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“Aurora liminalis”, nella sottile linea che separa la vita dalla morte

Articolo. Il secondo libro di Enrico Sibilla è un romanzo esperienziale e immersivo sul suono e l’ascolto, sull’origine e la fine. Da un pianobar all’indicibile, attraverso una scrittura mesmerica che racconta di Lou Reed e Kanye West, ma anche di Ponte Grosso, un paese immaginario della provincia di Bergamo

Lettura 3 min.

S otto il cosiddetto mainstream , sotto il cosiddetto indie, c’è una sorta di sottomondo. Per qualcuno palude e inferno; per qualcun altro semplicemente un lavoro come un altro. Ctonio di musicisti e cantanti, a volte decisamente talentuosi, che girano di locale in locale per allietare gli astanti con la propria musica (quasi sempre successi pop italiani più qualche best seller straniero, se va bene). Astanti che spesso non li ascoltano, anzi ci parlano sopra. Tre-quattro ore di canzoni, basi midi, voci femminili stile Pausini, voci maschili più variegate (da Alex Baroni a Gigi D’Alessio), qualche nota di tastiera, ingaggio e a casa. È il mondo dei pianobar. A questo sottomondo appartiene Principe , cognome senza nome protagonista di “Aurora liminalis” (Il Saggiatore), secondo libro di Enrico Sibilla dopo “Il libro dei bambini soli” (2016).

Ci sono romanzi che assaltano il lettore, come ad esempio quelli di Giuseppe Genna o Antonio Moresco , e lo fanno magari con dolcezza, come accade qui, ma anche con ferocia. E con una lingua che è mesmerica, esplosiva, a tratti ipertecnicistica e straordinariamente musicale. Forma che non potrebbe essere altrimenti perché “Aurora liminalis” di musica parla, o meglio, di musica dice . In una vertiginosa cantata che dai pianobar porta al suono primordiale, quello che è prima ancora della lingua, del palato, delle corde vocali. Prima ancora del corpo: il suono primigenio del mondo, un principio non ascoltato: la primaria vibrazione della materia conformata e l’ultima, sinestetica prima della fine: “l’aurora della soglia”, titolo preso da un bellissimo disco ambient di William Basinski e Richard Chartier .

Principe è un marito, che subisce la separazione da una moglie che ama ancora. Di lei scopre crudelmente il tradimento; hanno un figlio, Enrico , con cui sperimenta tutto quel fondo di incomprensibile che a volte nasce fra un padre e un bambino. Principe perde anche il lavoro, vive l’umiliazione dell’ultimo ingaggio in un locale. Ed è terminale, ha una malattia che non gli lascerà scampo. Rimane a piedi, è un uomo irrisolto, inutile, finito .

Trova la catarsi nell’ascolto a tutto volume di “Metal Music Machine” , il disco sferragliante feedback e puro rumore di Lou Reed , che in vinile non finisce mai, continua eterno in loop (grazie ad un espediente tecnico applicato al solco del 45 giri): è il suono del caos, del prima e del dopo, forse del nostro mondo. Grazie a un ingaggio in un miserando pub pittato stile Bergamo, ma in Brianza, conosce Iride , una cantante capace di entrare come lui in quella spazialità cosmica che è il canto diplofonico (per intenderci, quello praticato fra gli altri da Demetrio Stratos ). Una comunanza che li conduce in un viaggio abissale, fino all’origine e alla fine, l’attimo di passaggio in suoni-forme-colori fra la vita e la morte, l’ aurora liminalis , là dove dopo è solo nulla o Dio – di cui il canto sembra essere a volte una preghiera, un metafisico richiamo.

C’è una citazione all’inizio di “Aurora liminalis” che forse spiega meglio delle mie parole il magma che bolle fra le righe del romanzo: “Tutti i suoni sono stati uditi, tutte le sonorità ascoltate. Noi soggiaciamo a questa monumentale idiozia, la musica. Solo un nuovo ascolto ci può salvare” . Le ha scritte Manlio Sgalambro in un suo pamphlet, “Contro la musica” (ripubblicato di recente da Carbonio Editore), e pare proprio che dopo questa lettura Franco Battiato abbia deciso di collaborare con il filosofo siciliano per la scrittura dei testi dei suoi dischi, da “L’ombrello e la macchina da cucire” in poi.

“Aurora liminalis” è un libro conturbante, ambizioso, doloroso – soprattutto se nella vostra vita avete conosciuto una buona dose di dolore fisico, prima che psichico. Riguarda l’ascolto e il suo significato più profondo, ma anche il fare musica o il fare suono – che non sono meramente questioni biologiche e acustiche, bensì radicalmente esistenziali se non soprannaturali. Piazza colpi di coda narrativi che sono trovate straordinarie, come l’entrata in scena di Kanye West . Non tralascia la memoria e la nostalgia, vedi nelle pagine commuoventi su Ponte Grosso , un immaginario paesino di montagna (forse una distorsione di Ponte Nossa?) dove Principe da bambino trascorreva le vacanze estive e dove scoprì, tra i boschi, la musica, l’ascolto in cuffia, la magia della stereofonia, grazie all’amicizia con un ragazzo del posto, per poi tornare prima della sua morte speciale, con Enrico. Ma più di tutto “Aurora liminalis” è un libro esperienziale e immersivo , un’immersione dentro le cose fondamentali (la vita, la morte, il dolore) attraversate dal suono, quella frequenza fondamentale, acufene del mondo, che tutt’oggi sfrigola e dall’inizio del tutto ci ha generato, con il suo nome intrinsecamente sonoro: big bang . Quel canto che per tutti può essere trapasso di respiro, consapevolezza che siamo corpi sonanti, fino all’estremo.

Principe è il principio. E anche la fine. Come il disco di Basinski e quello di Reed, la narrazione circola in loop e avvinghia il lettore ( “Questo è l’inizio, ricordalo bene” quasi in apertura; “Questo è l’inizio, nessuno può ricordarlo” in fondo). Principe è un omaggio (forse voluto) a Prince. Principe è il prisma, del prima e del dopo. “Quando la luce non è guardata da nessuno” .

“Aurora liminalis” è un assalto, dicevamo. E l’assalto è una sorpresa e una scoperta. La sua forza è anche nel non essere previsto, nel non essere anticipato, ma solo raccontato per suggestioni fondamentali. Come un canto di cui non capisci le parole, eppure arriva e travolge.

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