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“Richard Jewell”, quando gli eroi non sono esattamente come li immaginiamo

Recensione. Con l’ultimo film Clint Eastwood torna al suo cinema più tradizionale. Per raccontare una storia di ingiustizia e ipocrisia vecchia di venticinque anni, che però parla al presente

Lettura 4 min.

Gli eroi son tutti giovani e belli” cantava Guccini. E in effetti ce li immaginiamo tutti più meno così. Forti, sprezzanti del pericolo, votati al sacrificio e dall’aspetto sano, vigoroso e giovanile. O almeno funziona in questo modo nelle leggende, nelle fiabe e nella retorica patriottica degli Stati più conservatori e sciovinisti.
Nel mondo reale può accadere che gli eroi non abbiano esattamente l’aspetto di Dei greci e non siano nemmeno l’incarnazione del coraggio, della forza d’animo e dell’equilibrio mentale più tipici. Possono essere grassi, poco intelligenti e passare completamente inosservati. Qualcuno potrebbe anche pensare che siccome non sembrano degli eroi, allora forse non lo siano per davvero. Come “Richard Jewell”, protagonista dell’ultimo film di Clint Eastwood.

Richard il 27 luglio del 1996, durante lo svolgimento dei Giochi olimpici di Atlanta, riuscì a sventare quasi completamente un attentato terroristico dinamitardo in un parco della città della Georgia, mentre era in corso un concerto.
Come agente della sicurezza in servizio quella sera notò uno zaino sospetto abbandonato sotto una panchina nei pressi della sound tower e allertò immediatamente la polizia. Una volta aperto lo zaino e scoperta la bomba, Richard si adoperò insieme ai colleghi e alle forze di sicurezza presenti per sfollare la gente, ma prima che tutti potessero essere messi in salvo, l’ordigno esplose causando la morte di una donna e il ferimento di un centinaio di persone. Un cameraman, fra i primi a precipitarsi sul posto per documentare l’accaduto, fu colto da infarto e morì poco tempo dopo.

Immediatamente riconosciuto come eroe nazionale Richard venne invitato nelle trasmissioni tv, intervistato e celebrato da tutti. Nel giro di breve tempo però l’FBI iniziò a sospettare che l’attentatore potesse essere lui stesso e basandosi su prove indiziarie e testimonianze poco attendibili lo mise sotto indagine.
La vita dell’uomo e quella della madre furono sconvolte e l’interesse dei media, venuti a conoscenza della cosa, tramutò le loro esistenze in un vero e proprio incubo. Solo dopo mesi di indagini inconcludenti e grazie anche all’aiuto di Watson Bryant, avvocato e vecchio amico di Richard, l’FBI decise di interrompere le investigazioni e di scagionarlo da tutte le accuse.

Eastwood ci racconta questa storia con l’intento di riabilitare il nome e la reputazione del protagonista di cui ritiene ci si sia dimenticati troppo in fretta. Il vero attentatore, il fondamentalista cristiano Eric Rudolph, fu catturato nel 2003 dopo aver commesso altre tre azioni terroristiche e fu solo in quel momento che molta dell’opinione pubblica americana si convinse completamente dell’innocenza di Richard. Ma nonostante questo il suo nome venne presto dimenticato e la sua prematura scomparsa – nel 2007 a soli 44 anni – ne ha sancito l’oblio.

Come già fece con “Sully” (2016) – il film sul pilota d’aereo che con un ammaraggio d’emergenza sul fiume Hudson di New York salvò la vita a 155 persone, ma venne processato per non aver seguito il protocollo – il regista statunitense punta soprattutto a rimediare a un torto. Ma c’è ovviamente dell’altro.
Eastwood, come si diceva, propone un’articolata riflessione sul concetto e sull’essenza dell’eroe. Richard Jewell è un uomo dalla fisicità e della psicologia non conformi a nessuna idea comune di “normalità”. Oltre a essere sovrappeso, ad abitare con la madre (nonostante i quasi 35 anni) e a non riuscire a tenersi un lavoro, è anche un fanatico della sicurezza (ha un vero e proprio arsenale in camera da letto), disprezza gli omosessuali e come un bambino che gioca con i distintivi e le macchinine sogna di fare l’agente di polizia.

Nella prima parte del film il regista ce lo mostra come una specie di tontolone che abusa del suo ruolo di vigilante e tenta in tutti i modi di farsi notare, esibendo la propria autorità. In questo senso l’intento del film è quello di giocare con l’ambiguità del personaggio e mettere in risalto la goffaggine dei suoi modi e della sua fisicità. Di dare l’immagine di vero e proprio dropout al quale nessuno darebbe la minima considerazione. In effetti quando sventa l’attentato, quasi per caso e in conseguenza della sua natura ossessiva e quasi autistica, in pochi lo credono capace di un atto tanto eroico. Così in breve, anche per colpa della stampa, si convincono del contrario.

Di fatto il film ruota tutto intorno a questa ambiguità o meglio, la sfrutta per mettere sul tavolo l’idea che Eastwood, alla soglia del novant’anni, ha dell’America di oggi, del mondo e della realtà in cui vive. In un’opera straordinaria anche dal punto di vista tecnico, con una messinscena raffinatissima e una sensibilità visiva quasi inaspettata per un regista di quell’età, emergono molti dei temi fondamentali della poetica eastwoodiana.

Conservatore fino al midollo e da sempre convinto sostenitore dei principi più tradizionalisti e identitari dell’America repubblicana, il regista ha spesso lasciato trasparire nei suoi film una morale tutta sua, fatta di idee non sempre sovrapponibili a quelli più tipici della destra del suo paese. Con “Richard Jewell” Eastwood ribadisce per esempio la sua sostanziale disistima nei confronti dell’FBI, già messa in risalto in film come “Un mondo perfetto” (1993), “Potere assoluto” (1997) o “J. Edgar” (2011) e riafferma come la propria fiducia nelle istituzioni non coincida quasi mai con quella nelle persone.

Non crede negli agenti che indagano su Richard e ce li mostra come dei venduti, arrivisti e incompetenti. Ma nemmeno nei rappresentanti dei mass media: la giornalista che non sa scrivere si vende per una notizia falsa senza nemmeno preoccuparsi di verificarla. Salvo poi redimersi – nel momento senza dubbio più debole del film – solo quando ascolta la conferenza stampa della madre di Richard. Perfino il presidente – e la stoccata a Bill Clinton non è di certo casuale – sembra non essere la persona adatta al proprio ruolo.

Allora è quasi naturale che in questa serie di figure paradossali emerga quella dell’avvocato. Una categoria vista abitualmente con diffidenza dall’opinione pubblica e alla quale i cliché e gli stereotipi assegnano un carattere tendenzialmente negativo a causa delle abilità di interpretazione e mediazione della legge, diventa qui la più lucida e capace di discernere.
Watson, che ha in ufficio un poster con la scritta “I fear government more than I fear terrorists”, riassume per certi versi la filosofia del regista. Non tanto quella di diffidare delle istituzioni, ma di credere, come fanno gli eroi dei suoi western – i quali agiscono tutti al di fuori della legge – nell’esistenza di un grado di discernimento e di moralità superiore a qualsiasi legge imposta.

Ad un certo punto Richard, con indosso il distintivo, inizia a dubitare delle persone (e non delle istituzioni, come sottolinea Watson) e a credere davvero in qualcosa. In questo modo la sua percezione del mondo e di tutto quello che gli succede diventa reale e personale. Ed è forse solo in questo cambiamento che capisce fino in fondo anche il valore dell’atto eroico che ha compiuto. Puro e umanista, come del resto è a suo modo il buon vecchio Clint.

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