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«Nina sull’argine» di Veronica Galletta, una donna in equilibrio fra cielo e terra

Intervista. Già vincitrice, con il libro «Le isole di Norman» (Italo Svevo Edizioni, 2020), del «Premio Campiello Opera Prima», Veronica Galletta, con «Nina sull’argine» (Minimum fax, 2021), si è guadagnata, lo scorso novembre, il «Premio Letteratura d’Impresa» della tre giorni «Festival Città Impresa», dopo essere stata tra i finalisti al «Premio Strega» 2022. «Volevo raccontare la storia di una donna che non fosse né eroina né alfiere di una parabola virtuosa, poiché sono convinta che, dopotutto, le parabole virtuose siano diventate forme incatenanti, modi nuovi per dire alle donne chi devono essere o cosa devono fare»

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Il romanzo, ambientato in un piccolo paese della pianura padana, parla di una giovane ingegnera, Caterina Formica, e del primo incarico importante assegnatole: la costruzione di un argine. Per la donna, il procedere dei lavori significherà fare i conti con le proprie paure e i propri fantasmi.

FR: Veronica Galletta, fin dall’inizio del romanzo, si può evincere come Caterina sia, fondamentalmente, una donna scissa, divisa a metà. Da un punto di vista lavorativo, svolge una professione socialmente codificata e accettata, eppure, per lei, pare non essere mai abbastanza. Una forma strisciante di invidia verso il mondo maschile, infatti, pare attraversarla senza pietà: la maggiore età e l’esperienza dei colleghi più anziani (Bernini, Morabito, Greppi) sono trigger potenti che la traghettano verso una sorta di sabotaggio dell’Io, spingendola a mettere continuamente in discussione la propria storia e il percorso di studi effettuato. Ce ne può parlare?

VG: Non direi si tratti di una forma di invidia, ma di codici. I codici, del resto, sono presenti all’interno di qualsiasi struttura, nell’amministrazione pubblica come nell’organizzazione aziendale. Penso, per esempio, alla cena di Natale, alla festa pre-pensionamento, ai benefits, alle sedie con i braccioli e a tante altre cose. Tutto possiede dei codici e, spesso, i codici all’interno di luoghi di lavoro a prevalenza maschile sono escludenti. È proprio il fatto di sentirsi esclusa e destabilizzata da quei codici che porta Caterina a volerli circuire e, infine, sabotare. E questo grazie alla sua enorme forza che le permette di possedere, in cantiere, uno sguardo diverso, capace di divenire soprannaturale. Sicuramente è un personaggio scisso. Del resto, la scissione fa parte in tutti i modi del romanzo, un racconto sul doppio, in cui emergono due dimensioni: una aperta e una chiusa; a unirle il viaggio della protagonista, che si sente soffocare in luoghi chiusi e apparentemente protettivi (la casa e l’ufficio) e, al contrario, si sente a proprio agio in un luogo aperto e libero (il cantiere).

FR: La scissione di Caterina è però, prima di tutto, quella con sé stessa. Da una parte c’è Caterina, capace di attivare «modalità seduttive o ricattatorie», e poi c’è invece Nina, ovvero «[…] l’altra Caterina. Quella che si fa calpestare». È così?

VG: Sì, e questo lo si può già notare dal titolo del romanzo, che reca il nomignolo (e, in un certo senso, l’alter ego) della protagonista. Un nomignolo che, durante il racconto fa capolino solamente due volte e è sempre messo in relazione (in negativo o in positivo) con il nome di battesimo della donna. Caterina vive un conflitto interiore che nasce da quello che lei sa fare, che, inesorabilmente, si scontra con quello che, intimamente, vorrebbe essere. Tutto ciò, ovviamente, ci restituisce una donna a tratti antipatica, a tratti contraddittoria, soggetta alla tristezza del dolore, dell’inadeguatezza e del fallimento. È quel che volevo rappresentare, ovvero una persona che avesse il diritto di essere vulnerabile e, a volte, pure un po’ ingenua. Volevo raccontare la storia di una donna che non fosse né eroina né alfiere di una parabola virtuosa, poiché sono convinta che, dopotutto, le parabole virtuose siano diventate forme incatenanti, modi nuovi per dire alle donne chi devono essere o cosa devono fare. Prima ci volevano tutte principesse, ora tutte guerriere. Io desideravo portare avanti un altro tipo di narrazione, oltre logiche retoriche sentimentali, vincenti o caratterizzate da un lieto fine. Perché l’esistenza non è mai facile, è fatta di problemi che, a volte, frenano il nostro cammino ma, nonostante ciò, si può lavorare, ci si può divertire, si può continuare vivere.

FR: «È un gioco di pesi e contrappesi, quello delle parti in un cantiere. Tirare una fune, osservare il movimento della carrucola, fermarsi, lasciar dondolare il carico, tirare di nuovo. Cedere un po’ di corda oggi, per ottenere un vantaggio in futuro». Queste poche righe, che si trovano a pagina 18, ci spiegano quanto l’ingegneria possa farsi allegoria della vita o ci parlano dell’origine della scrittura (e del processo creativo), compromesso fra esperienza e sentire?

VG: Mi interessava sottolineare (facendolo riverberare ed esasperandolo) come vede il mondo una mente ingegneristica. L’ingegneria si fa metafora certo, ma perché la protagonista ha un tipo di mentalità ingegneristica. Del resto, l’ingegneria, fra studio e lavoro, ha occupato trent’anni della mia vita: ha sempre avuto un grande fascino su di me, soprattutto quella idraulica fluviale. In qualche modo, volevo mostrare quanto potesse essere fantastica la parola della tecnica, cercando di lavorare sul suono e sulla lingua. E, nonostante abbia descritto un cantiere in miniatura, semplificato, mi pare proprio di esserci riuscita. Non solo perché quanto riportato su carta è coerente, ma perché, come detto, la selezione dei vocaboli si basa sulla musicalità: sapevo che solo grazie a essa sarei riuscita ad andare incontro al lettore. Ci sono tante ostilità e pregiudizi nei confronti della parola scientifica: volevo dare spazio a tutta la sua bellezza e a tutta la sua polisemia. Non un mero esercizio di stile, ma una pagina onesta. A proposito della scrittura, non credo sia un compromesso fra esperienza e sentire ma solo un modo diverso per conoscere il mondo.

FR: La dicotomia si manifesta anche a livello geografico: il Nord e il Sud, la città e la campagna, distanze fisiche che delineano, ancora una volta, un conflitto identitario. Caterina, di origini siciliane, pare non intrattenere più alcun legame con i posti in cui è nata e cresciuta ma, allo stesso tempo, non si sente particolarmente in simbiosi con la città settentrionale in cui vive. Ma la volontà di trovare un luogo da abitare (e, quindi, da poter chiamare casa) è forte in lei. A pagina 187, si dice: «[…] lei cerca sempre la stessa cosa. Un posto dove stare».

VG: Il tema dello sradicamento attraversa tutto il romanzo, dall’inizio alla fine. È una questione, questa, profondamente siciliana. A tal proposito, si dice che i siciliani sanno o di scoglio o di mare aperto, non ci sono alternative o mezze misure. Del resto, sia per chi sull’isola ci vive sia per chi ci vive ma non stabilmente, quello con la Sicilia è sempre un rapporto violento. Il mio primo romanzo l’ho ambientato a Ortigia. Non lo avrei potuto scrivere se fossi stata fisicamente lì; insomma, l’ho scritto non standoci. È proprio vivere da un’altra parte che permette di raccontare al meglio i luoghi. Chi si sradica, però, diventa, in un certo senso, una persona apolide, che non appartiene a nessun posto. Se penso a me stessa, quando mi domandano di dove sono, non so bene cosa rispondere. Alla fine, comunque, ho deciso di dirmi siciliana. Un po’ perché siciliano è l’accento che mi è rimasto, un po’ perché la Sicilia è il luogo con cui intrattengo il rapporto più contradditorio. La Sicilia è la mia terra non perché io la amo, bensì perché la amo e la odio. All’interno del libro, il tema del luogo in cui stare viene continuamente declinato e sarà il cantiere a farsi casa per Caterina. Nel lavoro e nelle relazioni troverà qualcosa che la terrà ancorata a sé stessa. Al contrario, la sua casa muterà in una casa delle ombre, una dimensione, come già detto, soffocante e ostile.

FR: Caterina è una donna che soffre anche perché il suo compagno, Pietro, se n’è andato. Pietro è un personaggio poco definito all’interno del romanzo, non certo a tuttotondo.

VG: Pietro ho voluto appositamente dipingerlo così: un’ombra, un riflesso nel vetro, una sagoma che non coincide con il ricordo che Caterina aveva di lui. Un qualcosa di fantasmatico e a tratti spaventoso.

FR: L’unica persona con cui Caterina riesce veramente a legare è il fantasma del cantiere, Antonio. I suoi consigli disinteressati, il suo carattere a tratti rude, a tratti dolce, ne fanno una personalità simbolicamente potente, che stride con quella del padre della protagonista, solo accennata, eppure debole e, forse, assente. Caterina è alla ricerca di una figura paterna?

VG: Io credo sia alla ricerca di un mentore. Penso di aver messo sulla carta una sorta di amico immaginario, una persona di fiducia che avrei voluto avere al mio fianco quando ho cominciato a lavorare come ingegnere. Il passaggio di competenze e saperi, infatti, è spesso un grande problema. Quando manca, ti senti estremamente solo perché capisci poco o nulla e ti capita di sbagliare. Ma attraverso Antonio ho anche esorcizzato la paura che ho sempre avuto quando mi recavo in cantiere, ovvero che qualche operaio morisse sul posto di lavoro.

FR: «Quando il pensiero si affaccia giù verso lo scavo, Caterina apre gli occhi, e smette di immaginare». Sono le parole finali con cui si conclude il romanzo, che, come detto, oscilla fra due piani, l’“aperto” e il “chiuso”. Ma queste due dimensioni non potrebbero celare una chiave di lettura diversa al racconto? «Nina sull’argine» non potrebbe essere, in realtà, una storia totalmente immaginata dall’unica Caterina che veramente esiste (quella passiva ed emotiva), se non il grande delirio, fra veglia e sonno, di una mente malata? Del resto, ci sono tanti indizi disseminati fra le pagine che avallerebbero un’ipotesi del genere: da quelli più espliciti (le visioni spettrali, la doppia personalità) a quelli meno visibili (un profondo senso di indeterminatezza che attraversa tutto l’intreccio, la fatica di pensare e, soprattutto, i due esami universitari mancati, che getterebbero un’ombra sul raggiungimento della laurea).

VG: A dire il vero, sono partita con l’idea di scrivere una storia totalmente realistica. Il fantasma è venuto da sé, quasi per caso. Finito di editare il racconto, inoltre, mi sono detta come in fondo nessuno avesse una prova dell’esistenza di Spina, come non ci fosse nessun collegamento evidente fra l’ufficio e il paese. Ciò che accade all’interno del cantiere, effettivamente, è sempre visto con gli occhi di Caterina e questo posto, per lei, diventa un luogo di evasione. Ma, come detto, non era nelle mie intenzioni insinuare nel lettore il dubbio che potesse essere tutto immaginato e gli esami sono semplicemente andati male ma sono stati superati. Ad ogni modo, è la prima volta che sento parlare del mio romanzo come di una allucinazione e, sinceramente, la trovo un’ipotesi molto affascinante. Del resto, un testo può portare a una pluralità di interpretazioni, indipendentemente dal volere iniziale dell’autore.

FR: Quanto di Caterina Formica c’è in Veronica Galletta (e viceversa)?

VG: C’è sicuramente il tipo di sguardo sul mondo e c’è la rabbia. Poi, ovviamente, l’amore profondo verso l’ingegneria.

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