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Lama Michel Rinpoche: “se abbiamo sete e beviamo ci dissetiamo, ma cosa succederebbe se continuassimo a bere ininterrottamente?”

Intervista. Il giovane monaco tibetano che tiene lezioni in giro per l’Italia e il mondo sarà protagonista a partire dal 12 novembre di quattro incontri (12-19-26 novembre e 3 dicembre, ore 17) per far conoscere i principi fondamentali del Buddismo dall’Healing Center Meditation di Albagnano (VB). Sarà possibile seguirlo in streaming tramite il sito ufficiale, la pagina Facebook e il canale Youtube di Molte Fedi sotto lo stesso Cielo

Lettura 6 min.
(foto Dilok Klaisataporn)

Nato nel 1981 in Brasile, il Lama Michel Rinpoche promana una saggezza millenaria che esibisce attraverso un sorriso benevolo, un tono educato, paziente e al tempo stesso autorevole, che sembra racchiudere il grande segreto della conoscenza: non importa quanto essa sia grande o quanto possa sembrare ostica ad una prima lettura, ciò che conta è saperla mettere a disposizione degli altri.

L’incontro con il Buddismo avviene quando Michel è poco più che un bambino. I suoi genitori di confessione ebraica e presbiteriana si offrono di ospitare Lama Gangchen giunto in visita in Brasile. Questo incontro sarà talmente proficuo che spingerà la famiglia ad aprire uno dei primi centri buddisti del Paese, portando Michel a intraprendere gli studi della dottrina, fino alla scelta di seguire a soli 24 anni il suo maestro a Milano, città in cui il Lama Gangchen ha operato prima di perdere la vita a seguito delle complicanze del Covid nello scorso aprile. Oggi Michel Rinpoche vive all’Healing Center Meditation di Albagnano, lo abbiamo intervistato.

CP: “Diremo io o noi?” è il titolo scelto per quest’anno da “Molte fedi sotto lo stesso cielo”. Il Buddismo è la religione dell’io o del noi? Negli scritti antichi il Buddha non si rivolgeva mai alla folla o al popolo e parlava sempre ai singoli. Qual è la chiave di lettura che bisogna per riattualizzare la dottrina buddista?

MR: Uno dei valori fondanti su cui poggia il Buddismo è l’auto-responsabilità. Nella filosofia buddista si parla molto spesso dell’importanza del bene comune, dell’essere al servizio della società, della comunità, un senso di responsabilità nei confronti di sé stessi e degli altri. C’è un verso del Budda in merito che tradotto dal tibetano dice “Io sono il mio proprio protettore, io sono il mio proprio nemico”. Non è quindi una religione rivolta all’individuo inteso come un’entità distaccata dalla comunità ma come responsabile delle sue azioni, della sua vita e parte integrante della società.

CP: Il Buddismo non è una religione unica, ma vi sono molte correnti. In che cosa si sono differenziate nel tempo?

MR: Si racconta che quando Buddha morì i suoi discepoli provenienti da diverse parti del mondo si riunirono e si accorsero che il Buddha aveva insegnato e spiegato in modi diversi la dottrina, tanto che questi sembravano essere in contraddizione tra di loro. Queste diverse tradizioni corrispondono ai diversi modi di seguire il percorso che Buddha ha trasmesso adattandolo a mentalità diverse. Essi sono solo apparentemente contraddittori, se messi uno di fronte all’altro. Ma se si guarda da lontano, utilizzando un approccio per così dire di insieme, si può facilmente notare che tutte queste correnti, tenendo conto delle differenze di cui dicevamo, portano al medesimo risultato. Il Buddismo è un paradigma, una visione di mondo, una filosofia di vita che si adatta molto facilmente ai contesti culturali.

CP: Molte fedi sotto lo stesso cielo è il titolo programmatico della rassegna di Acli Bergamo. Viene allora spontaneo chiederle come il Buddismo si rapporta alle altre religioni.

MR: Mi piace far riferimento ad un verso di uno dei più importanti testi della tradizione del Buddismo tibetano che recita: “Rispettate profondamente tutte le tradizioni spirituali e seguite con determinazione quella che preferite”. Ciò che si può dedurre è che noi non dobbiamo essere contrari a nessuna tradizione o religione, io non sono qui per dire che c’è una religione migliore o superiore all’altra. Ciò che accade è che noi esseri umani cresciamo in contesti umani e sociali diversi su tanti aspetti, quindi ben vengano approcci diversi. Il Buddismo è differente dalle altre religioni perché non è una religione teista o politeista o monoteista. Né tantomeno vuole affermare che la soluzione dei mali nel mondo sia che tutti siano buddisti. Io credo che delle soluzioni possano essere l’amore, la saggezza, l’umiltà, uscire dall’ottica dell’io e del mio e la religione non è lo strumento ma il fine.

CP: Qual è il contributo che può dare la religione buddista – fondata sulla meditazione, che induce alla calma, alla riflessività, al pieno e cosciente controllo di sé – all’Occidente frenetico e tecnologico di oggi?

MR: Uno dei punti focali su cui si concentra il Buddismo oltre alla meditazione, è la presenza nel momento presente. Una condizione che diventa sempre più difficile da raggiungere per via di questi continui ed enormi stimoli sensoriali ai quali siamo sottoposti in ogni momento a prescindere dalla religione. Il Buddismo ci aiuta a capire che quello che viviamo all’esterno, dipende da ciò che è dentro di noi. Ogni cosa che noi vediamo e sentiamo lascia un’impronta, ci influenza e noi gradualmente andiamo a vivere il mondo tramite questa prospettiva. Il Buddismo ci permette di prendere coscienza di questo meccanismo e di cambiare il nostro paradigma e la nostra visione di mondo.

CP: Il Buddismo è una religione che guarda al dolore come ad una condizione inevitabile della vita umana, dettata dal fatto che l’uomo per natura insegue passioni evanescenti, mutevoli. In questa prospettiva, qual è la chiave per arrivare ad una comprensione di questo “dolore”?

MR: Quando si parla di dolore nel Buddismo, si fa riferimento al concetto di dugngah che comprende tre tipologie di sofferenza. La prima è la “sofferenza della sofferenza” che si riferisce a tutte le sensazioni fisiche e mentali di malessere: dal caldo al freddo, dolore, fame, tristezza, rancore, ansia. Tutti gli stati interiori nei quali si avverte un disagio interno e che può corrispondere al mondo in cui si intende la sofferenza nel senso comune. Nel Buddismo si riconosce poi la “sofferenza che cambia” o del cambiamento, che include le cose e le esperienze alle quali diamo una connotazione di benessere ma che se persistono nel tempo, si trasformano in sofferenza. Banalmente, se abbiamo sete e beviamo ci dissetiamo, ma cosa succederebbe se continuassimo a bere ininterrottamente? Il terzo tipo di sofferenza è quella “che tutto permea” e che può essere intesa come “nessuna via di scampo”. Dal momento in cui io percepisco la realtà tramite il filtro di me stesso, finché sono assalito dalla rabbia, dall’arroganza, dalla presunzione, dall’attaccamento, da scatti interiori conflittosi, io vivrò il mondo tramite il filtro di questo e non importa cosa io stia facendo dove o con chi sia. Ciò non significa che le persone soffrono continuamente, altrimenti la vita diverrebbe insostenibile.

CP: Quali sono i principi fondamentali da cui partire per comprendere la religione buddista e in che modo deve essere inteso il concetto di karma, una parola ormai spesso abusata nel linguaggio comune?

MR: La filosofia e la visione del mondo buddista sono molto ampie. Se vogliamo però trovare dei principi di base, possiamo riassumerli partendo dal primo che, solitamente, viene tradotto come “rinuncia”. Anche se si tratta di una terminologia impropria. Sarebbe più corretto definirla come “certezza di poter emergere” intesa come amore per se stessi. È questo il punto chiave, la certezza di poter star bene e di uscire dal proprio ciclo di dolore. Vi sono poi altri due concetti fondamentali. Il primo è il concetto di continuità tra la vita e la morte, per cui quando si muore non si finisce ma la morte è solo un passaggio per poi continuare a vivere altre vite in corpi fisici o in altri piani esistenziali, molto simili alla visione cristiana di paradiso e inferno. L’ultimo concetto è quello tanto noto, quanto abusato di karma. Molto spesso lo si intende come un destino, col quale però non ha niente a che fare.

CP: Quindi qual è il significato?

MR: La parola karma significa “azione”. Tutto ciò che faccio, che dico, che penso, che provo interagisce creando un’azione dalla quale si genera una forza karmika che può essere paragonata al lancio di un sasso: l’azione finisce nel momento in cui lancio, ma il risultato si verifica dopo, perché c’è un’inerzia dell’azione che si interrompe quando il sasso si scontra con qualcos’altro. Allo stesso modo le azioni che compiamo creano un’inerzia, una forza che si accumula negli anni e nei secoli, considerando che portiamo anche l’inerzia delle vite passate. Ciò si comprende facilmente se ci volgiamo indietro e ci rendiamo conto che siamo il risultato di esperienze che abbiamo fatto quando eravamo bambini. Siamo influenzati a livello emozionale e sociale dall’inerzia delle scelte fatte nel passato che si protraggono nel futuro. Infatti, quando la persona nasce, ha già un bagaglio karmico che porta con sé le vite precedenti.

CP: Infine, alla luce degli eventi storici recenti, come guarda al futuro?

MR: Secondo me, la storia si ripete e noi esseri umani non siamo così creativi. Perciò quello che succede è che alla fine cerchiamo spesso di trovare la nostra felicità in cose che non riescono a sostenerla, ignoriamo gli altri e ci preoccupiamo di noi e ciò a medio e lungo termine non funziona, perché noi in quanto esseri umani siamo una comunità. Non posso immaginare di star bene se l’altro vicino a me non sta bene, al minimo. Abbiamo raggiunto un grande sviluppo materiale e tecnologico, abbiamo trovato strumenti molto validi per evitare la sofferenza fisica ma tutta questa soddisfazione materiale non ci ha condotto ad uno stato di soddisfazione e di benessere, di pace, perché è aumentata la sofferenza interiore, mentale. Basti pensare al crescente aumento di persone che assumono psicofarmaci. Una delle lezioni da imparare in questi anni recenti è che dobbiamo essere più in contatto con la natura rispettando i suoi cicli e poi dobbiamo imparare ad avere rispetto per l’altro. In ultimo posso viere in un paradiso ma se mentalmente sto male lo vivo come se fosse l’inferno. Dobbiamo quindi imparare ad avere cura del nostro stato mentale ed emozionale perché è evidente che preoccuparsi solo di star bene economicamente non ci porta da nessuna parte.

Sito Molte fedi sotto lo stesso cielo

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