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Cesare Maria Cornaggia, il desiderio è riempitivo di un senso

Intervista. Di fronte all’inquietudine, alla realtà che ci provoca, «dov’è la vita piena a cui aspiro?». Alla domanda che Papa Francesco ha rivolto ai fedeli lo scorso 6 gennaio, tenterà di rispondere la XIV edizione di «BergamoIncontra». La manifestazione, promossa dall’omonima associazione in collaborazione con l’Associazione Famiglie per l’Accoglienza, si terrà il 10 e l’11 giugno nello Spazio Polaresco di Bergamo. Tra i relatori, Cesare Maria Cornaggia, psichiatra e professore presso l’Università di Milano Bicocca

Lettura 5 min.
(Illustrazione di Jorm Sangsorn)

«Sii paziente verso tutto ciò che è irrisolto nel tuo cuore e… cerca di amare le domande». Così il poeta Rainer Maria Rilke invitava un giovane allievo a non cercare le risposte, ma a vivere le domande che ci abitano, ci muovono, ci spingono a cercare. Quelle che ci rendono umani.

Un invito ad entrare – senza paura – nell’inquietudine delle domande è stato anche quello che Papa Francesco ha rivolto ai fedeli la scorsa Epifania. «Dov’è per me la felicità? Dov’è la vita piena a cui aspiro? Dov’è quell’amore che non passa, che non tramonta, che non si spezza neanche dinanzi alle fragilità, ai fallimenti e ai tradimenti? Quali sono le opportunità nascoste dentro le mie crisi e le mie sofferenze?».

Non può che cominciare da qui, allora, la quattordicesima edizione di « BergamoIncontra ». La manifestazione, promossa dall’omonima associazione in collaborazione con l’Associazione Famiglie per l’Accoglienza, per due giorni porterà nello Spazio Polaresco di Bergamo incontri, mostre e concerti. L’inaugurazione della rassegna si terrà sabato 10 giugno alle ore 15.30 e vedrà intervenire, tra i primi relatori, Cesare Maria Cornaggia, psichiatra e professore del Dipartimento di medicina e chirurgia all’Università di Milano Bicocca, che si è avvicinato al suo mestiere proprio vivendo quelle domande insopprimibili di cui parlava il Papa.

«Forse, un pochino “storto” lo ero anch’io e forse lo sono ancora – ride, mentre lo raggiungo al telefono per una breve intervista – perché credo che certe sofferenze interne in qualche modo le devi aver vissute. Per spalancare sempre di più la domanda, per vivere la tua mancanza come domanda e non come qualcosa che devi angosciosamente coprire, ma come qualcosa che ti apra al mondo».

MM: Vorrei cominciare dalla parola che dà il titolo al libro che ha pubblicato nel 2022, «Dalla parte del desiderio». L’etimologia della parola «desiderio» è bellissima. «De-siderare», sentire la mancanza delle stelle. Il desiderio è mancanza?

CC: Quello tra desiderio e mancanza è un nesso molto semplice, ma nello stesso tempo estremamente chiaro e importante. Il desiderio nasce proprio da una mancanza, una mancanza ontologica di cui l’uomo è costituito, perché l’uomo nasce come mancante. La capacità di guardare dentro, di ascoltare, di non avere paura di questa mancanza, ci consente proprio di percepirla, di muoverci nella direzione di desiderare, di capire questa lontananza dalle stelle che ci porta a volerla ridurre attraverso il desiderio.

MM: Ma parliamo di desiderio o di desideri?

CC: Io sono certo di dire che parliamo di desiderio. Il desiderio è proprio ciò che parte radicalmente da quella mancanza, che è una mancanza rispetto alla domanda, perché domanda e mancanza quasi coincidono, dall’interno della profondità del nostro io. Questa mancanza ci fa percepire quell’idea, quel desiderio che noi abbiamo di bellezza, di pienezza e di totalità. È come se dentro alla finitudine del nostro essere percepissimo l’infinitudine di ciò che ci costituisce realmente fino in fondo. È vero che nel mondo nel quale ci troviamo oggi immersi riempiamo spesso la difficoltà di colmare questa mancanza, che io chiamo «desiderio», attraverso degli idoli. Noi ci poniamo una serie di oggetti che fittiziamente, illusoriamente, ci sembra che colmino qualcosa che io non chiamo più «desiderio», ma «bisogni» o «falsi desideri».

MM: Come ci si può allenare a riconoscere quello che non è bisogno, ma desiderio?

CC: Il bisogno è qualcosa che io, appunto, ho chiamato «idolatrico». La società è estremamente alleata a questo nostro falso desiderio, questo nostro bisogno: ci circondiamo di cose con cui ci sembra di andare a colmare la nostra mancanza. Non è vero, perché una volta raggiunto il bisogno, dobbiamo sempre raggiungerne altri, è qualcosa da cui non riusciamo a staccarci. Il desiderio invece è riempitivo di un senso, lo possiamo dilazionare, è un cammino verso cui andiamo. Del bisogno dobbiamo avere il risultato, la gratificazione. Il desiderio è qualcosa che possiamo lentamente costruire, lentamente raggiungere. Mi verrebbe da dire che, mentre il bisogno lo dobbiamo gratificare, il desiderio è qualcosa che è importante avere. Chissà se lo gratificheremo mai. Perché più profonda è la nostra mancanza, più profondo il nostro desiderio. Il nostro desiderio è tanto più profondo quanto più profondamente noi siamo consapevoli della nostra mancanza.

MM: Spesso questa consapevolezza, nella generazione più giovane, come la mia, non c’è. Siamo abituati a colmare le mancanze. Il vuoto, la mancanza fa paura e quindi cerchiamo di “riempirla”, più che possiamo.

CC: Assolutamente. Credo che in qualche modo questo abbia a che fare con la consapevolezza del limite. Il senso del nostro essere oggi è anche il senso di capire cos’è il confine, perché il confine ci dà la nostra identità.

MM: Però i confini, i limiti, non ci piacciono. Li si vorrebbe superare, in nome della libertà.

CC: Il limite fa paura, ma fa anche molta paura e forse ancor più paura il non avere limiti. Apparentemente sembrerebbe che sia il “non avere limite” l’espressione più totale della libertà. Invece è il limite che ci definisce, ci fa capire chi siamo e dove siamo. È il limite che ci costituisce profondamente. In questo momento lei e io stiamo parlando, siamo in un luogo e in un tempo che è ben delimitato e definito. Questo è una prigione? No, è qualcosa che ci consente di essere nel “qui e ora”. Quindi, in qualche modo, non solo ci definisce, ma ci aiuta a stare insieme, ci rassicura che siamo qui.

MM: C’è un’espressione che leggevo nella prefazione, scritta da don Julián Carrón, al suo libro «Dalla parte del desiderio», che dice «incontrare la persona dove la persona è». Cosa significa?

CC: Credo che il vero incontro tra due persone avvenga quando entriamo nel dialogo. Hölderlin diceva che l’uomo è un colloquio, perché noi ci definiamo attraverso il “tu” dell’altro, attraverso lo sguardo dell’altro, l’entrare in relazione con l’altro. Entrare in relazione con l’altro è in qualche modo entrare in un dialogo da cui uscirò diverso, perché entro in una relazione che mi “contagia”. Il contagio è poterci toccare, scambiare, identificare e non identificare in alcune cose. Entriamo in un dialogo e usciamo diversi da come siamo entrati, perché in qualche modo mettiamo in contatto le nostre parti più celate, più nascoste. Attraverso l’altro tocchiamo, se il dialogo è vero, quel pezzo di noi che magari non vogliamo vedere, che nascondiamo a noi stessi.

MM: È quella parte che lei ha definito spesso «sacrale»?

CC: È la parte più profonda e misconosciuta. Heidegger la definiva quella parte in cui si nasconde la verità di noi e che ci fa un po’ paura, che conosciamo poco e che abbiamo bisogno di svelare lentamente e lentamente accogliere. Perché prima di tutto abbiamo bisogno di accogliere noi prima ancora che l’altro.

MM: Mi sono fatta una domanda leggendo il titolo dell’edizione di quest’anno di «BergamoIncontra», che è «Dov’è la vita piena a cui aspiro?». Parlare di pienezza e di grandezza non apre il rischio di porsi troppo in alto, di porsi, come fecero Adamo ed Eva, al di sopra di chi per i credenti è realmente grande?

CC: Uno lo può intendere così. Io credo però che si scopra la pienezza della propria vita stando dentro alla realtà, entrando in contatto profondo con la realtà. E la realtà è altro da me: è quello che incontro, che mi è dato perché io possa far entrare la realtà dentro di me e conoscere me. La posizione non è mettere me al centro, ma è mettere l’alterità al centro. Il processo è esattamente quello opposto, che la realtà possa cambiarmi attraverso una posizione di umiltà rispetto alla verità di ciò che mi sta fuori, rispetto all’alterità.

MM: Cosa consiglierebbe ai giovani? A chi, come me, si ritrova spesso a temere il limite, a voler colmare a tutti i costi la mancanza.

CC: Credo proprio che, se io potessi dare un consiglio primariamente a me, sarebbe quello di cercare di spogliarmi dalla posizione idolatrica che ho definito prima. Consiglierei a me stesso di non far sì che la realtà diventi un po’ quello che voglio, ma di mettermi invece davanti alla realtà con un atteggiamento umile, che me la faccia incontrare per come è. Infine, consiglierei di rispondere a questa realtà, cercando non di diventare un “attore”, mettendo me stesso al centro, ma al limite una “risposta”. Infine, l’augurio resta quello di coltivare delle sane e buone relazioni con cui affrontare il mondo.

Tutte le informazioni sulla rassegna sono disponibili al sito «BergamoIncontra».

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