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Lo scevà alla prova di maturità. Una riflessione

Articolo. Gabriele Lodetti, maturando presso il «Plinio Seniore» di Roma, ha deciso di usare lo scevà durante la prima prova degli esami di stato. Una scelta che pare non aver avuto ripercussioni sull’esito del suo elaborato ma che fa comunque sorgere diverse perplessità

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La riflessione che qui segue è opera di una delle tante voci di Eppen, che da quando è nato ospita opinioni tra di loro diverse. Siamo consapevoli che alcuni temi, come quello in questione, siano temi articolati, e che ogni posizione ha sempre dei pro e dei contro. Eppen cerca di offrire ai propri lettori gli strumenti perché possano farsi un’opinione.

Ho un brutto difetto: spesso mi distraggo e mi scordo le cose. Eppure, se a volte non ricordo nemmeno quel che ho mangiato a pranzo tre giorni prima, vanto una memoria vivida, di ferro, per tutto ciò che concerne gli anni meravigliosi del liceo. Non dimentico l’anno di quinta, i mesi precedenti alla maturità e la professoressa di scienze che, in previsione degli scritti, raccomanda a me e ai miei compagni di classe di non confondere Wegener, geologo, con il più famoso Wagner, compositore.

Nella mia mente, però, è serigrafato pure il professore di lettere che, preoccupato per la prima prova, sottolinea come nessuno di noi sia «poeta laureato» invitandoci quindi ad attenerci alle regole grammaticali e a non inventarci strani neologismi. È anche per questo che, ormai più di un mese fa, sono rimasto alquanto sorpreso nell’apprendere come Gabriele Lodetti, maturando al «Plinio Seniore» di Roma, abbia deciso di utilizzare lo scevà all’esame di stato. Una scelta impiegata nello svolgimento del tema di italiano, dettata dal valore inclusivo del segno paragrafematico in questione e che, a quanto pare, ha riscosso il placet della commissione, dato che l’elaborato del ragazzo non solo non è stato invalidato, ma ha ottenuto un punteggio piuttosto alto (17/20).

Lo scevà e la Crusca

Dal suono vocalico neutro e adattamento italiano di Schwa (trascrizione tedesca del termine grammaticale ebraico shĕvā, che può essere tradotto con «insignificante», «zero» o «nulla»), lo scevà («semplice» per i singolari, «lungo» per i plurali) è usato al posto della desinenza maschile da tutti coloro che, al pari di Lodetti, considerano quest’ultima limitante, discriminante, maschilista o, come già accennato, non inclusiva di quelle persone che non si riconoscono nel binarismo di genere. Eppure, nonostante i buoni propositi, l’avvalersi dello scevà fa sorgere non pochi dubbi, sia di metodo, se così si può dire, sia di merito.

Innanzitutto, è bene ricordare come, in italiano, lo scevà non sia presente come fonema e non abbia, pertanto, una corrispondenza nella lingua parlata. L’Accademia della Crusca, a tal proposito, è chiara: «È da escludere […] l’uso di segni grafici che non abbiano una corrispondenza nel parlato […]. Va dunque escluso tassativamente l’asterisco al posto delle desinenze dotate di valore morfologico […]. Lo stesso vale per lo scevà o schwa». Per la celebre istituzione, inoltre, è da bocciare anche la «reduplicazione retorica», che «implica il riferimento raddoppiato ai due generi», come la formula, per intenderci, «cittadini e cittadine».

Alternative inclusive, del resto, sono già presenti nella lingua italiana (caratterizzata soltanto da due generi grammaticali, corrispondenti ai due sessi biologici): utilizzare forme neutre o generiche (ad esempio, «persone» al posto di «uomini») o ricorrere al maschile plurale non marcato (come nella frase «Ho tre figli», in cui non si esclude la presenza di una figlia femmina) purché, sempre a detta della Crusca, «si abbia la consapevolezza di quello che effettivamente è: un modo di includere e non di prevaricare». Se l’uso dello scevà, nella migliore delle ipotesi, è dunque inopportuno, perché la trasgressione dello studente invece di essere penalizzata (o per lo meno biasimata) è stata, al contrario, premiata? Il giovane ha sottolineato la spontaneità del suo agire, scevro da qualsiasi significato politico. Se sulla naturalezza della sua scelta non si hanno strumenti per muovere obiezione alcuna, nutrire perplessità sull’apoliticità del suo gesto è invece lecito.

Politica e «politicamente corretto»

Tutto è politica, si diceva un tempo. È perciò difficile immaginare che usare lo scevà in un tema d’italiano, contravvenendo alle regole della grammatica, non sia un atto politico (e ideologico). Un atto, come detto, che non ha suscitato particolare scalpore. Del resto, l’uso dello scevà, sostenuto da una minoranza rumorosa, sembra riscuotere, tutto sommato, il consenso dei media e delle multinazionali, nonché la benedizione del pensiero «liberal» (e globalista) dominante. L’azione di Gabriele Lodetti, presentata da alcuni quotidiani come coraggiosa, di coraggioso avrebbe quindi ben poco. Secondo il linguista Massimo Arcangeli, lo scevà non sarebbe motivato da una reale richiesta di cambiamento. Sarebbe semplicemente il frutto di un perbenismo superficiale, modaiolo e omologante: «Un conto è soddisfare legittime esigenze di riconoscibilità sociale, venendo incontro ai portatori di identità incerte o fluttuanti con le forme e le parole più adatte, un altro è pretendere che le norme linguistiche di un’intera comunità nazionale soggiacciano alla prepotenza di pochi, intenzionati a scardinarle con la generalizzazione di usi teratologici».

Come non pensare, a questo punto, a quell’ansia di pulizia assoluta (dal retrogusto moralista e un po’ fanatico) che anima i sacerdoti laici della cosiddetta cancel culture che, in nome di un politicamente corretto esasperante e incapaci di contestualizzare il passato storico, abbattono statue e censurano capolavori della letteratura? Gli esiti, a volte, risultano essere pure ridicoli. Penso all’arcivescovo di York che critica il «Padre nostro» perché evocativo del patriarcato o ai rimaneggiamenti a cui tempo fa sono stati sottoposti i libri di Roald Dahl. Ma, per rimanere nel seminato (e in una riflessione prettamente linguistica), penso a certi manifesti universitari che mi è capitato di vedere, dove la «i» di «studenti» viene sostituita dallo scevà quando, in realtà, essendo «studente» un participio presente sostantivato, basterebbe cambiare le preposizioni che lo precedono. E che dire degli asterischi al posto della «a» di «astronauta»? Risultati a mio avviso artificiosi (e grotteschi) che contribuiscono ad alimentare confusione e frustrazione.

Potere, lingua e società

Detto questo, si sa: le lingue evolvono, mutano. E non necessariamente «dal basso». Il lievitare degli anglicismi, per esempio, è un fenomeno che parte dall’«alto», dalle pressioni (e dal potere) di una classe dirigente che, attraverso i mezzi di comunicazione, introduce l’inglese e lo introduce senza se e senza ma. Fin quando, un giorno, anche chi l’inglese non lo ha studiato ripete parole come lockdown, spread, call e meeting. E allora niente di strano se fioriscono nuove pressioni ideologiche. Rimane però una domanda: tutto ciò giova alla sensibilizzazione delle coscienze e alla causa dell’inclusività? Nutro seri dubbi a riguardo.

Non sono convinto che lo stravolgimento della lingua italiana possa portare a una crescita culturale ed emotiva, a una diminuzione dei femminicidi o a delle agevolazioni per le mamme in carriera (in modo da conciliare senza troppi problemi figli e lavoro). Insomma, non credo che lo scevà sia trampolino di lancio verso i diritti civili (tanto meno verso quelli sociali, di cui nessuno ormai parla più). E per quanto l’italiano sia una lingua viva e quindi in perenne cambiamento, rimane essenziale l’osservazione di alcune norme, affinché, come diceva Tullio De Mauro , «gli interlocutori siano in grado di comprendersi fra loro». Forse, a rischio di risultare benaltrista, più che per gli asterischi sarebbe bene lottare in difesa del congiuntivo e del punto e virgola (e magari contro l’uso disgiuntivo di «piuttosto che»). Ne va della funzionalità della nostra lingua ma, soprattutto, della sua ricchezza e della sua bellezza, che nulla ha a che fare, dopotutto, con l’«insignificanza» racchiusa nel termine shĕvā.

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