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#allamiaetà: Le Piccole Ore, la scommessa vinta dei fratelli Mino e Toti Spallino

Racconto. Dalle Madonie a Zanica, da Milano a New York. La consacrazione di Mike Bongiorno e il centro artistico di Zanica, il paese che li ha accolti

Lettura 8 min.

Giochi tu che gioco anch’io / brava tu e bravo io / scommettiamo che poi si vedrà / chi sarà che vincerà. / Vinci tu o vinco io / non si sa / amore mio / scommettiamo che è solo un gioco / non soffrire per così poco”.

Scommettiamo. Scommettiamo che qualcuno si ricorderà della trasmissione televisiva “Scommettiamo”. Scommettiamo che qualcuno rammenterà che la conduceva Mike Bongiorno con tanto di avvenente valletta. Scommettiamo che a qualcuno tornerà in mente la sigla che portava lo stesso titolo del programma.
“Scommettiamo”.

Per la cronaca, “Scommettiamo” fu un gioco a quiz trasmesso ogni giovedì sera dalla prima rete Rai, dal 23 dicembre 1976 al 21 dicembre 1978 – l’audience della prima puntata fu il record italiano del tempo con 20.000.000 di telespettatori – condotto dal prodigioso gaffeur Mike Bongiorno con la valletta Sabina Ciuffini e le sue vertiginose minigonne, un’enorme audacia per quegli anni, sostituita poi da Paola Manfrin, che purtroppo non incontrò i favori del pubblico, e infine dalla più spigliata Patrizia Garganese.

Focalizziamo però la nostra attenzione sulla sigla: la canzone “Scommettiamo”. Scritta da Nicorelli, Gian Pieretti, Ludovico Peregrini (il famoso Signor No) e dallo stesso Mike Bongiorno: era cantata dal gruppo musicale italiano Le Piccole Ore, una formazione che veniva dalla terra orobica e apparteneva al classico filone melodico della musica leggera italiana. Nel gruppo emergevano però due fratelli la cui storia personale non partiva dalla bergamasca: Mino (al secolo Giacomo), il maggiore, e il fratellinoToti (Salvatore) Spallino erano infatti siciliani.

Incontriamo Mino. Cappello alla borsalino, sciarpa annodata artisticamente e modi signorili, lo sguardo profondo e il sorriso dolce. Nelle sue parole vibra solo una lontana eco dell’accento siculo, amalgamato nel dialetto orobico e addomesticato da decenni di vita bergamasca, ormai naturalmente la sua terra d’adozione.

Mino ci racconta anche del fratello Toti, parlando anche per lui, tanto che sembra di udire due voci. Scomparso prematuramente nel 2019, una perdita che Mino accusa ancora, “Toti era il vero artista tra i due, il musicista più dotato”. Erano molto legati, Mino e Toti, non solo perché fratelli ma anche per la comune grande passione per la musica e infine per aver anche abbracciato la stessa carriera imprenditoriale.

Noi venivamo da Geraci, un bel borgo delle Madonie. I nostri genitori invece erano di Castelbuono, un’altra cittadina a pochi chilometri di distanza. Una famiglia grande con ben nove figli. Anche se per quei tempi non era un fatto così particolare. Siamo siculi purosangue ma ormai legati a Bergamo da decenni. Anzi, più precisamente a Zanica” racconta Mino.

Da subito il rapporto con la nuova terra d’adozione è stato felice e fecondo, ma hanno anche mantenuto sempre vivo il legame con il luogo natio. Per entrambi i fratelli, l’amore per la musica è nato già in casa, quando erano piccoli: papà e mamma avevano entrambi una bella voce e cantavano insieme ai figli. Per di più, il fratello maggiore Angelo suonava la fisarmonica – da autodidatta; Toti fu quello che mostrò fin da piccolo una grande predisposizione per il mondo delle sette note: suonava chitarra e tastiere ma aveva anche una splendida voce. “Ho ancora a casa la sua prima chitarra classica e, quando la guardo, spesso mi sembra di vederlo ancora imparare a fare gli accordi”.

Toti aveva il talento naturale di chi non ha bisogno di molte prove per trovare il timbro giusto per cantare o per indovinare gli accordi migliori per l’accompagnamento. Padroneggiava il Minimoog, l’Hammond e le tastiere in generale.

Un parente di Geraci, che era carabiniere, un giorno fu coinvolto in uno scontro a fuoco. Per tutelare la sua l’incolumità, fu trasferito a Zanica. Si trovò bene sia dal punto di vista lavorativo che da quello umano. Perché non mi raggiungete? chiese ai miei genitori durante una chiacchierata. Detto fatto ed eccoci qua”. All’inizio, a parte papà che faceva il calzolaio, i fratelli si dovettero dedicare a lavoretti improvvisati. Come (quasi) ogni storia di emigrazione. Ma Mino e Toti intuirono subito che la loro nuova realtà poteva dare sbocchi proficui sia per il lavoro che per la comune passione. “Le Piccole Ore nascono nel 1967, quando io avevo 22 anni e Toti 18: a Zanica un gruppo che si chiamava I Maniaci – un nome orribile che cercai di cambiare subito – cercava un cantante e io afferrai al volo l’occasione; era un gruppo solido e ben conosciuto in ambito locale. Erano simpatici e suonavano bene”.

Così nacquero Le Piccole Ore. Mino avrebbe desiderato avere Toti al suo fianco, ma il talentuoso fratello aveva lacune tecniche. Lo mandò quindi a scuola dal maestro Ravasio in Piazza Pontida e, dopo qualche mese di accordi, solfeggi e scale, fu pronto per unirsi al gruppo. Era l’inizio del 1968. In quel periodo i musicisti impazzivano per il Minimoog, uno strumento complicato perché aveva tre oscillatori da accordare. “Toti riusciva ad accordarne due perfino dal vivo, una vera impresa”.

Erano anni felici e fertili per la musica giovanile: c’erano complessi musicali ovunque e distribuiti in cantine, pub e sale improvvisate. Bastava una stanza, qualche strumento musicale e si metteva su un gruppo.

Le Piccole Ore suonavano cover di nomi altisonanti e, tra queste, un pezzo lunghissimo di Alice Cooper, “Halo of Flies” dall’album “Killer”. “Il vinile dell’album è stato ascoltato così tante volte che ormai gracchia” ridacchia Mino. “Non cantavamo solo canzoni d’amore! Oltre a Cooper, anche Led Zeppelin, Deep Purple, Rolling Stones, Procol Harum. Tutti gruppi anglosassoni che ci permettevano di darci delle arie con l’inglese, che nessuno parlava”.

Portavano ovviamente i capelli lunghi e incolti come chiedevano i tempi e il mondo della musica giovanile. Le giacche invece avevano le frange stile Woodstock, era la tendenza dell’epoca.
I due fratelli sono svegli e non dormono appollaiati sul bel sogno romantico del gruppo musicale: ben presto scelgono di diventare anche imprenditori, aprendo una lavanderia industriale. Lavorano per gli alberghi, per i locali, per i privati e gli affari vanno bene.

Per quanto riguarda Le Piccole Ore, trovandoci nell’epoca delle balere, i ragazzi giravano per concerti ovunque ci fossero una sala o un palco invitante. Ma non si accontentavano solo della piazza di Bergamo: con il loro furgoncino Ford pieno di strumenti puntarono dritti verso il vicino di casa, grosso e ricco di opportunità. Milano.

In bergamasca – per esempio all’Europa di Nembro o al Kit Kat di Zingonia – pagavano di più, a volte anche il triplo. Però se vuoi fare il salto, non puoi prescindere da Milano”. Diventarono di casa al Roxy Club in Piazza Duomo e al Mitropa Club a Locate Triulzi, o alla Ca’ Bianca di Via Ludovico il Moro, tutti a Milano. Locali che tiravano. Le Piccole Ore non erano più tanto piccole. Avevano scavalcato la metà dei gloriosi e duri anni Settanta. Furono avvicinati da alcuni produttori importanti, quelli che ti facevano suonare nei posti giusti o che addirittura ti spianavano la strada verso la Registrazione. Per esempio, Lorenzo Suraci, il patron di RTL, li invitò a suonare a La Capannina di Marina di Ravenna: si trattava di un posto molto in, dove i giocatori di calcio andavano a divertirsi in estate in mezzo alla gente bene che ballava. Tanti concerti e tanti incontri importanti, tra i quali spiccava un certo Fabrizio De André. “Un grande uomo”, sottolinea Mino.

Suonavano sempre per lo più cover, poche le cose fatte da loro. Suonavano di notte e lavoravano di giorno. Tanta fatica ma anche tanta adrenalina. Un altro produttore, Sergio Censi li volle incontrare a Milano perché aveva un progetto per loro. “Partì tutto da lì. Cambiammo look: tutti in completo bianco. E trovammo la canzone giusta”. Cioè quella che sfonda: “Voglio amarti così”. Eravamo nel novembre del 1975. Mino ammette che però non venne subito bene: provarono infatti un sacco di volte a adattare un vecchio pezzo sudamericano intitolato “Solamente una vez”, ma senza mai trovare la giusta coloritura musicale. “Finché Toti ci mise la mano. Anzi, la voce”.

Il 45 giri uscì nel maggio del 1976 con etichetta Fonit Cetra e le nascenti radio libere aiutarono la sua diffusione sul mercato. “Voglio Amarti Così scalò le classifiche e vendette tanto – mi sembra qualcosa come settecentomila copie. Avevamo un super contratto e ormai eravamo entrati nel professionismo. Vendevamo più dei Ricchi e Poveri”. Cominciarono i concerti anche nel sud, sfruttando i tanti festival organizzati per le varie cause (partiti, associazioni, sagre). Mino ricorda con un sorriso malinconico quando suonarono, nell’estate del 1978 proprio a Geraci. Si affacciavano gli anni Ottanta e si sentiva il profumo dei soldi dopo la crisi.

Le Piccole Ore fecero quattro album (vinile) dal 1977 al 1988 e parecchi 45 giri di successo: oltre a “Voglio Amarti Così”, lanciarono “Bambina Mia”, “Donna Insieme A Me”, “La Tua Ombra”, “Una Storia Vera”.
Nel 1977 li chiamò Mike Bongiorno, ovviamente già figura iconica e potente della televisione italiana. Non solo suonavano bene, i ragazzi di Zanica erano puliti, educati e puntuali. Caratteristiche che piacevano al noto beniamino del pubblico. Non scrissero loro “Scommettiamo” ma ingigantì lo stesso la notorietà di un gruppo che aveva già piazzato i suoi colpi, così arrivò il momento di fare una vera tournée all’estero.

Toronto, Germania, Svizzera, Francia. Ma soprattutto un mese a New York e dintorni. Ci chiamavano gli italiani dall’estero anche se talvolta eravamo costretti a rifiutare a causa dei gravosi controlli antiterrorismo”. Erano gli anni delle Brigate Rosse. Nella Big Apple comprarono strumenti musicali da Manny’s, come i grandi gruppi – “tutti ci andavano, a cominciare da Jimi Hendrix”.
Era il 1978 e i ragazzi di Geraci e Zanica giravano per Milano con una fiammante Jaguar: quando il bolide giungeva di fronte alla casa discografica, il cancello si spalancava senza bisogno di farsi annunciare. Erano arrivati in vetta.

Tra radio, serate, studio, concerti e composizione, stavano insieme tutto il giorno e tutti i giorni. Eppure, riuscirono ad avere anche una vita privata – “un privilegio, per un musicista di successo”: Mino si era sposato nel 1974 e Toti lo fece nel 1978. A dispetto del successo musicale con relativo impegno, non abbandonarono mai l’attività imprenditoriale. Piuttosto la cambiarono: lasciarono la lavanderia e nel 1981 aprirono un negozio di musica a Zanica. Lo chiamarono Suono By Spallino: oltre a promuovere sul territorio iniziative e corsi, aveva al suo interno anche una scuola musicale.

Il negozio è stato un vero centro artistico per il paese. Zanica ci ha accolti come dei figli e noi abbiamo dato al paese arte e musica. Tutto ciò che abbiamo fatto è stato per passione e riconoscenza, pieni di voglia e di entusiasmo: abbiamo coinvolto grandi artisti come Renata Tebaldi – il famoso soprano – il maestro Arturo Sacchetti – il direttore artistico della Santa Cecilia di Roma con tutta l’orchestra – Enrico Intra, il grande pianista e jazzista milanese – l’altro jazzista Franco Cerri, Luigi Grechi (cantautore e fratello di De Gregori), la celebre Franca Valeri. Solo per fare qualche nome”.

Negli ultimi anni di attività, Le Piccole Ore diventarono un duo: i fratelli Spallino. Del resto, erano autonomi perché potevano contare su uno studio di registrazione e sull’abilità di Toti come polistrumentista. Avevano conosciuto negli anni precedenti i Pooh – “la ragazza di Fogli si chiamava Viola, prima di diventare Viola Valentino, ed era bellissima, da far girare la testa” – ma fu solo nel 1992 che si concretizzò un lavoro insieme: con Roby Facchinetti e Valerio Negrini composero la canzone “La Donna Giusta” (ma la firmarono solo Le Piccole Ore), pubblicata dalla Duck Records. Nel 2010 apparvero da Carlo Conti nel programma I Migliori Anni. Nel 2016 il Comune di Sirmione conferì loro un premio alla carriera. “La musica non è solo arte. Deve anche essere gestita a livello imprenditoriale. Il musicista deve fare tutto e non può fossilizzarsi solo sulle note”.

Mino oggi è in pensione – “l’attività imprenditoriale è stata portata avanti da mia figlia che da Zanica l’ha spostata a Bergamo e ora si chiama Ink Club” – fa il consulente commerciale perché gli piace e fa il nonno del suo adorato nipotino. “Sono soddisfatto. Forse non sono riuscito a godermi il successo fino in fondo perché ero impegnato su più fronti. Però negli anni ho coniugato lavoro e divertimento, fatica e passione”.

Hanno conosciuto e frequentato tanti nomi importanti della musica e della televisione italiane: Toto Cotugno, i Camaleonti, i Pooh, Cristiano Malgioglio, che “adorava Toti”. E poi i presentatori Daniele Piombi, Corrado che li invitò a Domenica in, Pippo Baudo in Rai e a uno spettacolo con Loretta Goggi in Veneto; Gianni Ravera, Vittorio Salvetti e altri.

Davanti a uno spritz, in una chiacchierata piacevole e piena di storie e nomi che si intrecciano, è stato bello rievocare una vita piena, quella di Mino (e indirettamente quella di Toti), fatta di fatica, voglia di fare soddisfazione e tanta musica. Alla fine dell’incontro ci si ritrova da soli a canticchiare “Voglio amarti così, eternamente / Voglio amarti ogni dì, con tutto il cuor / Solamente il tuo labbro sa dirmi le cose più belle / Solamente i tuoi baci san darmi la felicità”.

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