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Cent’anni di Beppe Fenoglio: il corpo e il sangue della provincia, lo spirito di ogni essere umano

Intervista. Il 2022 segna cent’anni dalla nascita dello scrittore e partigiano albese. Ne parliamo con Nunzia Palmieri, autrice e docente di letteratura italiana contemporanea all’Università di Bergamo. Il suo volume “Beppe Fenoglio: la scrittura e il corpo”, pubblicato nel 2012, torna in libreria in occasione del centenario.

Lettura 6 min.
Beppe Fenoglio

Beppe Fenoglio è uno di quegli scrittori morti giovani – aveva solo 41 anni, nel 1963 – il cui riconoscimento è praticamente tutto postumo. La critica, gli ambienti letterari, come talvolta accade, non gli riservarono in vita ciò che invece gli riconoscono oggi: una consacrazione che incastona la sua opera tra le più importanti della letteratura del Dopoguerra, e non solo italiana.

Un’opera che è tale in virtù dell’anomalia del suo autore, della sua frugale complessità, del profondo legame con la sua terra, le Langhe, dove è nato, cresciuto, andato partigiano, diventato scrittore, e infine morto. Fenoglio è molto più di un lucido narratore della Resistenza: per mezzo della sua scrittura parla un mondo che ha il corpo e il sangue della provincia piemontese, ma lo spirito profondo di ogni essere umano.

MR: Il Centro studi a lui dedicato ha da poco inaugurato l’anno fenogliano. Mi pare però che non se ne stia parlando diffusamente come meriterebbe – l’attenzione è per Pasolini. Quale crede sia il motivo?

NP: Può darsi che la coincidenza con l’anniversario di Pasolini abbia messo un po’ in ombra Fenoglio. Per una serie di questioni che esulano dal valore dei testi letterari, Pasolini è considerato da un punto di vista antropologico e sociologico un punto di riferimento per il contemporaneo. Quindi senz’altro ha più spazio anche per questo motivo, e poi c’è grande attenzione per i suoi film. Pasolini è più conosciuto all’estero, si studia nei corsi universitari americani. Era un editorialista, collaborava con i quotidiani, le sue opinioni suscitavano e suscitano dibattiti, condizionando l’opinione pubblica.

MR: Un intellettuale a tutto tondo.

NP: Esatto. Fenoglio, invece, è sempre stato uno scrittore molto appartato: ha vissuto sempre ad Alba, dalla quale non si è mai spostato se non per poche occasioni o per lavoro, tenendosi volutamente lontano dal mondo culturale italiano, anche da Torino e dall’Einaudi, la casa editrice che aveva pubblicato i suoi primi libri. La mondanità letteraria non lo ha mai attirato. Aveva tutto un suo mondo di amicizie estremamente fecondo, e a suo modo internazionale, ad Alba. Lì frequentava intellettuali come Pietro Chiodi, traduttore e studioso di Heidegger e di Sartre, artisti, i suoi insegnanti di liceo, che gli hanno trasmesso l’amore per la letteratura e la filosofia. Avevano un respiro internazionale e portavano nel Caffè Commercio di Alba idee nuove. Fenoglio è stato a contatto con tanta parte della cultura italiana restando ad Alba. Non è uno scrittore alla moda. Non lo è mai stato».

MR: Outsider, valorosamente provinciale, lontano anche dalle pose dello scrittore solitario e romantico. E quella sua inquietudine, l’autocritica che talvolta diventava senso di inadeguatezza: «Debbo constatare da per me che sono uno scrittore di quart’ordine» scrisse per via del rapporto travagliato con Einaudi e con Elio Vittorini in particolare. E il rapporto con la scrittura stessa: «Ci faccio una fatica nera. La più facile delle mie pagine esce spensierata da una decina di penosi rifacimenti. Scrivo with a deep distrust and a deeper faith». Come si è riflesso tutto ciò nella sua opera?

NP: Mi viene da fare un paragone tra Fenoglio e Italo Svevo. Entrambi sono stati scrittori di una città, si può dire. Svevo di Trieste, e anche lui come Fenoglio si è allontanato poco, e quasi sempre per motivi di lavoro. Di entrambi non si può dire però che siano dei provinciali, nella loro opera non c’è nulla del provincialismo o del localismo. In Svevo e Fenoglio c’è sempre un respiro universale. Entrambi poi credevano profondamente nel loro essere scrittori, nel fatto che nella loro scrittura ci fosse il loro destino, che fossero innovatori, che avessero qualcosa di nuovo da dire. Ne erano profondamente convinti. E forse per questo non hanno avuto bisogno di tenere tutta quella rete di rapporti, anche magari un po’ mondana e superficiale, che gli scrittori tengono perché poi ci sono i libri che vanno pubblicati e promossi. Loro credevano profondamente, e dolorosamente, nel loro essere scrittori, anche se la loro consacrazione è avvenuta molto tardi. Entrambi hanno pagato questa marginalità, quasi tutti i libri di Fenoglio sono stati pubblicati dopo la sua morte. E anche per Svevo la fama è arrivata tardissimo.

MR: Per la corrispondenza tra esperienza e scrittura penso anche a Primo Levi. In entrambi i due aspetti mi sembrano inseparabili. Eppure non si può dire che la fortuna di «Una questione privata», per esempio, sia stata la stessa di «Se questo è un uomo», pur con tutte le diversità tra i due testi.

NP: Quello di Levi è stato il primo grande libro sulla Shoah pubblicato in Italia, era un tema non ancora trattato, o raccontato oralmente con grande difficoltà e con il problema della resa di qualcosa che sembrava irrappresentabile. Viceversa Fenoglio esordisce quando il tema resistenziale era già ampiamente trattato. Anzi, a metà degli anni Cinquanta qualcuno comincia a sentire una certa insofferenza. Calvino era uno di questi, andava cercando altro. Fenoglio si trova a raccontare qualcosa che ha già una tradizione nell’immediato Dopoguerra, ha dovuto faticare per dare una propria prospettiva, per cercare uno stile che fosse inedito, un nuovo modo di raccontare una storia che esigeva parole nuove per essere restituita in ciò che aveva di indicibile. Ed è una sfida che vince. Tant’è vero che Calvino, nella prefazione alla seconda edizione de «Il sentiero dei nidi di ragno», scriverà che Fenoglio ha saputo raccontare la Resistenza come nessun altro, gli riconosce questa grandezza.

MR: «Fu il più solitario di tutti che riuscì a fare il romanzo che tutti avevamo sognato (...) Il libro che la nostra generazione voleva fare, adesso c’è» scrisse Calvino. E quello di Fenoglio è effettivamente un racconto spoglio della sacralità che ricopriva il tema nel Dopoguerra. Carlo Bo scrisse: «La lettura di Fenoglio si distacca da tutta l’altra letteratura della Resistenza. Fenoglio ha cercato di privatizzare se così posso esprimermi l’esperienza di tutti, cioè il rovescio di quanto hanno fatto tutti gli altri». Da dove arriva questa unicità?

NP: Credo si riferisse proprio a «Una questione privata». Si parla di Resistenza e di guerra, una parte del romanzo è dedicata ai racconti lasciati alla responsabilità dei partigiani, ma Fenoglio ne ha voluto fare una storia appassionante anche ritornando al romance. E da lì viene fuori una trama più romanzesca: un amore, un tradimento presunto, la gelosia. La storia quindi diventa anche una questione privata. Dico anche perché mi sembra che tutti e due gli aspetti rimangano ben bilanciati: intreccio sentimentale, un viaggio che è una quest, una ricerca che non va solo in una direzione personale ma anche verso le ragioni della guerra giusta e ingiusta, del combattere, del valore della vita e della morte, e che riflette sulle scelte difficili e inevitabili che ogni partigiano ha dovuto fare.

MR: Ed ecco il respiro universale.

NP: Sì perché Fenoglio non abbandona la riflessione su questi temi, anzi, sono proprio l’ossatura portante di tutto il romanzo. Si inserisce dentro questa grande tradizione del romanzo del Novecento che riflette sulla condizione umana. Anche perché Milton (il protagonista, ndr) è costretto a uccidere un uomo, suo malgrado, e da quel momento inizia il punto di crisi del personaggio.

MR: Fenoglio fu anche un grande narratore di storie d’alta langa, di famiglia, storie contadine. Peregrina di cascina in cascina a raccogliere voci di prima mano, aneddoti, memorie. Recupera l’oralità e la trasforma in letteratura. Anche qui senza retorica, senza estetizzare. Tutt’altro: “questa langa porca”...

NP: Questo è un punto cruciale nella disposizione al narrare di Fenoglio. «La Malora» viene dalle storie contadine che lui ascoltava durante i pranzi di famiglia. Il bellissimo documentario di Guido Chiesa lo ritrae in quel modo, i compaesani lo ricordano così, «c’aveva sempre in mano un taccuino... noi raccontavamo e lui tirava fuori il suo taccuino e segnava!». Aveva questa disposizione all’ascolto, conosceva l’importanza della tradizione orale, delle storie delle Langhe, storie durissime, di miseria e di lotta con una terra poco generosa. E dentro il tessuto della narrazione interpreta la tradizione della novellistica italiana, tiene in gioco il rituale del racconto: lo fa Boccaccio, lo fa Matteo Bandello, lo fanno tutti i grandi scrittori di novelle. Fenoglio fa propria questa tradizione: non c’è localismo, non c’è enfasi sul mondo contadino ma una grande disposizione al racconto che è anche degli incolti, del comune e quotidiano parlare e raccontare. C’è un filo che lega la scrittura letteraria alle storie che circolano attorno a noi, e lui l’ha saputo cogliere molto bene.

MR: Con il cimitero come luogo di vocazione, un “piano panoramico”.

NP: L’idea della morte è un imprescindibile in tutta la novellistica e nei grandi classici della letteratura di ogni epoca. Il «Decameron» contiene tante storie sull’aspetto corporeo della morte, la tomba, il cadavere. È qualcosa che si lega alle radici, il cimitero racconta tante cose, le lapidi parlano di una comunità. Fenoglio raccoglie le narrazioni e le tradizioni orali perché è un modo per mantenere viva la memoria del passato. La letteratura in fondo non fa altro che preservare qualcosa che altrimenti andrebbe perduto. Il racconto fa questo. Poi tra i modelli di Fenoglio ci sono i poemi epici, l’Odissea, John Milton – anche qui il peso della tradizione orale è sostanziale. Fenoglio riprende un po’ tutto questo.

MR:Beppe Fenoglio. La scrittura e il corpo” è il suo volume di recente ristampa. Corpo fisico, e inteso come consistenza linguistica. Ne ha scritto anche recentemente. È così?

NP: In Fenoglio c’è una percezione della parola e della scrittura come corpo. Da un lato, la consistenza che può avere la parola del dialetto. «La Malora» prendeva molto da espressioni, modi di dire, proverbi delle langhe che lui sentiva come portatori di un mondo che rischiava di andare perduto, perché dove muore una parola muore tutto il mondo che le sta attorno. Dall’altro quel suo inglese inventato del «Partigiano Johnny» che qualcuno ha chiamato fenglese, perché in realtà era una lingua inesistente, era la ricerca di una lingua che avesse una sua consistenza, fisica, sonora, diversa dall’italiano di grado zero ma anche dall’italiano letterario. Fenoglio cerca parole come corpi che restituiscano tutto un mondo con il loro peso specifico. Poi ha un’importanza anche il corpo fisico dei personaggi. In «La paga del sabato» ci sono incontri notturni tra Ettore e la sua fidanzata che secondo Calvino erano descritti in modo quasi pornografico, troppo esplicito. Il suo era un modo diverso di intendere la letteratura e la scrittura. Per Fenoglio quelli erano episodi centrali, avevano a che fare con i fondamenti della vita, la nascita, l’amore, la morte, gli stati e i cambiamenti del corpo. Forse Calvino non aveva colto a fondo tutto questo.

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