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Il 25 settembre, «La giornata di uno scrutatore» e noi

Articolo. Rileggere il romanzo breve di Italo Calvino è un’occasione per riflettere sul presente attraverso la vicenda di Amerigo Ormea, alter-ego calviniano scrutatore per un giorno al Cottolengo di Torino durante le elezioni del 7 giugno 1953.

Lettura 4 min.
Alcide De Gasperi, Giuseppe Saragat, Bruno Villabruna, Oronzo Reale, Palmiro Togliatti, Pietro Nenni, Alfredo Covelli, Augusto De Marsanich

Eccolo, il 25 settembre. Lo si vede cacciare il muso da dietro l’angolo col suo sorriso sornione e perturbante. Ed eccoci, un po’ come Amerigo Ormea, alle porte di una domenica su cui incombono, prima di tutto, le ombre di una legge elettorale anomala, storta. Quella del 1953 la chiamavano «legge-truffa» ed era stata approvata dalla sola maggioranza DC per provare a blindare il 65% dei seggi con il 50% più uno dei voti. La solita vocazione iper-maggioritaria, la solita chimera della governabilità si direbbe. Vizietto di una repubblica a cui fin dal principio è piaciuto far finta di non essere parlamentare, votata al concorso di forze diverse, e che per quarant’anni ha avuto, praticamente, un solo governo.

Un vizio in cui siamo diversamente immersi anche oggi. Tutto sembra suggerire che proprio a causa della legge elettorale ci si debba aspettare una giornata piovosa, in ogni caso. Anche solo in termini di rappresentatività. L’indirizzo politico? Come tira il vento non si può mai dire con certezza, e di quali imprevedibili virtù potrà vantarsi (o rammaricarsi) il corpo elettorale poco è dato sapere. Certo, l’augurio è sempre quello: partecipazione, ben detta “affluenza” perché l’elettorato sembra non essere mai stato liquido come in questo presente disilluso e scettico. Che a prevalere, almeno, non sia il grigiore di un altro scrutatore, quello «Non votante» cantato da Samuele Bersani.

Due leggi elettorali anomale, si diceva. Una linea che unisce il passato al presente. Eppure, in quel 7 giugno 1953 raccontato da Calvino l’affluenza fu del 93.81%. Un dato impensabile oggi, e che visto da qui racconta ancora una volta un Paese che riesce sempre ad essere esattamente uguale e completamente diverso da sé stesso. E a pensarci bene, del resto, non è spesso così anche per le persone? Non viviamo continuamente di incoerenze, di contraddizioni? Almeno vale per Amerigo Ormea, un uomo della cui vita Calvino racconta poco, e che conosciamo attraverso riflessioni e digressioni su quello che vede e che vive nel corso della sua giornata. Stabilmente in conflitto con sé stesso: per il suo ruolo nel partito (il Partito Comunista), di fronte ai rappresentanti dell’istituzione religiosa e nell’essere garante delle regole del processo elettorale, testimone dell’alterità del Cottolengo, quella specie di città invisibile in cui scoprire davvero cosa sia l’amore osservando un contadino che «faceva alla domenica il viaggio per veder masticare suo figlio». E di conseguenza, in contorsione sul suo essere uomo comune alle prese con la vita: amante, padre potenziale, cittadino, soggetto della storia, intellettuale.

Amerigo Ormea guarda e vive le elezioni in uno spazio «eterotopico»: la Piccola Casa della Divina Provvidenza «Cottolengo» di Torino, l’istituto religioso dove sono ricoverati minorati fisici e mentali. Un altrove, un luogo separato «definito ma assolutamente differente da tutti gli altri spazi sociali», dove la vulnerabilità del corpo dei degenti diventa quasi la metafora della democrazia, dei suoi profili più esposti, fragili, sguarniti. La vulnerabilità del corpo elettorale, che oggi pare aver sempre più i contorni di un’entità distaccata. Il Cottolengo, per Amerigo, finisce per essere l’unico luogo attraverso cui capire di più su se stesso e sugli altri quando non è domenica 7 giugno 1953. Viene in mente la famosa storiella dei pesci e dell’acqua di David Foster Wallace : «Ci sono due pesci che nuotano e a un certo punto incontrano un pesce anziano che va nella direzione opposta, fa un cenno di saluto e dice: “Salve, ragazzi. Com’è l’acqua?” I due pesci giovani nuotano un altro po’, poi uno guarda l’altro e fa “Che cavolo è l’acqua?”». In sostanza, è utile trovare un punto di osservazione al limitare per riuscire a osservare di cosa è fatto il centro in cui si vive.

In quel 7 giugno 1953, Calvino ha passato del tempo al Cottolengo, dieci minuti dice lui, da candidato («per far numero nella lista, naturalmente») del Partito Comunista. In quel coriandolo di tempo assiste a una lite tra democristiani e comunisti che gli ispira il racconto: i primi cercano di far votare un paralitico nonostante non abbia la facoltà di parlare o anche solo di esprimere una preferenza, e i secondi si oppongono al tentativo di estorsione, all’ipocrisia opportunista dello sfruttamento degli inabili (del loro voto inespresso e inesprimibile) spacciato per carità cristiana.

«Così, [Amerigo] aveva vinto la sua battaglia: il voto del paralitico non era stato estorto. Ma un voto, cosa contava un voto? Questo era il discorso che gli faceva il “Cottolengo” con i suoi gemiti e i suoi gridi, vedila la tua volontà popolare che scherzo diventa, qua nessuno ci crede, qua ci si vendica dei poteri del mondo, era meglio lasciarlo passare anche quel voto, era meglio che quella parte di potere guadagnata così restasse incancellabile, inscindibile dalla loro autorità, che se la portassero su di loro per sempre».

Alla stesura di «La giornata di uno scrutatore» Italo Calvino dedicherà circa dieci anni. Pubblicherà solo dopo esserci tornato nel 1961, al Cottolengo, proprio in qualità di scrutatore. Così spiega Calvino stesso nella presentazione, la forma di reportage meditativo che ha preso la sua opera: «È un racconto non molto lungo, e in cui non succedono molte cose; è tenuto su più che altro dalle riflessioni del protagonista: un cittadino cui durante le elezioni (siamo nel 1953) è toccato il compito di fare lo “scrutatore” in una sezione elettorale che si trova all’interno del “Cottolengo” di Torino. Il racconto segue la sua giornata e s’intitola appunto La giornata di uno scrutatore. È un racconto ma nello stesso tempo una specie di reportage sulle elezioni al Cottolengo, e di pamphlet contro uno degli aspetti più assurdi della nostra democrazia, e anche di meditazione filosofica su che cosa significa il far votare i deficienti e i paralitici, su quanto in ciò si rifletta la sfida alla storia d’ogni concezione del mondo che tiene la storia per cosa vana (...) ma, soprattutto, è una meditazione su se stesso del protagonista (un intellettuale comunista), una specie di Pilgrim’s Progress d’uno storicista che vede il mondo trasformato in un immenso Cottolengo...».

Guido Piovene scrisse che con questo testo «entriamo nella vita d’oggi senza diaframmi». Se ancora vale questa interpretazione, quali che siano la vita e i diaframmi che oggi modulano il nostro respiro, il lettore è chiamato a scoprirlo da sé. E se «l’ultima città dell’imperfezione», così l’autore definisce il Cottolengo nel finale, ha davvero «la sua ora perfetta (...) l’ora, l’attimo, in cui in ogni città c’è la Città»: uno spazio, perché no anche solo ideale, una possibilità dentro cui non smettere di riflettere, e in cui trovare la capacità di ridefinirsi. Proprio come Amerigo Ormea. Soprattutto quando non sarà più domenica 25 settembre 2022.

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