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Tarkovskij in pellicola: per tornare a dare corpo alla memoria e allo scorrere del tempo

Intervista. È dedicata al cineasta russo la seconda parte della rassegna di classici in pellicola organizzata da Lab80 e Bergamo Film Meeting a Daste. Si chiama “Nel labirinto del tempo”: ce ne ha parlato Angelo Signorelli

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Stalker

“L’ho visto sedici volte questo film da quando è uscito nel 1976, ma ogni volta che vedo questa sequenza finale mi vengono i brividi”. Qualcuno ha fatto questo commento, lunedì 7 febbraio, uscendo dallo Schermo bianco di Daste e Spalenga, terminata la proiezione di “Nel corso del tempo” di Wim Wenders. Il film si chiude malinconico davanti a un cinema di provincia che si chiama, guarda caso, Weisse Wand: “schermo bianco”.

Uscito nello stesso anno in cui nasceva Lab 80, il grande classico di Wenders è stato scelto per inaugurare il secondo capitolo della rassegna “Sogni in pellicola” , partita lo scorso novembre con una prima parte dedicata a François Truffaut e al noir americano, e che da qui al 25 marzo presenterà una retrospettiva dedicata ad Andrej Tarkovskij, “Nel labirinto del tempo” . “Volevamo un film che introducesse un cinema che ci è sempre stato a cuore” spiega Angelo Signorelli, presidente di Lab 80. “Il problema del tempo è al centro della filmografia di Tarkovskij. E anche se tra i due autori non c’è affinità, ci sembrava che quello di Wenders fosse un biglietto da visita giusto, un modo un po’ provocatorio di avvicinarsi a Tarkovskij”.

(Quasi) tutto Tarkovskij, su grande schermo, in pellicola, in lingua originale. Senza girarci intorno, uno di quei casi in cui non è iperbolico parlare di occasione clamorosa e imperdibile. Una rassegna che è anche un percorso di avvicinamento al prossimo Bergamo Film Meeting, la cui serata inaugurale all’Agorà Daste sarà proprio dedicata al titolo forse più celebre del regista russo.

MR: Il tempo è un tema attorno al quale ruota tanta cinematografia. Perché il trattamento di Tarkovskij è così unico e ancora oggi fresco e originale?

AS: Molti registi ci hanno riflettuto sopra, l’hanno rivoltato, hanno cercato di capire quali sono le implicazioni stilistiche che una certa riflessione sul tempo – e sulla durata soprattutto – può portare al cinema. Tarkovskij è forse quello che, insieme ad altri due o tre autori del Novecento, è riuscito a sviscerarlo in maniera più filosofica e antropologica. Naturalmente uno dei temi legati al tempo è la memoria. Che per un individuo vuol dire l’infanzia, il contesto storico, la famiglia, la presenza dei genitori. Tarkovskij aveva un padre poeta molto importante, la madre è stata una figura altrettanto importante, forse più a livello affettivo che non teorico o artistico. Quella della madre è una figura centrale presente in quasi tutti i suoi film.

MR: Memoria individuale ma anche memoria storica...

AS: Vedi “L’Infanzia di Ivan” e “Andrej Rublëv”. Tutti questi aspetti legati al trattamento – perché poi il cinema è sempre trattamento, rappresentazione – di questo tema fondamentale che riguarda il ricordo, il sogno, l’immaginazione, la fantasia, appartengono al percorso esistenziale e artistico del nostro caro Tarkovskij, che ha una pregnanza molto alta nell’universo cinematografico ma anche nella riflessione filosofica del Novecento. Io credo che vedere un film come “Stalker”, o un film come “Lo specchio”, non sia solo vedere un film ma significhi vedere uno studio filosofico e antropologico – oltre che artistico – di un’esperienza che è stata unica nel contesto di un secolo difficile, lungo, tormentato come è stato il secolo scorso.

MR: Quali sono i motivi che vi hanno spinto a presentare film in pellicola? Quanto è importante recuperare l’aspetto artigianale e analogico del cinema?

AS: Lo facciamo soprattutto per i giovani, perché capiscano che la pellicola era un linguaggio con le sue caratteristiche, e il digitale è un altro linguaggio con altre caratteristiche. Riguarda tutto: il colore e l’impasto cromatico, il sapore dell’immagine. Sono due mondi diversi. Parlando di artigianalità, la pellicola aveva bisogno di strutture tecniche molto complesse e probabilmente più voluminose di quelle che utilizza il digitale. Quello che possedeva la pellicola, però, il digitale non lo può riprodurre, è un’altra cosa. Non è un giudizio negativo il mio, ma è un po’ come quando si lavorava il legno e poi sono sopraggiunte le macchine, la produzione industriale. Il risultato è diverso.

MR: È qualcosa che ha a che fare più col romanticismo – col feticismo – oppure ci sono dei motivi tecnici, al di là del gusto, per continuare a valorizzare il cinema in modalità analogica?

AS: Forse è solo come ascoltare la musica in vinile, non so. Quelli che nascono oggi probabilmente la pellicola non sapranno neanche cos’è. A quelli che sono nati trent’anni fa gli si può ancora far capire la differenza, ma potrà non succedere tra dieci o vent’anni. Non lo so. Ripeto, sono due modi diversi. Anche noi che facciamo questo lavoro da anni cerchiamo di confrontarci con i due linguaggi, con questi due modi diversi di rappresentare la realtà, di raccontare le storie. Adesso c’è una lavorazione in digitale che è molto determinante nell’aspetto di post-produzione, il trattamento dell’immagine oggi è molto diverso, tutta un’altra cosa dal cinema come veniva fatto prima. Però il mondo va avanti, non è che possiamo star qui a fare i nostalgici: noi non lo facciamo come operazione di nostalgia ma come operazione di confronto, per misurarci con il cinema nelle modalità con cui veniva fatto prima.

MR: È un discorso ampio e denso, qualcosa su cui è importante continuare a riflettere. Di recente ne parlava anche Scorsese: il digitale non darebbe più certezza di durabilità della pellicola.

AS: È vero, non sappiamo un file quanto può resistere. I film escono, dopo qualche settimana o qualche mese non li vedi più, li recuperi forse in DVD, o sui canali tematici. Il consumo oggi viene fatto in maniera diversa, però vedere un film proiettato su uno schermo bello, grande, è tutta un’altra cosa. Ci sono anche grandi autori che hanno cominciato a lavorare sul digitale con una consapevolezza maggiore, una mentalità da formato in pellicola. Adesso questo non esiste più. Tanti recuperano materiali d’archivio, film di famiglia, da inserire nell’andamento della storia. Guardando i film del Meeting si nota un utilizzo di materiale di questo tipo. Però sono cose che avvengono sempre in un contesto digitale, di digitalizzazione e rielaborazione del materiale usato.

MR: Il punto è, forse, valorizzare la pellicola in un’ottica conservativa: gran parte del cinema, del resto, è in pellicola nel suo formato originale.

AS: Sì, ma è pieno di problemi anche quello. Le pellicole non si sa come le ritrovi dopo vent’anni, dove sono state. Ci vuole tanto spazio per conservarle, e adesso lo spazio non esiste. Se poi c’è quello virtuale dove puoi collocare i film... È tutta un’altra logica, un altro metodo di lavoro, sono due cose completamente diverse. Forse per le nuove generazioni abituate al digitale vedere un film sul telefonino è come vederlo al cinema, e non si pongono nemmeno il problema.

MR: La rassegna dedicata a Tarkovskij chiude il 25 marzo con l’evento di apertura del Bergamo Film Meeting 40: “Stalker” in proiezione “acusmatica”, di “spazializzazione del sonoro”, ad Agorà Daste. Di cosa si tratta?

AS: È un sistema di diffusione del sonoro con un apparato tecnologico che si serve di molte casse. L’effetto è che non capisci da dove si origina il suono, sei avvolto in una dimensione musicale e sonora senza sapere di preciso da dove arriva. Con un film come “Stalker”, che ti tira in una dimensione di sospensione e dislocamento temporale, è un’operazione che potrebbe davvero aumentare il coinvolgimento, rendere la visione ancor di più un’esperienza da vivere. Mi hanno detto che dà un risultato molto interessante, e sarà curioso capire come si comporterà con un sonoro su pellicola che non è così evoluto e complesso come quello che può dare il digitale.