.

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