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Michael Haneke e l’importanza di un cinema che metta a disagio

Articolo. Il regista austriaco è tra coloro che meglio hanno saputo interpretare il ruolo del cinema come strumento di riflessione sul presente attraverso i traumi della Storia europea. Lo racconta nel dettaglio il volume di Lorenzo Rossi, docente di «Stili autoriali del cinema contemporaneo» all’Università degli Studi dell’Insubria e nostro collaboratore

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Il nastro bianco

Quando nel 1989 fa il suo debutto nel mondo del cinema con «Il settimo continente», il regista austriaco Michael Haneke ha 47 anni, quindici anni di regia e sceneggiatura televisiva alle spalle e un passato remoto di critico cinematografico laureato in psicologia. Quel suo fulminante film d’esordio, ispirato a un fatto di cronaca nera avvenuto in Austria (il suicidio domestico di un’intera famiglia, padre, madre e figlia) presentava già alcuni elementi che avrebbero definito la sua autorialità nei trent’anni successivi: temi, ambientazione, la capacità di sintonizzarsi su certe frequenze psicologiche ed emotive del pubblico, uno sguardo originale e inconfondibile che «si è presto trasformato in forma e infine è diventato stile», come scrive Lorenzo Rossi nel suo «Michael Haneke: lo spazio bianco. Cinema, storia e immagini del presente», edito da Mimesis.

Ne «Il settimo continente», Haneke ricostruiva la vicenda in tre capitoli: la quotidianità di una normale famiglia che poi si rinchiude in casa isolandosi dal mondo esterno, consuma un pasto luculliano, distrugge tutto ciò che si trova tra le mura, e infine si avvelena. In un piano sequenza vediamo gettare mazzi di banconote giù per lo scarico del water. C’è un frammento di intervista in cui il regista racconta che in occasione della presentazione del film a Cannes aveva avvertito il produttore sulla possibilità che in molti, tra il pubblico, potessero risentirsi per due scene in particolare, una in cui si vedono dei pesci d’acquario agonizzare dopo la distruzione della vasca, l’altra proprio quella delle banconote giù per il WC:

«E lui (il produttore, ndr) mi disse “ma no, è ridicolo, magari quella con i pesci, perché muoiono degli animali... ma l’altra mai”. E in realtà è stato esattamente come dicevo: c’erano persone che uscivano dalla sala sbattendo la porta. Ovunque abbia portato il film (quella dei soldi, ndr) era proprio la scena in cui avvenivano le proteste. Perché è il tabù più grande: è molto meno scioccante vedere dei genitori che uccidono il proprio figlio e poi sé stessi che veder distruggere del denaro. È un tabù totale nella nostra società».

Da allora, Haneke si è guadagnato due Palme d’oro, un Gran Prix Speciale della Giuria, un premio per la regia a Cannes, un Oscar per il miglior film straniero e una costellazione di altri riconoscimenti internazionali, oltre a essere considerato tra i più influenti interpreti della cultura visuale contemporanea. Senza mai farsi mancare il piacere di provocare il pubblico con intelligenza, di sabotare la sua posizione di comodo, deresponsabilizzata: in primis quella sulla poltrona nel buio di una sala, da dove gettiamo uno sguardo come disincarnato, e ci crediamo al sicuro, a distanza, senza l’ombra di una colpa rispetto ciò a cui assistiamo, con il corpo fuori dal mondo osservato, soggetti che guardano e non oggetti che di quel mondo fanno parte.

La forza del cinema di Haneke sta anche nella capacità di ribaltare questa posizione, o almeno di spogliarla di quell’illusione di alterità, di potere inattaccabile, di purezza: non si è mai al sicuro da sé stessi, esentati dal portato di essere europei, occidentali, bianchi, figli di una tradizione culturale e storica che è fatta di colpe e responsabilità, questioni irrisolte sulle quali agisce un sentimento di rimozione collettiva organico al nostro spazio geo-politico e capace di plasmare non solo il presente ma lo stesso sguardo che gettiamo sul passato – la Memoria.

Ed è in queste pieghe-piaghe che si insinua il cinema di Haneke, «una specie di porta di accesso alle pagine scomode della nostra Storia recente» scrive Rossi, che individua proprio nel trattamento della Storia uno «strumento di accesso» al cinema del regista austriaco, filo rosso che lega tutta la sua produzione: 12 film eterogenei ma dalla matrice inconfondibile, ricchi di rimandi più o meno sottesi e di temi ricorrenti come la violenza, la famiglia come metafora del concetto di popolo, la messa in discussione del suo ruolo sociale nella contemporaneità, la Storia per provare a spiegare il presente e il rapporto tra dimensione pubblica e privata, la colpa. «C’è sempre un senso di colpa collettivo che può essere collegato a una storia personale» ha dichiarato il regista.

Lorenzo Rossi prende quei temi ricorrenti e li articola in concetti-chiave di un ampio discorso che muove di volta in volta dai film in cui quegli stessi temi sono trattati in maniera più emblematica: «violenza» per «Funny Games» (1997), «famiglia» per «Benny’s Video» (1992), «popolo» per «Happy End» (2017), «storia» per «Il nastro bianco» e «immagine» per «Caché» (2005). Ne esce un lavoro radiografico, ricco di rimandi interni, unico per chi voglia scandagliare le centralità dell’universo-Haneke seguendo traiettorie laterali e sempre comunicanti.

Si vede affiorare così un’idea di cinema come strumento di riflessione , nel suo doppio significato: formulazione teorica sui contenuti e spazio (specchio?) in cui riconoscerci e riconoscere la tradizione culturale e storica del vecchio continente, ma con il carico di ciò che non vorremmo conoscere o che ci torna comodo non considerare perché sta bene lì, sotto il tappeto del tempo che passa, della rispettabilità borghese, della morale con cui decoriamo la nostra immagine e la nostra interpretazione del presente.

C’è qualcosa di “freudiano” dentro questo modo di fare cinema, di perturbante – e quindi di profondamente umano – che suscita un senso di familiarità e al contempo di estraneità, attrazione e repulsione, sintonia e disagio. È forse anche questo il motivo di tanto successo, sia di pubblico che di critica. Riaffiora il sommerso, il sedimento che intorbidisce l’acqua, si percepisce un sussurro che ci ricorda l’importanza, fin troppo trascurata, di avere qualcuno accanto che ti dica quello che non vuoi sentirti dire. Un cinema che chiede di imparare a muovere lo sguardo senza facili appigli e punti di riferimento, di mettere in relazione “lo statuto ontologico” delle immagini – ambiguo, ingannevole, parziale, disgregato, non-oggettivo – con la natura di qualsiasi racconto storico. Un esercizio che è importante continuare a fare, soprattutto oggi.

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