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Davvero non c’era nulla di meglio di Francesco Bianconi fra i finalisti del «Premio Nazionale Narrativa Bergamo»?

Articolo. La vittoria di «Atlante delle case maledette» (Rizzoli Lizard, 2021), a fronte degli altri cinque libri in finale, lascia quantomeno perplessi. O forse è il segno dei tempi, quella rincorsa alla medietà che sembra caratterizzare da un po’ di anni la letteratura (e la cultura) italiana

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Vi siete mai chiesti come mai ci siano così tanti musicisti famosi che scrivono libri e nessuno scrittore (o quasi, perché da qualche parte magari uno o due ce ne saranno) che fa dischi? Ci sarebbero tante considerazioni da fare in merito alla risposta a questa domanda. Atteniamoci a quella più banale e rasoterra: analfabeti (di ritorno o non) a parte, tutti sanno scrivere, tutti con un po’ di buona volontà e magari quel poco di estro che basta riescono a raccontare una storia, fosse anche solamente la loro. Non sono un caso, quindi, i vari siti che offrono l’autopubblicazione della propria opera e addirittura chi scrive autobiografie (anche di gente anonima) su commissione.

In Italia un libro non lo si nega a nessuno: musicisti, star della tv, top model, sportivi e via dicendo. Operazioni che, se il nome ha un certo peso mediatico, possono avere anche successo. Sicuramente più del tal sconosciuto che esce per quella grossa casa editrice. Il quale ha bisogno di uno sforzo promozionale non da poco perché se ne parli. E quando i libri che escono sono tanti – se il mercato dei lettori piange, si differenzia la proposta – è alto il rischio che qualcuno, pur essendo marchiato da una grossa casa editrice, venga pubblicato nel quasi anonimato.

Quindi un nome già famoso, e di altra disciplina, parte avvantaggiato: prima di tutto perché si rivolge a due pubblici, non netti e distinti, anzi in parte “mescolati”, e poi perché è un Nome. E se è un Nome attira attenzione, e magari qualche giudizio lusinghiero più di ciò che si meriterebbe, non c’è molto da stupirsi, funziona così. Del resto, è un Nome, no? Si potrà mica dire che il suo libro fa schifo, dai.

Dall’inizio del millennio in poi di libri scritti da musicisti ne abbiamo a bizzeffe: da Ligabue (che poi con «Radiofreccia» ci ha fatto pure un film, insomma non si è fatto mancare niente) a Capossela (che ci ha provato, in forma diverse, svariate volte: l’ultimo, «Eclissica», uscito pochi mesi fa per Feltrinelli), ma anche Renga, Francesca Michielin, Arisa, Nek e potrei andare avanti ancora per molto ma mi fermo qui. Perché poi c’è tutta l’ondata di rapper, trapper e cantanti pop (figli di Maria e non) che negli ultimi anni ci hanno regalato la loro opera: Achille Lauro Sono io Amleto»: ah davvero? A saperlo prima…), Sfera Ebbasta, Aka7even e anche i “nostri” Pinguini Tattici Nucleari (com’è «Ahia!» potete scoprirlo qui). Non tutti sono romanzi, a volte sono biografie, altre volte sono libri ibridi, fra finzione e realtà. Sicuramente li comprano i fan. E magari anche chi mosso da stima e curiosità si chiede chissà come sarà il libro di.

Attenzione, però, non facciamo di tutta l’erba un fascio. Ci sono musicisti, di solito ad alto gradiente letterario anche nei testi delle loro canzoni, che hanno scritto libri belli, di valore. A volte eguagliando addirittura la loro produzione musicale, o sfiorandone la vetta. Mi riferisco ad esempio a quel capolavoro che è «Croniche epafániche» di Francesco Guccini, una miscela gustosissima di italiano e dialetto pàvanese per raccontare fra mito e quotidianità un “lessico famigliare” che riguarda un paesino d’Appennino fra l’Emilia e la Toscana, dove il cantautore trascorse l’infanzia (e oggi sta trascorrendo la vecchiaia). Oppure ai libri di quell’outsider mai abbastanza considerato che è gianCarlo Onorato: il romanzo «Il più dolce delitto» e l’autobiografia-saggio «Ex. Semi di musica vivifica» sono assolutamente da leggere. O ancora all’unica raccolta di racconti brevilinei ed eleganti, «I vivi», di Cristiano Godano dei Marlene Kuntz, che fa sperare ad un romanzo vero e proprio prima o poi – caso a parte quello di Emidio Clementi dei Massimo Volume, difficile definirlo scrittore o musicista, visto che le canzoni della band sono veri e propri racconti fulminanti o evocazioni d’impatto e qualcosa di lui lo avvicina, non per qualità (inarrivabile), ma per attitudine, a Leonard Cohen.

Nella categoria “fan più chissà come sarà il libro di” possiamo tranquillamente inserire «Atlante delle case maledette» di Francesco Bianconi (Rizzoli Lizard, 2021), che ha vinto la XXXVIII edizione del «Premio Nazionale Narrativa Bergamo». Terza opera del cantante dei Baustelle, attualmente impegnato in un percorso solista passato a Bergamo l’anno scorso, è una raccolta di racconti che il musicista toscano ha scritto in zona lockdown. Dimitri, scrittore di successo (forse alter-ego dell’autore), costretto in casa da un virus, accorpa una serie di descrizioni di case dove ha abitato, corrispondenti a varie fasi della vita: l’infanzia, un tradimento da parte di una delle diverse compagne che sfilano nella narrazione, un viaggio a Parigi caratterizzato da un brutto episodio di teppismo e altro ancora. Il libro non è male, la scrittura è ben cesellata, più matura dei due libri precedenti. Come lo è anche il pretesto di una manciata di episodi “abitativi”, intervallati da alcune divagazioni che sanno di allungamento del malloppo e dalle belle illustrazioni di Paolo Bacilieri, che rendono il libro piacevole. Bianconi però non è Manganelli (una suggestione, forse sbagliata, subito comparsa nella testa di chi scrive) e neppure vuole esserlo. Ma anche quando produce uno dei più bei racconti del libretto, quello sui soldatini, guarda, ma da molto lontano, quel Michele Mari che sull’infanzia ha scritto una specie di epopea in forma di racconti e romanzi.

Insomma il libro è medio, lo si legge e lo si lascia andare come tantissimi titoli che escono settimanalmente nel nostro Paese: poco più di duecento pagine, illustrazioni comprese, che non assaltano mai il lettore, ma nemmeno lo assecondano veramente. Sono pagine che fanno compagnia, rispondono a quella curiosità di cui sopra senza provocare chissà quale entusiasmo. Sembrano più che un libro veramente voluto, una pubblicazione per rimpolpare la visibilità di un musicista fermo – come tutti gli altri – per due anni e bisognoso di esserci, sui giornali in primis – opinione che potrebbe essere anche sbagliata, ma allora sarebbe ancora più grave che un’intenzione di scrittura verace desse come risultato un libro semi-trasparente come questo.

Stupisce che la giuria popolare di un Premio come «il Bergamo» abbia ravvisato nell’opera di Bianconi la migliore fra le cinque in finale, quando nella stessa finale comparivano nomi come Elisa Ruotolo (arrivata seconda), Andrea Inglese, Maurizio Torchio e soprattutto quel Davide Orecchio che già prima dell’ultimo «Storia aperta» (Bompiani, 2021) stava facendo parlare di sé. Certo, è tutt’altra scrittura, che richiede impegno, dedizione, ma cosa dovrebbe essere di base la letteratura per il lettore se non questo?

Negli anni il «Premio Nazionale Narrativa Bergamo» ha premiato, e quindi dato risalto, a gente come Daniele Del Giudice, Nico Orengo, Ermanno Cavazzoni, addirittura Vincenzo Cerami, il già citato Michele Mari (con quella che ancora oggi è forse la sua opera migliore: «Io venìa pien d’angoscia a rimirarti») e potremmo andare avanti con Sandro Veronesi, Enrico Brizzi, Eraldo Affinati, Marco Lodoli, Andrej Longo, Marco Missiroli, Laura Pariani, Gianni Biondillo e tanti altri. Nomi che possono piacere o no, ma che la nostra letteratura recente l’hanno costruita . Senza contare Il Calepino, premio assegnato alla carriera, che negli anni è andato a Edoardo Sanguineti, Franco Loi, Luigi Meneghello, Giuseppe Pontiggia, Raimon Panikkar, Gianni Celati, Dacia Maraini, Claudio Magris.

Dunque nella cinquina di quest’anno davvero non c’era nulla di meglio dell’ultimo libro di Francesco Bianconi? Oppure i 109 votanti della Giuria Popolare (hanno votato tutti, meno uno) rispecchiano i tempi in corso, dove a livello culturale sembra esserci un’anestesia diffusa verso tutto ciò che non tende a una rassicurante medietà? In più, stanchi magari dal lavoro, con una serie tv pronta per essere bingewatchata, un libro di disimpegno può essere un valido sostitutivo. Sono ipotesi, è difficile rispondere in modo certo alla domanda di cui sopra. Ma basta percorrere il palmares del Premio per notare come l’esito quest’anno sia stato diverso. Di come fra i cinque abbia vinto il Nome più glamour. E non il libro. Magari è stato solo un episodio, dirà qualcuno. E in fondo ha vinto Bianconi. Mica un Renga qualsiasi.

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