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Tenet, un enigma che non ci va di risolvere

Recensione. L’attesissimo ultimo film di Christopher Nolan è un giocattolone per bambini cresciuti pieno di domande, enigmi e misteri, che rischia di stancare prima ancora di aver trovato la soluzione

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Fra i rompicapi più antichi della Storia ci sono alcuni schemi detti quadrati magici (o matrici quadrate): disposizioni di numeri in forma di tabella nelle quali la somma di ogni riga e colonna dà sempre lo stesso risultato. Il più celebre in assoluto di questi giochi è il cosiddetto “Quadrato del Sator”, un’antica iscrizione latina giunta a noi in innumerevoli esemplari, in cui ai numeri sono sostituite le lettere e ogni riga e colonna è costituita da parole che possono essere lette da sinistra verso destra e viceversa, mentre la parola al centro della tabella, TENET, è un perfetto palindromo. Leggendo le parole in ordine o al contrario anche la frase (di senso compiuto) risultante è in forma palindromica, rimane cioè identica se letta da sinistra a destra o dall’alto in basso e viceversa. Le parole in questione sono SATOR, AREPO, TENET, OPERA e ROTAS e sul significato della frase cui darebbero origine si discute da secoli.

La traduzione letterale, qualcosa di simile a “il seminatore Arepo tiene con cura le ruote” è piuttosto insignificante, ma va da sé che ogni parola inscritta nel quadrato ha tutta una sua semantica e può essere letta in moltissimi modi (Arepo per esempio, il termine più enigmatico, è talvolta tradotto come semplice nome proprio, altre volte come “carro” o “aratro” basandosi su contaminazioni celtiche del latino classico). Per farsi un’idea delle molteplici interpretazioni scaturite dalla lettura del quadrato, basta una semplice ricerca sul web. Ognuno può scegliere la preferita e trovare la più convincente, ma al di là di questo ciò che resta certo è l’assoluta inesplicabilità e il conseguente fascino cui l’enigma del Quadrato del Sator rimanda da millenni.

Ne sa qualcosa Christopher Nolan, regista britannico che di enigmi, trucchi, magie e rompicapi non solo s’intende, ma vi ha costruito un vero immaginario cinematografico. Da sempre convinto delle potenzialità medianiche e magiche della settima arte, Nolan ha giocato spesso con gli enigmi, ma ha anche dimostrato la capacità di costruirci intorno ragionamenti, universi di senso e brillanti ripensamenti di generi e forme di racconto. Soprattutto in film come “The Prestige”, “Inception” o “Interstellar”, dove l’inesplicabile e il magico coincidono sempre con il mistero del cinema. E in cui ha avuto l’intuizione di mettere in risalto il ruolo di medium di quest’ultimo: dispositivo in grado di trasformare il tempo e lo spazio, di mettere in comunicazione luoghi ed epoche lontanissime e di rendere visibile l’invisibile e credibile l’incredibile.

Con “Tenet” Nolan segue il solco dei film citati e per certi versi porta quel tipo di attrazione a estreme conseguenze. All’inizio del film uno dei personaggi che sta istruendo il protagonista intorno agli aspetti più complessi della sua missione esclama “non cercare di capire. Sentilo!”. Forse è già un indizio, il modo attraverso cui il regista ci chiede di non farci troppe domande, di non concentrarci troppo sugli aspetti formali e tecnici del film. Perché se proviamo a farlo, in effetti, ci perdiamo. La trama per la verità è piuttosto esile e semplice da comprendere, ma il sovvertimento delle regole dello spazio tempo, la sovrapposizione di presente, passato e futuro e la conseguente esistenza doppia di ogni elemento (umano, spaziale, temporale) creano un universo complicatissimo da discernere e una forma di attrazione volutamente votata all’accumulo e all’eccesso.

Tutto gira intorno a una parola, “Tenet” appunto, che è una sorta di passepartout per mettersi in contatto con persone a conoscenza di un disegno per la fine del mondo. Un armageddon possibile mediante un dispositivo del futuro di cui, non si sa come, è entrato in possesso un oligarca russo (Kenneth Branagh) diventato ricco dopo la dissoluzione dell’Urss. Un uomo (John David Washington, figlio di Denzel) è incaricato di scongiurare l’apocalisse, ma la sua missione gli è oscura e la comprende poco a poco. Lo aiutano un misterioso agente senza passato (Robert Pattinson) e la moglie triste e disillusa del suo nemico (Elizabeth Debicki), decisa a eliminare il marito violento e a fuggire insieme al figlioletto.

Tutto nel film rimanda al Quadrato del Sator. L’oligarca si chiama Andrei Sator, Arepo è il nome di un mercante d’arte che spaccia dei falsi di Goya, mentre Rotas è il caveau nel quale il protagonista e il suo collega si intrufolano per rubare proprio uno di questi falsi. Opera, infine, è il luogo dove il film inizia (il teatro dell’opera di Kiev) ma anche la parola con cui il protagonista aggancia Sator durante una cena. È evidente come Nolan utilizzi l’antico schema per costruire una vera e propria opera filmica in forma palindromica. L’idea di messinscena, così come la scrittura, converge nell’intenzione di rendere visibile con le immagini qualcosa che si può vedere solo con le parole. Per questo quasi ogni sequenza del film la vediamo almeno due volte: avanti e indietro, nella direzione “giusta” e al contrario e spesso persino nello stesso momento.

Gioca ancora una volta con il tempo il regista britannico. Ci dice della sua inesplicabilità, del suo inesorabile avanzare. E ci fa sentire ancora più piccoli nel momento in cui cerchiamo di dominarlo, di opporci a esso, di vincerlo. “L’ignoranza è la nostra salvezza” ripetono a più riprese i protagonisti. Forse hanno ragione, tentare di riassumere il senso di un film che per due ore e mezza affastella domande, rompicapi ed enigmi a non finire dentro un’affermazione così semplice tuttavia, pare davvero troppo poco.

Il quadrato magico, così come il cappello a cilindro di “The Prestige”, la libreria di “Interstellar” o la trottola di “Inception”, dovrebbe essere un oggetto magico, un luogo delle meraviglie o un dispositivo misterioso, dentro cui succedono cose inimmaginabili e si scatenano emozioni, azioni, pensieri che trascendono la realtà. La stessa sostanza del cinema, il cui mistero Nolan ha sempre cercato di raccontare lasciandone intatta l’essenza. Enigma però non è la stessa cosa di mistero e attrazione non sempre diventa sinonimo di cinema.

E il regista sembra smarrirsi proprio qui. Finito di costruire il suo magniloquente luna park a tema, catapultato lo spettatore fuori dalla casa degli orrori o dalle montagne russe, non resta molto. Lontano dalla linea action – di certo la più indicata per assecondare la forma palindromica del film, ma comunque meno entusiasmante di quella di un qualsiasi “Mission Impossible” o “007” recenti – non c’è spazio per nulla.

Non per gli approfondimenti psicologici dei personaggi, pedine di un gioco più grande di loro, non per la costruzione dell’immagine, quasi sempre fagocitata in un montaggio che trascura l’idea estetica rigorosa cui Nolan ci ha abituato – e in questo senso nemmeno la scelta di girare in pellicola, cui si affida di nuovo caparbiamente, riesce a risaltare. E nemmeno, infine, c’è spazio per la passione. I rapporti fra Andrei e la moglie o fra quest’ultima e il protagonista non sono semplicemente strumentali o resi aridi dalla crudezza degli eventi, ma pressoché inesistenti. L’utilizzo (con riletture tutt’altro che banali) del melodramma cui il regista è spesso ricorso nei film sopracitati, qui manca del tutto. Non è solo un peccato, ma un’assenza che si fa sentire e priva il film di un accento, una sostanza, un colore che avrebbero giovato.

Non perché non si possano fare film sentimentalmente aridi (anzi), ma perché quando tutto viene fatto coincidere con un elemento schematico, cervellotico e logico come quello che sta al centro del film, il rischio è che anche il racconto, estetico e formale, possa risultare altrettanto rigido. Nonostante i rimandi, le metafore e gli svolazzi interpretativi. E una volta finito di risolvere questo grande, espanso cubo di Rubik, non resti molto altro da vedere.

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