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La Resistenza di Padre Turoldo secondo Moni Ovadia

Intervista. Il primo incontro della sezione di «Molte Fedi sotto lo stesso cielo» dedicata a Turoldo in occasione del 30° anniversario della morte si svolgerà martedì 13 settembre presso l’Abbazia di Sant’Egidio in Fontanella a Sotto il Monte Giovanni XXIII. Moni Ovadia e il coro Canticum Novum presenteranno «Salmodia della speranza»

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Moni Ovadia

Giunta alla quindicesima edizione, la rassegna culturale «Molte fedi sotto lo stesso cielo» promossa dalle Acli di Bergamo ha quest’anno il tema «Esodi, strade che s’aprono improvvise». Obiettivo del festival, come vi abbiamo già anticipato in questo articolo) è incoraggiare occasioni di riflessione su temi caldi del nostro tempo: dai cambiamenti climatici alla geopolitica, dal pluralismo religioso alle disuguaglianze economiche, senza dimenticare la bellezza dell’arte, della musica e del teatro. Nella splendida abbazia di Sant’Egidio in Fontanella, Moni Ovadia con il coro Canticum Novum apriranno gli eventi della sezione «Il canto di Turoldo».

«Siamo la giovinezza del mondo. Prepariamo dei domani che cantano»
(«Salmodia della speranza», Padre David Maria Turoldo)

La produzione letteraria di David Maria Turoldo è estremamente estesa, divisa su tre principali generi letterari: poesia, saggistica e drammaturgia. Il valore di ogni essere umano, la libertà storica e la dignità sociale, gli insegnamenti all’empatia umana alla società e alla Chiesa, sono stati gli elementi fondanti e trasversali nelle opere e nel pensiero del sacerdote. La sua intera esistenza fu dedicata a ri-umanizzare il cristianesimo, attraverso un modello di giustizia in grado di restituire una società solidale e aperta, soprattutto verso i discriminati e le minoranze. Nella passione dello studioso per i Salmi e nell’impegno costante a renderli fruibili, Turoldo esprimeva sia la devozione per il testo biblico sia la naturale inclinazione alla poesia. Figura provocatoria per la comunità ecclesiastica, il frate friulano dell’ordine dei Servi di Maria scomparso nel 1992 fu un’intellettuale antagonista e fondò il centro culturale Corsia dei Servi, vicino alla Teologia della Liberazione.

La prima messinscena teatrale della «Salmodia della speranza» si svolse a Sesto san Giovanni il 22 aprile 1965, in occasione delle celebrazioni unitarie per il ventennale della Liberazione. Trascorsero altri quarant’anni per arrivare al 2005 al Duomo di Milano, quando l’opera venne ripresentata sulla scena con l’interpretazione di Moni Ovadia e Maddalena Crippa. E di nuovo, vent’anni dopo, lo stesso Moni Ovadia, attore e ricercatore di origini ebraico-sefardite, accompagnato dal coro bergamasco Canticum Novum, poterà a «Molte Fedi sotto lo stesso cielo» il reading nell’abbazia di Fontanella, che fu casa di Padre Turoldo per molti anni.

CD: Questo testo parla di Resistenza. L’opera ha debuttato nel 1964, lei l’ha portata in scena la prima volta vent’anni fa e oggi di nuovo. Come resta attuale, in periodi storici tanto diversi, ma forse con degli aspetti tristemente comuni?

MO: Turoldo è stato un partigiano antifascista, un grandissimo sacerdote cattolico e un grande poeta. Il testo ha una caratteristica predominante: l’intuizione di Turoldo rispetto alla Resistenza fu quella di non considerare la Seconda Guerra Mondiale solo come un evento storico, sociale e politico, ma anche come un evento spirituale. Da quegli avvenimenti sono nati libri che noi dovremmo considerare Sacri, così come li considerava lui stesso. Si pensi che sul suo comodino il poeta conservava come livre de chevet i due libri di lettere dei condannati a morte della Resistenza italiana ed europea.

CD: In effetti, il sacro non ha un tempo in cui si manifesta e la qualità sacrale e spirituale tipica delle opere turoldiane si rivela spesso nel genere «salmico». È la Resistenza il sacro, in questo caso?

MO: La Resistenza siglò un nuovo patto, un nuovo annuncio che ci parla di una società di persone libere ed eguali. Eguali sono tutti gli esseri umani della terra, senza alcuna distinzione etnica ed economica. Questo è il senso più importante nel pensiero della «Salmodia della speranza». Le parole dei condannati a morte dal regime erano parole di valore sacrale. E aggiungo, restando sulla linea del pensiero turoldiano – che è stato una grande lezione anche per me, ebreo e agnostico – che di fatto la carta costituzionale italiana nella sua prima parte è anch’essa Sacra. Questo è l’immenso contributo che il pensiero di David Maria Turoldo dà al rapporto tra il Cristianesimo e la Resistenza antifascista. Come fu in seguito il mio caro amico Don Andrea Gallo, Turoldo fu un outsider della Chiesa, per la sua fondamentale ribellione.

CD: Per questo fu amato in modo trasversale e orizzontale alle religioni e le sue omelie raccoglievano folle di persone anche atee.

MO: In quanto ebreo, gli riconosco una grandissima capacità di ergersi con maestà attorno al tema dello sterminio ebraico. In questo momento storico in cui ancora dobbiamo vivere in questa ambiguità, vorrei che fosse chiaro – in special modo ai politici di riferimento – che non c’è proprio niente da riabilitare nel fascismo. Zero. È stato un crimine. Io sono un uomo indiscutibilmente di sinistra, ma credo debba esistere una dialettica nella democrazia, e vorrei averne anche con persone che la pensano in modo profondamente diverso da me. Il fascismo è stato l’esatto antagonista della democrazia ed è inutile la contrapposizione con la sinistra, poiché è stata quest’ultima a riportare in Italia la democrazia e la liberazione dal regime, con il sangue dei partigiani.

CD: Dove si direziona, dunque, la speranza di Padre David Maria Turoldo?

MO: La speranza è che l’umanità si apra a un nuovo mondo fondato sull’uguaglianza. Questo è il concetto di speranza che emerge dal pensiero turoldiano. Dove uguaglianza significa pari dignità, pari diritti anche davanti alla legge e pari accesso all’orizzonte della conoscenza più alta. Purtroppo siamo ancora molto lontani dall’arrivarci. Nella triade francese «liberté, égalité, fraternité», a mio parere, l’uguaglianza sarebbe dovuta stare al primo posto. E non si parla di omologazione, ma di pari dignità delle differenze.

CD: I suoi spettacoli si caratterizzano sempre per una presenza musicale – spesso cantata – determinante: che ruolo ha la musica nell’espressione delle tematiche sociali?

MO: Il canto è la prima istanza, la prima manifestazione della presenza in vita di ogni essere umano uscito dal ventre materno: la prima cosa che si fa, è cantare. Certo si tratta di un canto piuttosto ineducato, Ça va sans dire, ma si farà. La voce è lo strumento dell’interiorità, dell’universalità dell’integralità umana, per questo ne faccio uso. Se no, non si capirebbe perché una canzone napoletana può commuovere un calmucco, come un aborigeno australiano. Lo stesso accade con il blues o con i meravigliosi canti delle contadine bulgare. Le espressioni più vibranti dell’aspirazione alla libertà, al diritto e all’uguaglianza sono state trasmesse con canzoni memorabili. Io che ho dedicato tutta la mia vita agli ultimi, agli oppressi, ai diseredati, ai perseguitati, nei canti ho trovato la miglior forma di espressione.

CD: Un altro suo segno distintivo è l’umorismo serio, che è tutt’altro che un paradosso, bensì una risposta alla piaga della comicità stupida dei tempi moderni. Cosa significa, per lei, far ridere?

MO: Il mio culto dell’umorismo viene dalla cultura ebraica del centro-est Europa, cioè l’umorismo della cultura yiddish. Un modo di ironizzare che nasce dall’abisso, come risposta alla persecuzione. È auto-delatorio: si ride di sé, ma dicendo al carnefice: «Sappi che io, i miei difetti, li conosco meglio di te!». L’umorismo yiddish glorifica la fragilità umana, attraverso una critica della ragion paradossale. Mi piace raccontarne sempre una come paradigma dell’esempio: un giovane ufficiale nazista, durante la ricognizione per il rastrellamento, imbocca un vicolo a piedi e incontra un piccoletto ebreo sudicio, dal grande naso. «Porco!» esclama l’ufficiale guadandolo, l’ebreo si inchina sussiegosamente e rialzandosi risponde: «Molto piacere, io sono Rabinovich».

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