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#allamiaetà: Silvio Garattini, “fare il meglio possibile”

Diretta. Fondatore e presidente dell’Istituto farmacologico Mario Negri, è uno dei ricercatori italiani più autorevoli e conosciuti a livello internazionale. Lo abbiamo contattato per scambiare quattro chiacchiere sulla sua vita

Lettura 6 min.
Silvio Garattini all’Istituto Mario Negri (Armando Rotoletti)

Silvio Garattini non ha bisogno di grandi presentazioni. È sufficiente digitare il suo nome su un qualsiasi motore di ricerca per farsi una rapida idea di chi sia e cosa abbia fatto nel corso della sua vita. Basti dire che è uno dei più importanti farmacologi e ricercatori italiani e internazionali. Ci incontriamo a distanza (ossimoro quanto mai contemporaneo) una mattina di febbraio. Lui dal suo ufficio all’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri, di cui è stato fondatore e tutt’ora presidente – e dal quale lo si vede spesso, recentemente, in collegamento con questa o quella trasmissione TV nel tentativo di fare buona comunicazione scientifica – io dalla mia cucina.

Al di là del prestigio che circonda il suo nome, al di là delle più alte onorificenze conferitegli dallo stato italiano e da quello francese, c’è qualcosa di molto più ordinario a scatenare in me un particolare senso di fascinazione: la sua età, con l’idea di poter ascoltare qualcuno che abbia visto il mondo cambiare così a lungo. Una specie di testimone del secolo. Silvio era maggiorenne nell’anno di proclamazione della Repubblica. Quarantenne durante il Sessantotto. E ancora oggi è un punto di riferimento nel vortice dei tempi che viviamo.

È nato nel 1928, come Piero Angela. “A Bergamo, naturalmente” dice. “In via Broseta, casa Spaiani mi pare si chiamasse il posto dove sono nato. Ho avuto un’infanzia fino a un certo punto normale, nel senso che mio padre era un modesto impiegato bancario e mia mamma era una casalinga”. Il ricordo più vivido della sua infanzia è il ricordo di un dolore. “Verso i quattro anni ho avuto un intervento chirurgico per un’infezione polmonare. Ricordo con un po’ di terrore il dolore che sentivo quando mi facevano le medicazioni. Da quello che ho ricostruito, al tempo utilizzavano il nitrato d’argento come disinfettante, che insomma, era piuttosto doloroso sulla ferita viva”.

Ricorda anche quei due anni in cui suo fratello Giorgio, a causa di una malattia alla spina dorsale, è dovuto rimanere in un letto particolare che lo aiutasse a tenere separate le vertebre. “Questo mi ricorda anche il fatto che mio padre, per sostenere le spese inerenti alle visite, ha dovuto prendere un lavoro ulteriore. Lavorava tutte le sere per tenere l’amministrazione di una fonderia, anche il sabato. Io ho vissuto un periodo in cui non c’era il servizio sanitario nazionale. Allora sembrava impossibile che ci fosse un’organizzazione che provvedeva a tutto quello che era necessario per la salute. Chi aveva i soldi o poteva procurarseli si poteva curare, chi non li aveva peggio per lui. Quando nel 1978 è stato istituito il Servizio Sanitario Nazionale, mi ha fatto capire che non c’è niente di impossibile, che le cose possono cambiare anche se a un certo momento sembrano impossibili. Dipende da noi il cambiarle”. Pubblico, universalistico, assistenziale (non è una parolaccia), libero da logiche aziendali e da scopi di lucro, finanziato dalla fiscalità generale. Questo era il Servizio Sanitario nazionale nato dalla legge 833/1978, con la salute collettiva come faro direzionale.

Silvio racconta che sono state due le cose della sua infanzia che sono poi state molto importanti per la sua vita. “La prima, il rigore. Fare il meglio possibile”. A proposito racconta delle sere in cui scriveva i temi in cucina, “l’unico posto caldo della casa”, e suo padre che sapeva bene l’italiano lo leggeva e poi strappava il foglio dicendo con severità “puoi far meglio”, e finché il tema non andava bene non si andava a letto. Una severità che si accordava anche alla sensibilità, però: “Non bisogna dimenticare che allora la scuola era fascista, quindi ti indottrinava. Mio padre non era fascista, tutt’altro, e mi correggeva sempre, mi faceva capire che non bisognava credere a tutto. Durante la guerra mi faceva ascoltare radio Londra per farmi capire che c’erano modi diversi di vedere la stessa cosa, ed è stato molto importante per la mia formazione”.

Sua madre, invece, la ricorda come “una buona mamma”. “Ha avuto anche lei problemi di salute perché per salvare mio fratello più piccolo che si stava tirando addosso una pentola di acqua bollente, si è messa di mezzo lei e naturalmente ha avuto ustioni generalizzate da cui probabilmente poi è derivata una grave forma di reumatismo, di artrite deformante che l’ha costretta a non potersi muovere. Questo è stata un’altra delle visioni che ho avuto da giovane, mia mamma che soffriva anche lei i dolori”.

Il collegamento Skype ha momenti di incertezza, di tanto in tanto i pixel scompongono i nostri volti, le voci si frammentano, il suono si fa metallico. Silvio riflette su quanto sta dicendo. “Probabilmente sono queste situazioni che mi hanno spinto a fare l’università in campo medico. Poi dopo naturalmente sono stato più attirato dalla ricerca che dalla professione medica. Tant’è vero che mia mamma era un po’ delusa, diceva ma come, hai studiato sei anni e adesso non ti occupi degli ammalati? E io dicevo: mi occupo di molti più ammalati, se facciamo qualcosa di utile aiutiamo un po’ tutti. Insomma, mia mamma era rimasta un po’ delusa del fatto che non avessi fatto il medico, mentre mio padre mi ha sempre spinto a fare il meglio possibile”.

Silvio era alle elementari nell’anno in cui entrano in vigore le prime leggi razziali, il 1938. Ammette di non avere particolari ricordi di questo aspetto, ricorda invece “una maestra molto brava, che era la mamma del Pippo Pandolfi”, ovvero Filippo Maria Pandolfi, bergamasco classe 1927, democristiano, più volte ministro (delle finanze, del tesoro, dell’industria, dell’agricoltura) e commissario europeo. La famiglia poi si trasferisce in via Borgo Palazzo, lì comincia a frequentare l’oratorio, “che poi ha avuto grande influenza nella mia formazione”, il catechismo. Si unisce alla Gioventù Italiana dell’Azione Cattolica, organizzazione in cui ricoprirà poi ruoli a livello regionale e nazionale.

Le scuole superiori le fa all’Esperia, indirizzo chimico, l’Italia è in piena guerra e lui scopre che il laboratorio di analisi è il posto che gli è congeniale . “Ognuno di noi poteva andare in laboratorio e aveva il suo banco e ciò che serviva per fare analisi, e ho imparato a fare analisi. Cosa che allora non si faceva nemmeno all’università”. Impara all’Esperia a stare in laboratorio, una formazione fondamentale che gli torna molto utile giunto all’università, dove si laurea nel 1954. Si sposa quello stesso anno.

Durante gli anni Cinquanta lavora all’istituto di farmacologia dell’Università di Milano, viaggia molto negli Stati Uniti, a partire dai due mesi da costa a costa per visitare i principali centri di ricerca nell’ambito delle scienze della vita. “Sono rimasto sbalordito perché mi sono accorto che la ricerca lì era una professione. Da noi fare il ricercatore era soprattutto un modo per fare carriera, fondamentalmente, ma non c’era l’idea allora del ricercatore a tempo pieno. Poi mi aveva colpito molto l’idea della fondazione. Perché la fondazione ha la caratteristica di avere la possibilità di attività privata che non avendo scopo di lucro può avere grande interesse per il pubblico”.

I Cinquanta sono il decennio, in primis negli USA, della ricerca psicofarmacologica, dei primi studi sui farmaci psicotropi, della ricerca sulle applicazioni mediche e farmacologiche di molecole come l’LSD e la psilocibina. “Noi come istituto di farmacologia, nel 1957 abbiamo organizzato a Milano uno dei primissimi congressi internazionali sui farmaci psicotropi. Eravamo molto allineati con gli sviluppi della psicofarmacologia che coltivavamo anche nelle nostre ricerche. Poi le neuroscienze sono una delle aree importanti della nostra ricerca tutt’ora”. In quello stesso anno Garattini pubblica il saggio “Psychotropic Drugs” in collaborazione con un collega.

E allora divaghiamo. Parlando del cosiddetto “rinascimento psichedelico” – termine con cui ci si riferisce alle nuove frontiere aperte dalla ricerca sulle applicazioni mediche delle sostanze psichedeliche nella cura di depressione, alcolismo, malattie mentali – Garattini dice che “ci sono dati significativi” ma che “non ci sono in realtà risultati importanti. Le malattie mentali hanno poche novità dal punto di vista dei farmaci, c’è un gran mercato ma poca innovazione . C’è invece molta innovazione dal punto di vista delle conoscenze su come funziona il cervello. Ma per i farmaci ci sono poche cose nuove, solide. Ciò che serve sono farmaci efficaci, e siamo molto lontani. Ancora oggi c’è molta ripetitività, molto mercato ma poche novità”.

Racconta di aver incontrato il farmacologo premio Nobel Julius Axelrod, peraltro tra i primi ricercatori a occuparsi dello studio dell’LSD nell’ambito della ricerca sui farmaci psicoattivi e antidepressivi. E poi l’incontro con Rita Levi Montalcini. La collaborazione con l’esercito degli Stati Uniti nella ricerca sui contraccettivi per le donne arruolate: “Potevo andare a Francoforte, prendere l’areo dell’esercito americano e andare a Washington gratuitamente perché era parte del contratto di ricerca. E quando arrivavo, io che non avevo fatto il militare, c’erano i militari che mi facevano il saluto perché avevo un titolo fittizio eh, ma equivalente a colonnello.

Racconta poi il Giappone nel 1959, l’invito a una cerimonia del tè al palazzo imperiale di Tokyo: “Una principessa giapponese della famiglia imperiale si era laureata in biologia negli Stati Uniti. Io facevo parte di un simposio che facevano sulla chemioterapia antitumorale, e questa principessa ci ha invitati nei giardini imperiali per il tè. È stato memorabile perché nessuno poteva entrare lì”. Silvio Garattini era a Praga nel 1968 quando i carrarmati sovietici hanno occupato la città. Si trovava a Berlino nei primi giorni di novembre del 1989, durante la caduta del Muro. “Di cose strane me ne sono capitate” dice. La più straordinaria però sembra ancora quella che è stata meno frutto della casualità, la costituzione di uno dei centri di ricerca farmacologica più importanti in Italia e in Europa, l’istituto Mario Negri.

“Noi siamo nati con l’idea dell’indipendenza. Una fondazione rivolta all’interesse dei cittadini, degli ammalati. Per far questo doveva essere indipendente dalla politica, dalla finanza, dall’industria, dalle ideologie. Noi non prendiamo brevetti perché riteniamo che non siano utili per la salute, perché quello che facciamo vada a vantaggio di tutti. Se fossimo stati favorevoli all’industria farmaceutica non avremmo avuto i problemi economici che abbiamo avuto. Ci siamo sempre salvati, ma non è facile essere indipendenti e avere quello che serve per lavorare”.

Poco prima di salutarci parliamo del futuro. Silvio dice che alla sua età “ogni giorno è un regalo” e che bisogna avere “la mentalità per cui uno pensa che deve fare tutto quello che può per programmare il futuro ma anche l’equilibrio di capire che anche se non c’è non cambia niente. È una posizione mentale che credo sia giusto avere alla mia età”. Ha 94 anni oggi, alla morte non ci pensa: “Non ho tempo”.

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