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Serie TV da videogiochi: fra funghi e zombi, il passo avanti di «The Last of Us»

Articolo. La serie televisiva HBO – che ha debuttato in Italia il 16 gennaio – nasce dall’omonimo videogioco Sony. E rappresenta un esempio positivo di trasposizione dallo schermo di una PlayStation a quello della tv. Mantenendo l’emozione di trovarsi di fronte a un racconto umanissimo e crudele

Lettura 6 min.
Bella Ramsey (Ellie) e Pedro Pascal (Joel)

Nell’aprile del 2011 più o meno tutti sapevano cosa era il fantasy visto che «Il Signore degli Anelli» era stato un grandissimo successo al cinema una decina di anni prima. Nessuno però avrebbe mai detto che di lì a poco milioni di persone si sarebbero interessate così tanto ad una serie molto politica ma anche sempre più ricca di magia, con morti e draghi al seguito. «Game of Thrones» non solo ha dato una scossa al settore del fantasy letterario ma ha anche dato il via alla ricerca del prossimo successo nello stesso genere letterario che potesse diventare altrettanto mainstream .

Oggi, a più di dieci anni di distanza la serie dedicata a «The Last of Us» cerca di fare più o meno la stessa cosa per quanto riguarda un certo modo di intendere i videogiochi. Perché un certo modo? Ci arriviamo tra poco, prima cerchiamo di fugare i dubbi di chi non sa neppure di cosa stiamo parlando, cosa molto probabile perché – anche se «The Last of Us» è un gioco molto noto e premiato – parliamo comunque di un gioco, quindi di qualcosa che molte persone, per pregiudizio, ignoranza o banale questione anagrafica ignorano.

«The Last of Us» è un gioco del 2013 uscito per PlayStation 3, poi portato su PlayStation 4 e recentemente anche su PlayStation 5, il cui rilascio per il mondo PC è prevista il 3 marzo di quest’anno. Il gioco è sviluppato da Naughty Dog, casa fortemente legata a Sony e già famosa per la serie di «Uncharted» (e prima di «Crash Bandicoot», ma questo ve lo ricordate solo se siete giocatori un po’ stagionati). Curiosamente, anche «Uncharted» è stato adattato, ma in un film, e non è andato poi così tanto bene, sia come incassi che come critica. I motivi, forse, ve li raccontiamo tra poco.

Naughty Dog con «Uncharted» ha dimostrato di saper fare un bel gioco action pieno di sparatorie, schivate e arrampicate. Ma pure di sapere gestire un certo tipo di narrazione che mescola momenti in cui il giocatore ha il controllo con situazioni in cui non lo ha – e altri in cui pensa di averlo ma è tutto parte di una raffinata regia. Questa capacità di raccontare i giochi senza perdere il gusto per la parte più ludica viene messa alla prova proprio con «The Last of Us, un racconto cupo, lontanissimo dalle atmosfere alla Indiana Jones di «Uncharted», che prende fortemente ispirazione da «The Road», libro di Cormac McCarthy in cui un padre e un figlio attraversano un’America post apocalittica infestata di cannibali e reietti di ogni tipo (da cui il film di John Hillcoat). Altre ispirazioni di «The Last of Us» si possono individuare in «Io sono leggenda» di Richard Matheson, ma anche in «Non è un paese per vecchi» (ancora McCarthy, portato sullo schermo dai fratelli Coen) e nel fumetto di «The Walking Dead».

L’intuizione di partenza di «The Last of Us» è geniale quanto semplice: il fungo cordyceps – realmente esistente e capace di infettare il sistema nervoso delle formiche spingendole a mettersi bene in vista sui rami per farsi mangiare dagli uccelli e continuare il proprio ciclo vitale – attacca l’umanità e trasforma le persone in creature violente e fameliche, o peggio. In questo inferno Joel, un uomo che ha perso tutto e che la vita ha trasformato in un violento contrabbandiere dal cuore chiuso, deve scortare una bambina, Ellie, e cercare di ritrovare suo fratello Tommy.

Ciò che ha reso «The Last of Us» uno dei giochi più interessanti e amati degli ultimi anni è la capacità di essere più della somma delle sue parti. Un gioco d’azione, un classico racconto a tema zombi e post apocalisse, un viaggio intimo di due persone che devono imparare a conoscersi, tutto frullato in un videogioco che eccelle sul piano recitativo, registico, sonoro e visivo. Un classico blockbuster, tragico, intenso, ben scritto, per un settore che soffre ancora tantissimo il bisogno di dimostrare di poter raccontare storie al pari di film, serie tv e libri, dimenticandosi però di non aver alcun bisogno di dimostrare niente.

Il successo di «The Last of Us» si mescola con la voglia di Sony (anzi, la sua esigenza commerciale) di far fruttare le proprie proprietà intellettuali videoludiche in altri campi. Da questa strategia nasce il già citato film di «Uncharted», la serie tv di «The Last of Us», il film dedicato a «Gran Turismo», in uscita a breve, e una serie tv dedicata a «God of War».

Ma come è insomma questa serie? In poche parole: un adattamento fedele, che sa tradire quando c’è bisogno, interpretato da un cast in stato di grazia e con una buona mano registica che sa quando il gioco aveva già trovato l’inquadratura migliore.

La storia è più o meno simile, per quanto riguarda i principali snodi di trama, ma ovviamente un videogioco e una serie tv non sono la stessa cosa, possiamo metterli a paragone ma hanno modi e tempi di narrazione diversi. Ecco quindi che là dove il videogioco andava spesso a metterci ansia con scene d’azione, inseguimenti e momenti in cui mostri e delinquenti ci braccavano, la serie si prende più spazio per raccontare il mondo attorno ai protagonisti. L’orrore quotidiano di vivere nelle poche sacche di umanità rimasta, la storia dei comprimari, la brutalità di una vita che ormai vale poco e tantissimo allo stesso tempo.

Ci sono anche cambiamenti più o meno radicali, come il metodo d’infezione del cordyceps, che non si basa più su spore ma su dei filamenti. Una scelta che rende il tutto un po’ meno “scientificamente corretto” ma resa necessaria, secondo gli autori, per evitare di dover far stare troppo gli attori con delle maschere antigas.

Il cambiamento più grande riguarda forse il ritmo, che è particolarmente compassato, rispetto al gioco, nelle fasi iniziali, per poi subire un’accelerata nel finale. Un’accelerata c’era anche nell’opera di riferimento, ma visto che l’azione era una costante si sentiva meno, qua invece forse è l’unico vero intoppo di un racconto che fila benissimo, duro, cattivo, con Pedro Pascal e Bella Ramsey nei panni di Joel e Ellie che trovano da subito una bellissima chimica e ci restituiscono tutta l’intensità di un rapporto complesso, che si costruisce tra mille difficoltà. Se nel gioco essere braccati era la costante, qua si vive più sul filo di qualcosa che potrebbe andare storto, di una scelta sbagliata che distrugge tutto, di un incontro improvviso che può rivelarsi mortale.

Niente da dire neppure sulla messa in scena, ricca di dettagli e perfettamente in grado di recuperare, per chi ci ha giocato, le atmosfere del videogioco, con alcuni momenti registici che riprendono esattamente le scene d’intermezzo.

Se avete paura di non capirci niente perché non sapete niente del videogioco, non preoccupatevi: è una serie che non ha assolutamente bisogno del gioco come stampella narrativa, non ci sono non detti, non ci sono cose che dovevate sapere prima. Certo, per chi ha giocato ci sarà un gusto particolare nel ritrovare certe scene (che fanno ancora malissimo) e scoprire i cambiamenti, ma per tutti gli altri ci sarà l’emozione di trovarsi di fronte a un racconto umanissimo e crudele, in cui i momenti più intensi sono quelli dove non si sente una parola.

A cosa si deve il successo di critica di ««The Last of Us»» in versione seriale? È semplicemente stato introdotto un fattore che spesso negli adattamenti manca: il rispetto. Rispetto dell’opera originale, delle sue atmosfere e dei suoi messaggi, rispetto nell’adattarla come qualcosa che ha valore e che va cambiato. Un rispetto che vede anche il coinvolgimento di uno degli autori del gioco, Neil Druckmann, affiancato a Craig Mazin, che aveva già lavorato all’ottima serie tv su «Chernobyl».

Perché sì, senza dubbio la storia di «The Last of Us» aveva un cuore narrativo forte che poteva funzionare come una serie tv, ma quanti videogiochi, quante libri, quanti fumetti con ottime storie sono stati adattati in pessimi film e pessime serie tv? Adattare è un lavoro molto particolare, è come potare un bonsai in cui ogni tocco può rovinare l’effetto d’insieme. E se anche l’adattamento di «The Last of Us» non è perfetto è un grandissimo passo avanti rispetto al passato.

Avremo ancora serie brutte tratte dai videogiochi? Certo che sì, il settore sta diventando la nuova vacca da mungere per un mondo sempre avido di buone idee che hanno già funzionato, ma la differenza rispetto al fantasy è che i videogiochi non sono un genere letterario, sono letteratura, sono moltissime cose, non solo belle storie. Nel caso di «The Last of Us» è stato più semplice, anche perché l’ambientazione è tutto sommato contemporanea. Ma in futuro chissà, c’è sempre il rischio di costumi ridicoli, che a schermo non rendono, e storie che senza la componente ludica si sgretolano facilmente. Di sicuro le serie tv sono lo spazio ideale per i videogiochi, che spesso richiedono molte ore, ore che compresse in un film spesso finiscono per soffocare in narrazioni tagliate malamente.

È altrettanto certo che qualcosa è cambiato. E speriamo che quel rispetto che si intravede nella messa in scena di «The Last of Us» si ritrovi in altri spazi. Perché i videogiochi sono pieni di bellissime storie da raccontare. E magari anche da giocare, perché la prima cosa che ho fatto dopo aver visto la serie è stata rigiocarmi, per l’ennesima volta, «The Last of Us».

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