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Jazz, rock e tanto altro: la città ideale dei Pulsar Ensemble (e della loro “bi-batteria”)

Intervista. “Bizarre City” è il nuovo album del collettivo bergamasco di percussionisti e non solo. Tour immaginario in una città fantastica composta da mille influenze musicali diverse

Lettura 4 min.
Pulsar Ensemble a Libera la Festa 2019 (Claudine Strummer)

Un collettivo di bergamaschi che ibrida con intelligenza ed eleganza jazz, elettronica, prog, rock, world music e un’infinità di altre cose: sono i Pulsar Ensemble, felicemente a cavallo tra musica colta e pop, sperimentazione e fruibilità, percussione e melodia. Il loro nuovo lavoro, il secondo dopo l’esordio “Oddsquare” nel 2018, è uscito quest’anno e si intitola “Bizarre City” (è stato presentato il 9 ottobre scorso a Ink Club).

Sono nove brani che rappresentano altrettanti quartieri di un’immaginaria città ideale: un’idea che partendo da Platone, Ippodamo e Tommaso Campanella arriva a rappresentare un positivo contraltare alle distopiche “Dead Cities” dei Future Sound of London o alla metafisica “Perdition City” degli Ulver. Opere che pur nella diversità di intenti ed esiti, condividono la fascinazione iniziale del creare un luogo immaginario e/o musicale virtualmente abitabile dal fruitore/ascoltatore.

Abbiamo raggiunto per una chiacchierata la mente del gruppo Filippo Sala, approfondendo con lui nascita e orizzonti del progetto Pulsar Ensemble e come si compone la sua variegata misticanza sonora.

LR: Come nasce il progetto Pulsar Ensemble?

FS: Il gruppo nasce come quartetto nel 2014, l’idea era quella di fondare un “laboratorio” inerente al mondo della batteria e delle percussioni. Poi man mano siamo andati avanti le cose si sono ampliate e modificate. Se inizialmente si trattava di una cosa più sperimentale a livello timbrico e legata unicamente alla batteria, poi abbiamo iniziato a scrivere anche delle melodie aggiungendo strumenti. Così pian piano siamo entrati in una nuova fase, e ne abbiamo attraversate diverse. Nel frattempo anche la formazione è cambiata, e da quattro siamo diventati cinque (la formazione oggi è composta da Filippo Sala, Sebastiano Ruggeri, Stefano Grasso, Luca Mazzola e Jacopo Biffi, ndr).

LR: Come hai conosciuto gli altri componenti?

FS: Con Luca Mazzola ci siamo conosciuti nei Dadadang, un gruppo di percussioni in cui ho suonato per una decina di anni. Ora il gruppo non c’è più ma ha fatto la storia del teatro di strada. Sebastiano Ruggeri lo conoscevo da un bel po’, essendo amico di suo fratello. Gionata Giardina (che oggi non è più un componente della formazione ma di cui abbiamo parlato qui, ndr) era a sua volta batterista e già eravamo in contatto.

LR: Sei tu a scrivere i pezzi?

FS: Sì, io ho sempre scritto la musica, poi all’inizio gli arrangiamenti venivano fatti insieme mentre per questo disco mi sono occupato anche di quelli. La produzione artistica in questo caso è stata fatta da me e Jacopo Biffi, l’unico “non-batterista” del gruppo.

LR: Da dove nasce l’idea della città immaginaria alla base del disco?

FS: Ad essere sinceri è nata dopo: ho scritto tutti i brani, poi io e Jacopo abbiamo fatto una pre-produzione suonandolo tutto nella mia sala prove. Una volta avuti tutti i brani siamo andati a registrarlo, e lì ci siamo trovati in difficoltà con i titoli: non sapevamo come chiamare i pezzi di un disco che aveva dentro così tante atmosfere diverse ma che dal nostro punto di vista erano molto connesse tra loro. Così abbiamo costruito questa “Bizarre City”, una città ideale costituita da nove quartieri (un quartiere a traccia) e il disco ha preso questo titolo. Abbiamo scritto anche una sorta di racconto/introduzione.

LR: Sembra preso dalle “Città Invisibili” di Calvino: c’è qualche riferimento che vi ha ispirato?

FS: Chiaramente Calvino ci è venuto in mente, anche se in realtà è una cosa molto diversa. Di fatto non avevamo in mente nulla di particolare a livello di riferimento, abbiamo solo guardato ai pezzi che avevamo tra le mani.

LR: A livello di suoni e scrittura ti sei ispirato a qualcosa di particolare preso dai tuoi ascolti?

FS: Ci sono tantissimi riferimenti a gruppi che ascoltiamo e che amiamo: i Tortoise da sempre sono fonte di ispirazione; poi Big Beats Big Times, un progetto di questo mio amico turco che ha fatto a sua volta un disco che mi è piaciuto moltissimo e da cui ho preso alcune cose; c’è un pezzo ispirato ai Queens of the Stone Age (“Bizarre Secret”, con un ostinato centrale tra il primo e il terzo tema), poi sicuramente Don Cherry, i Radiohead, Brian Eno, i Neu! e i Jaga Jazzist.

LR: Mi hai citato parecchie cose anche un pochino più pop – inteso come musiche non strettamente “colte” – rispetto alla vostra proposta, che invece riprende tante cose da musica classica o jazz. Tu che formazione hai come musicista?

FS: Sono nato come batterista punk-rock, e ho suonato rock per una vita. Poi mi sono innamorato del jazz e ho iniziato a suonarlo. Alla fine ho mischiato le due cose, aggiungendoci anche una parte più “etnica” che mi è sempre piaciuta e che amo. Se senti il disco infatti è proprio un miscuglio di robe, ma di pop non c’è granché alla fine. Direi più post-rock, un po’ di ambient.

LR: Qualcuno degli altri ha portato qualcosa che a te mancava a livello di formazione e/o influenze?

FS: Jacopo Biffi viene da un mondo jazz, pur avendo a sua volta una formazione punk-rock, però poi si è specializzato in musica elettronica e ha portato nel gruppo tutta una parte che a noi mancava. Lui è arrivato a fine primo disco, facendo in tempo anche a registrare qualcosa. Luca invece è un batterista più rock, Sebastiano viene a sua volta dal jazz ma fa anche cose con cantautori più folk, anche se a suonato in una band post-rock decisamente importante a Bergamo come i Verbal. Stefano Grasso, l’unico che viene da Milano, proviene da un mondo più classico, contemporaneo, ed è un percussionista puro oltre che batterista, con tutta una serie di studi anche classici alle spalle.

LR: Hai parlato prima di fasi: c’è già qualcosa che ti lascia presagire in quale direzione sarà il vostro prossimo passo?

FS: Sto pensando a una serie di cose: vorrei riuscire a fondere l’aspetto percussivo che forse un po’ manca in quest’ultimo disco che abbiamo fatto (e che c’era all’inizio) con tutta la parte elettronica.

LR: Non ci sono molti progetti come il vostro, né in Italia né tantomeno a Bergamo. In che dimensione – provinciale, nazionale piuttosto che internazionale – vi vedi proiettati?

FS: Qui in Italia di spazi per la musica che facciamo noi ce ne sono pochi, ed è difficile lavorare con questo gruppo. All’estero non siamo ancora andati, ma sono convinto sin da quando il gruppo è nato che se riuscissimo ad andarci saremmo da un certo punto di vista più apprezzati e accettati. La nostra è una musica che oggi e qui in Italia non se la filano in molti.

LR: Detto questo, l’obiettivo che ti poni ora per il progetto?

FS: Farci conoscere anche all’estero, tant’è che abbiamo preso una persona che ci fa da ufficio stampa e che ha lavorato molto all’estero (prevalentemente Europa). E dall’estero per quest’ultimo disco sono arrivate delle recensioni molto positive: e recensioni vere, non di quelle che si limitano a fare il copia-incolla del comunicato stampa. È stato bello ricevere questi feedback e ne abbiamo ricevuti parecchi, anche da magazine importanti.

LR: Pensi che ci sia margine per guadagnarsi una fetta di pubblico più consistente anche qui?

FS: Vederci suonare dal vivo è uno spettacolo che comunque piace, e ha una serie di caratteristiche che difficilmente trovi in altri gruppi. Anche solo il fatto che ci scambiamo continuamente gli strumenti, che giriamo, che la batteria stia al centro del palco ma in realtà non sia nemmeno una batteria quanto piuttosto una “bi-batteria” suonata da due persone contemporaneamente una di fronte all’altra. Poi c’è sempre la paura di portare uno spettacolo che sia troppo complesso.

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