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Valentina Boschetto: «tornare alla terra e avere successo significa usare il cervello come organo di filtraggio della realtà»

Articolo. L’incontro «Un futuro lontano dalla città: turismo o per sempre?» al festival Le Primavere di Como dello scorso 27 aprile verrà trasmesso domenica 5 giugno alle 15 su Bergamo TV. Protagonista la saggista ed esperta di megatrend

Lettura 8 min.
Valentina Boschetto Doorly durante l’incontro a Le Primavere (Butti)

Valentina Boschetto Doorly mi dà appuntamento su Google Meet. È una donna elegante e non ti aspetteresti mai che sia così franca nelle risposte. «La terra chiama. Il nostro futuro lontano dalle città» (Il Saggiatore, 2021) è il racconto di una visione del mondo: la sua e quella di tante persone che hanno deciso di abbandonare i contesti urbani per costruirsi una nuova vita all’insegna dell’agricoltura, dell’allevamento, del turismo sostenibile. Perché forse il futuro sta da quelle parti.

LB: Lei per anni si è occupata di turismo ad alto livello, poi ha deciso di spostare la sua attenzione sui megatrend, da cui questo libro. Qual è stato lo spunto iniziale?

VB: Lo spirito è semplicemente questo: tutte le industrie si sviluppano in un ecosistema che è influenzato e disegna dalle grandi evoluzioni economiche e sociali, di solito di larghissima portata. All’interno di questo spazio perimetrato dai grandi megatrend noi scegliamo di costruire qualcosa e incontriamo limiti e opportunità. Dalla mia esperienza manageriale di alcuni decenni ho capito come il funzionamento di un’azienda nasca dalla comprensione dell’ecosistema in cui ci si muove, altrimenti il rischio è quello di lavorare alla cieca. L’analisi dei grandi cambiamenti ha sempre fatto parte di chi si occupa dell’impianto strategico delle cose.

LB: Alla base della scelta di andare via dalla città ci sono motivazioni economiche, di stili di vita, ma anche esistenziali. Quella di chi risponde al richiamo della terra è anche una scelta di felicità, nonostante le difficoltà e gli imprevisti di un lavoro agricolo o di allevamento?

VB: Sì, ci sono due piani di svolgimento in cui si dipana il libro: uno è quello del saggio che descrive come una serie di megatrend concorrono a creare le condizioni dapprima per uno stop ad un inurbamento a senso unico e poi piano piano a un controesodo silenzioso verso la campagna. L’altro è il piano individuale, esistenziale, in cui persone che vivono in città nei loro cubicoli di cemento decidono di spostarsi fuori da esse per costruire una nuova vita.

LB: Lei all’inizio del libro fa una descrizione della vita di città quasi da incubo: frenesia, inquinamento, competitività estrema, individualismo, il cittadino visto esclusivamente come consumatore, etc.

VB: Chiunque abbia vissuto, lavorato e sia stato nelle trincee dell’operare urbano aziendale ha sperimentato alcune di quelle sensazioni, che ho descritto come distillati del paradigma economico che abbiamo vissuto in questi decenni. Non è vero che è un incubo, ci sono fasi della vita in cui va bene anche quello, è interessante anche un confronto combattivo con alcuni degli aspetti urbani che lei ha elencato, però non è detto che debba essere sempre quello il paradigma per cui si vive. Il libro sposta l’attenzione anche sulla dimensione fisica di noi esseri viventi, che abbiamo rinnegato in maniera assoluta. Noi ci dimentichiamo che siamo corpo, muscoli, cinque sensi e avremmo bisogno di un ambiente e di uno stile di vita veramente molto diversi da quello che tutti noi negli uffici con l’aria condizionata, nelle aziende, nelle metro abbiamo vissuto per anni, trovando solo nel microambiente artificiale della palestra l’occasione per risvegliarci. In ogni caso non è giusto rinnegare questi aspetti della città, è un qualcosa che dobbiamo vivere per avere la necessità di cercare altro.

LB: Al contempo la fuga verso la terra non è vista come un qualcosa di bucolico, ma richiede impegno, passione, capacità imprenditoriali. Quelli che lei chiama breakers, cioè «coloro che decidono di uscire dai canoni approvati e convenzionali» non sono degli sprovveduti: alla base spesso c’è una buona dose di coraggio e una forte consapevolezza. Di che tipo soprattutto?

VB: I breakers sono tutti coloro che come organo di filtraggio, oltre al fegato, hanno il cervello. E quindi esercitano un’analisi critica e costruttiva sullo stato delle cose che abbiamo davanti tutti i giorni. Non abdicano alla propria funzione di analisi e decisione, il che significa coraggio, perché è molto più rilassante accettare di conformarsi. I breakers hanno il coraggio di andar a cercare nuovi paradigmi di produzione, in cui la creazione di profitto va di pari passo con la creazione di valore.

LB: Lei spiega che «nell’ultimo decennio attorno ai centri urbani core si sta sviluppando una rete di interconnessioni con i comuni e gli insediamenti nei propri rings che dà vita a sistemi metropolitani complessi e policentrici che beneficiano dei trasporti rapidi e delle connessioni digitali». Ci può fare un esempio di città simile e anche in cosa consistono queste interconnessioni?

VB: Quello della connettività è uno dei megatrend che sta creando le condizioni per “fuggire” dalla città eppure rimanere collegati ad essa e ad altri luoghi. Come negli anni ’60 e ’70 l’infrastruttura stradale ha aiutato lo sviluppo economico di quel periodo, così oggi la connettività è l’infrastruttura neurologica che rende possibile lo sviluppo economico in una rete che non è più solo cittadina, ma che si trova in altri luoghi. La connettività consente il realizzarsi di quella pietra focaia di scambi che hanno meno bisogno dell’incontro fisico. Nel mio libro faccio l’esempio delle case vendute a 1 euro in alcuni comuni della Sicilia e della Sardegna. Questa idea di ripopolamento non è venuta a degli urbanisti, ma a dei sindaci, e solo grazie alla connettività hanno ricevuto migliaia di mail di persone da diverse parti del mondo interessate ad avviare un progetto imprenditoriale in quei luoghi, dando ad essi una nuova vita.

LB: Uno dei motivi per cui ci si muove, dice lei, è il lavoro. Da sud a nord o il contrario, e all’estero. Ma non è solo una questione di reddito, bensì «l’involucro lucido che costituisce la nostra identità sociale». E «a tutte le latitudini e in tutti i continenti la disoccupazione riduce il livello di felicità degli individui in maniera drammatica». Ma in un tempo di precarietà come il nostro, incentrare la propria vita sul lavoro non è rischioso? E creandoselo fuori dalla città può essere un rimedio?

VB: Il capitolo che lei cita si intitola «Il lavoro, dannazione, il lavoro!». Il lavoro è la dignità della persona, quello che dobbiamo rivedere è la definizione di lavoro. Il lavoro è una missione, uno scopo, che va oltre noi stessi, che riguarda il nostro essere umani. Fa parte di noi, del nostro bisogno di andare oltre, avanti, più in alto. La precarizzazione del lavoro è uno dei più grossi drammi sottaciuti del nostro tempo, che ha tolto orizzonte e in molti casi fiducia, forza, dignità a molti giovani. Sono molto critica verso chi non si occupa di questa cosa, che peggiora notevolmente le condizioni psicologiche di una persona. Ma il ritorno alla terra può essere una risposta positiva a una situazione negativa come il precariato.

LB: In vari passaggi del libro lei associa la «fuga verso la terra» alla fine della globalizzazione e all’inizio di un nuovo interregno di de-globalizzazione. Ci può spiegare cosa intende?

VB: Cerco di spiegarlo in poche parole, ma non è facile. Ho iniziato a usare questo termine nel 2008 e ogni volta che ne facevo uso venivo guardata come una complottista. È chiaro dal 2008, almeno per chi osserva gli andamenti del nostro presente, che l’iperglobalizzazione degli ultimi due decenni ha creato delle asimmetrie insostenibili. E che come tutte le asimmetrie in un organismo complesso, quale è la nostra società, prima o poi si riequilibrano, purtroppo anche con la violenza. Si tratta di un contro-megatrend, al megatrend della globalizzazione, che sta prendendo piede in questi anni. Una lunga transizione in cui avremo sempre di più un mondo de-regionalizzato, in cui le supply chain, quindi le catene di forniture di prodotti verranno cambiate attraverso un fenomeno di riappropriazione dei punti di produzione in senso locale. Siamo arrivati ad avere «Il grande reset», come spiega nel suo libro Klaus Schwab, un’altra espressione che veniva tacciata di complottismo. È un movimento inevitabile, anche perché dobbiamo pensare se questa è una struttura macro economica sostenibile, per noi esseri umani ma anche per l’ambiente. Arrendiamoci al fatto che gli asparagi si mangiano a marzo e aprile e non d’inverno.

LB: Agricoltura e allevamento di nicchia, a cui si affiancano spesso attività di turismo responsabile o addirittura di turismo verticale (cioè il turismo non di massa, che evita il mordi e fuggi). E all’orizzonte gli effetti più incisivi del riscaldamento globale, che renderà difficili queste attività. Come si stanno preparando quelli che lei chiama highlander e nuovi coloni?

VB: Ritornare alla terra non significa necessariamente ritornare all’agricoltura. In realtà ci sono tantissime altre attività collegate con il ritorno alla campagna o alla montagna, ad esempio forme di turismo più responsabile, di turismo verticale o di volun-tourism (il turismo unito al volontariato, ndr), quelli che nel libro chiamo wwoofers. Ed è anche una questione generazionale, cioè un ritorno al terra senza necessariamente avviare un’attività, penso alla terza età, che si sposterà dalle città per questioni climatiche. La crisi climatica, in cui siamo dentro fino al collo, è uno dei quattro megatrend che spingerà verso il ritorno alla in luoghi ameni e riparati dagli effetti della crisi climatica. Possiamo immaginare gli otto gradi che scalderanno la Pianura Padana, la desertificazione del nostro Sud, e quindi la ricerca di luoghi più vivibili. Ciò di cui stiamo parlando sta succedendo adesso, non fra cinquecento anni, e sono tanti gli scienziati e gli attivisti che si stanno strappando i capelli perché la politica adotti con urgenza dei correttivi profondi.

LB: Le storie di ritorno alla terra che lei racconta sono tutte positive. Ne ha incontrate anche di negative?

VB: A dire la verità no, nel senso che quello che racconto non è un ritorno bucolico e idealizzato alla terra, ma una scelta molto consapevole delle difficoltà e dei vantaggi. Oggi è molto facile informarsi e imparare, abbiamo tante informazioni a disposizione e la possibilità di chiedere a chi ha compiuto una determinata scelta prima di noi. Quelle che racconto sono storie normali, magari in questo momento qualcuno dei protagonisti del mio libro è in difficoltà. Ma sono comunque storie di successo. Nel senso che il successo è già nel coraggio di svolgere la nostra storia e non quella imposta da altri. Il successo è riuscire a stare in piedi con le proprie gambe, usare il cervello come organo di filtraggio della realtà.

L’incontro

Un futuro lontano dalla città? È l’ipotesi che ha percorso la saggista, futurologa e manager Valentina Boschetto Doorly ieri pomeriggio nella Sala Bianca del Ridotto del Teatro Sociale nella seconda giornata del festival Le Primavere, presentate dalla curatrice Daniela Taiocchi e dal direttore de La Provincia Diego Minonzio.

Si parla, quindi, di fuga dalla città. «Questo fenomeno è emerso in sordina alcuni anni fa, tra il 2016 / 2017 – spiega – C’erano chiari segnali che il paradigma economico stava correndo verso una dissoluzione. Saltavano gli elastici della iperglobalizzazione. Quello che vediamo venire avanti adesso fa parte di un discorso globale che sta cambiando segno».

Il discorso ha radici precedenti: «Nel 2007 per la prima volta nella storia dell’umanità la popolazione urbana ha superato quella rurale. Negli anni 50 gli inurbati erano il 30 per cento. È successo tutto velocemente e in silenzio. Miliardi di persone si sono trasportate nei centri urbani. Tutto questo è legato all’aumento del Pil: pur occupando solo lo 0,5 per cento della terra i centri urbani producono il 60 per cento del Pil. Qui, ad esempio, sotto l’arco alpino, c’è stata una vera emorragia. Ci sono zone in Piemonte e Val d’Aosta dove i paesi sono stati abbandonati. Solo il Trentino Alto Adige ha resistito».

Non è un fenomeno solo italiano: ha riguardato tutta l’Europa. Ora assistiamo a un controesodo. Un primo segnale: il boom delle facoltà di agraria: «Il fenomeno è molto interessante perché ci dà la possibilità di riequilibrare un’asimmetria della globalizzazione. Quattro megatrend lo rendono possibile». Questi vanno intesi come un insieme di forze, tendenze ed evoluzioni capaci con la loro forza di modificare, nel lungo periodo, non solo le economie mondiali, ma anche le società globali.

I megatrend sono tendenze complesse in grado di produrre cambiamenti significativi sul lungo termine, spesso legati a fattori strutturali come demografia, ambiente, innovazione scientifica e tecnologica, la mentalità. In questo caso «il primo è l’invecchiamento della popolazione con una crescita zero: siamo proiettati ad arrivare a 46 milioni di abitanti entro il 2050. Poi la rivoluzione tecnologica, che dobbiamo gestire e non farci gestire. Ora lo Smart working ha mostrato a tutti che è possibile lavorare non solo da casa, ma da dove si è più comodi. Terzo megatrend la crisi climatica, che conosciamo tutti, ma siamo così addormentati che siamo in ritardo di 30 anni e questo, prevedo, sarà il megatrend dominante su tutti gli altri. Poi la globalizzazione che ha creato un enorme economia finanziaria che decide le sorti del mondo».

«Molti di noi si stanno chiedendo: quando torneremo alla normalità? La risposta breve è: mai!», dice Klaus Schwab, fondatore e direttore esecutivo del Forum economico mondiale. Insomma, un mondo in cambiamento, diverso da quello di prima, «una lunga transizione, anche dolorosa, a cui non siamo abituati. Per me, però, è l’occasione per ripensare tutto, perché il mondo di prima non era sostenibile. Dobbiamo impegnarci tutti, perché non siamo qui per risparmiarci, siamo qui per spenderci».

Cosa dovrebbe fare una città per trattenere i suoi abitanti? Secondo Boschetto Doorly «l’uomo è stato progettato per vivere nella natura, adesso ci siamo tutti rinchiusi davanti al computer. Viviamo immersi nell’artificialità, ma non è quello che ci fa stare bene».

(Alessio Brunialti, da La Provincia di Como, 28 aprile 2022)

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