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Nello Scavo, «abbiamo bisogno di un giornalismo che connetta i fatti»

Intervista. A quasi un anno dallo scoppio della guerra in Ucraina, il giornalista di Avvenire e autore del libro «Kiev» inaugurerà il nuovo ciclo di eventi proposti da «Molte Fedi sotto lo stesso cielo» lunedì 30 gennaio alle 18.30 nell’Auditorium di Piazza Libertà. Un’occasione per fare il punto sulla dimensione umana di un conflitto a cui ci stiamo cominciando ad abituare

Lettura 6 min.
Un dettaglio dalla copertina del libro «Kiev»

Avrei dovuto incontrare Nello Scavo a Bergamo a novembre, ma quando sei un corrispondente di guerra è così: da un momento all’altro fai le valigie e parti. Inviato speciale di Avvenire, cronista giudiziario, negli anni Scavo ha firmato servizi e inchieste da zone di crisi come l’ex Jugoslavia, i paesi dell’ex URSS, il Corno d’Africa, il Maghreb, l’America Latina. Lo raggiungo al telefono a poche settimane dal rientro dell’ennesimo viaggio in Ucraina, paese dove il 24 febbraio 2022 ha visto la guerra scoppiare e a cui ha dedicato il suo ultimo libro, «Kiev» .

«Sono tornato a casa a dicembre, dopo aver lasciato una situazione difficilissima dal punto di vista umanitario – mi racconta – Erano già cominciati i bombardamenti sulle infrastrutture strategiche, in particolare sulle centrali elettriche e sui sistemi di controllo idrico. Questo ha voluto dire restare al buio, al freddo e senza acqua per molti giorni. Quello che abbiamo visto, soprattutto, è stato il flusso di profughi ricominciare. Un flusso fatto da una parte di chi aveva resistito fino a quel momento, dall’altra da chi era già stato profugo, era rientrato dopo l’estate e si è trovato a dover lasciare nuovamente la propria terra. Per la seconda volta, i bambini hanno dovuto lasciare i papà. Delle ricadute psicologiche di una guerra si parla poco. Gli psicologi ci dicono che i bambini ucraini, quando fanno disegni per raccontare le loro emozioni, usano colori sempre più scuri».

MM: Dall’inizio del conflitto è passato quasi un anno. Le notizie sulla guerra oggi passano in seconda, se non in terza pagina. Come si tiene alta l’attenzione su quello che non è più una notizia “di serie A”?

NS: Guarda, questa è stata la ragione principale per cui ho voluto scrivere il libro «Kiev». L’ho proposto a Garzanti tra il secondo e il terzo giorno di guerra… l’ho scritto subito, a tamburo battente. Non volevo che fosse un instant book, nel senso classico del termine, ma un libro impregnato di quelle emozioni che si dilatano quando si è nel bel mezzo di una guerra. Sapevo già che il tempo dedicato al racconto del conflitto, 24 ore su 24, prima o poi avrebbe provocato assuefazione. Per non parlare della divisione nell’opinione pubblica: a differenza degli altri paesi, in Italia, noi non abbiamo una vera cultura della politica estera. Ci siamo fatti piacere Putin, gli abbiamo stretto la mano, abbiamo ironizzato sulle sue donne, sulle amanti. Ho scritto il libro un po’ per questa ragione, e un po’ per me stesso, per mettere un punto su un mestiere che spesso è circondato da un’aurea di eroismo. Ho provato a raccontare le paure, gli errori che ho commesso, talvolta usando anche un po’ di ironia.

MM: C’è un passaggio molto bello nel tuo libro in cui scrivi che da quando sei diventato padre hai aggiornato la tua sequenza di priorità: «salvarsi la pelle per poter sì trasmettere il pezzo, ma anche per tornare a casa intero».

NS: Questa guerra ha fatto emergere da una parte la necessità del giornalismo di testimonianza, dell’esserci dove le cose accadono. Allo stesso tempo però, il problema di una guerra così vicina, facilmente raggiungibile con poche ore di aereo, è che diventi una specie di “Disneyland” per giornalisti in cerca di emozioni forti. Il rischio, per un corrispondente, è quello di sottovalutare i pericoli, oppure di fare pornografia del conflitto. Questo capita quando si seguono i conflitti in tempo reale, magari con una diretta social, e il pubblico da casa ti segue e ti finanzia perché vuole vedere di più… Questo è un aspetto molto preoccupante che riguarda l’informazione, e per cui credo ci sia stata anche assuefazione.

MM: Ecco, venendo proprio all’informazione. Qual è il rischio di un’informazione che racconta quasi esclusivamente “un lato della barricata”, quello colpito dall’aggressione russa?

NS: Questo è un problema gigantesco. Negli ultimi anni, abbiamo assistito a guerre che avvenivano all’interno dello stesso paese, come in Siria, Libia, Somalia. Sono conflitti che in gran parte si svolgono tra fazioni, hanno una valenza quasi di guerra civile, di guerriglia. Con l’Ucraina, invece, assistiamo a una guerra per certi versi classica, dove c’è un paese che attacca un altro paese, ci sono dei confini ben definiti. Quando questo capita, solitamente, i governi mandano giornalisti da una parte e giornalisti dall’altra. In questo caso è quasi impossibile, sono pochissimi i giornalisti ammessi sul lato russo, per altro con delle differenze: mentre in Ucraina non abbiamo quasi limitazioni di movimento, in Russia veniamo seguiti giorno e notte. Sarebbe da sciocchi dire che siamo in grado di fornire un’informazione completa al 100%, nessuna guerra te lo permette. La mia, quindi, è un’informazione determinata esclusivamente da ciò che riesco a vedere, sentire, nel momento in cui scrivo e nei posti in cui mi trovo. Poi, cerco di mettere insieme i pezzi servendomi di una rete di informatori e di colleghi affidabili.

MM: Raccontare un conflitto in presa diretta, raccontare l’istante, vuol dire essere disposti a cambiare il proprio punto di vista. Man mano che raccontavi Kiev, la tua percezione del conflitto si modificava?

NS: All’inizio ho commesso un errore di valutazione enorme: quello di pensare che Kiev sarebbe caduta nel giro di pochi giorni. Per la verità, la guerra è cambiata ulteriormente anche nelle sue ragioni di fondo: nelle prime settimane la cittadinanza ucraina ci diceva: «Il nostro nemico è Vladimir Putin, non il popolo russo». Ora, temo che si stia arrivando al punto di non ritorno anche nelle relazioni culturali tra i due paesi. La tensione è altissima, si sta arrivando al punto in cui questi due popoli non si parleranno più. Poi, capisci che quando intervengono crimini di guerra così estesi, così brutali, come gli abusi sessuali registrati dall’Onu, la geopolitica conta fino a un certo punto.

MM: È anche vero che la questione è molto delicata. C’è chi vede nel conflitto Russia-Ucraina un conflitto tra ideali, tra dittatura e democrazia. C’è chi vede in Zelensky un martire della democrazia e chi lo critica. E se lo critichi, vieni bollato automaticamente come filoputiniano.

NS: Questo dibattito è presente più in Italia che in altri paesi. Probabilmente questa deriva calcistica, che ci porta a vedere un derby in ogni cosa, ci costringe a stare da una parte o dall’altra, senza sfumature. Io sono uno di quelli che dice e scrive che l’Ucraina è una democrazia giovane, fragile, ricca di contraddizioni, per altro tipiche di tutti i sistemi post sovietici. Nel libro parlo anche della corruzione. Questo però non porterà mai, almeno dal mio punto di vista, a sostenere che tanto valga dare semaforo verde a Vladimir Putin.

MM: Altro dibattito spinoso è quello relativo agli armamenti, agli interessi dell’occidente dietro all’aiuto militare all’Ucraina.

NS: Personalmente, penso che il comparto della produzione di armi da guerra sia uno dei grandi mali del nostro tempo. Dico però che è mancata e sta mancando una risposta diplomatica all’altezza di una crisi come questa, soprattutto nella misura in cui sappiamo che Vladimir Putin non ha nessuna intenzione di negoziare al di fuori delle condizioni che lui pone. Da giornalista, devo raccontare però anche le cose che ho visto: nella città di Kherson il 20 marzo dell’anno scorso la popolazione è andata incontro agli occupanti russi con dei fiori e con dei cartelli dicendo: «Kherson è Ucraina». Di fronte a questo gesto, la risposta che i comandi hanno dato è stata sparare con i kalashnikov ad altezza d’uomo. Quando davanti a un gesto di questo tipo, tipicamente pacifista, la risposta è quella delle armi, è molto difficile dire alla popolazione di Kherson di continuare a resistere senza armi. L’alternativa per resistere senza farsi uccidere è andare via dalle proprie case e lasciare il paese all’invasore.

MM: È l’immagine tipica: «mettete dei fiori nei vostri cannoni».

NS: Durante la guerra nei Balcani, un grande pacifista italiano, Alexander Langer, a un certo punto disse: «Forse serve davvero una forza militare di interposizione, che usi – se serve – anche la violenza, per fermare la violenza di chi in questo momento sta commettendo dei crimini». In quel caso, fu possibile con l’ONU, che riuscì a mandare i Caschi Blu. Nel caso dell’Ucraina non è possibile, perché l’ONU per mandare i Caschi Blu ha bisogno del mandato del Consiglio di Sicurezza. La Cina e la Russia siedono nel Consiglio di Sicurezza con diritto di veto e quindi impediscono qualsiasi manovra di questo genere. Una controffensiva diplomatica è necessaria. Penso però che la risposta delle armi sia inevitabile, entro certi limiti, per proteggere le persone civili.

MM: E le sanzioni? Quali sono i possibili scenari futuri?

NS: Non sono mai stato un fan delle sanzioni. Non hanno mai funzionato in Venezuela, Iran, Corea del Nord. È anche vero, però, che Putin tutti i giorni dice: «Le sanzioni ci stanno facendo il solletico, stanno danneggiando voi che ci state sanzionando», e allo stesso tempo ne chiede la rimozione. È un controsenso. Evidentemente qualcosa sta accadendo. Recentemente, l’ISPI ha pubblicato un grafico che analizza l’esportazione dei gas idrocarburi russi nell’ultimo anno, e c’è stato letteralmente un tracollo. Se la Russia non troverà mercati alternativi, diventerà una gara tra occidente e Russia a chi resiste di più dal punto di vista economico.

MM: Mi piacerebbe concludere citando una frase del tuo libro: «non ho mai smesso un solo giorno di fare il giornalista. Anzi, di essere giornalista». Come si fa ad essere giornalista se, come me, non racconti storie da un campo di battaglia?

NS: Innanzitutto avendo un fortissimo senso del limite. Noi non dobbiamo cambiare la storia. Possiamo partecipare, ognuno con la propria parte di responsabilità o di competenza, per poter “aumentare un po’ il voltaggio dell’illuminazione” lì dove le cose accadono. Questo vale per il consiglio comunale in provincia – io ho cominciato così – come per la conferenza di uno scrittore che arriva in un paesino. Perché attraverso questi momenti puoi raccontare anche la filigrana di una comunità, dare voce a chi voce non ne ha. La nostra è una professione di servizio, la democrazia si regge sulla qualità delle informazioni di cui la comunità dispone per poter prendere delle decisioni. A questa qualità si sostituisce oggi, purtroppo, la quantità: veniamo letteralmente bombardati da miliardi di informazioni. E si perde la capacità di mettere in connessione i fatti. Abbiamo bisogno di approfondimento, di un giornalismo che metta in connessione i fatti che spesso sono davanti ai nostri occhi ma che non riusciamo spesso a collegare… un po’ come i puntini nella «Settimana Enigmistica».

L’ingresso all’incontro di lunedì 30 gennaio è gratuito, prenotazioni a questo link.

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