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Alle radici della musica con «T¥RSO»

Articolo. Il prossimo 21 maggio il collettivo sperimentale aperto, fondato da Luca Barachetti, debutterà all’INK Club con «Acufena», in apertura al gruppo «Officine Schwartz». Una performance che, attraverso l’uso della carriola preparata e con l’elettronica sperimentale, ci invita a filtrare il rumore del mondo e riscoprire il piacere di entrare in sintonia con noi stessi e con l’Altro

Lettura 5 min.

Per raccontare il progetto di Luca Barachetti voglio partire da una parola che ricorre spesso nelle sue risposte: «generativo». Generativo deriva etimologicamente da «genus» e indica l’origine, il punto da cui tutto ha inizio. Che, neanche a farlo apposta, è proprio ciò a cui tende il collettivo «T¥RSO», fondato da Luca insieme alla sua compagna, Alexandra Lagorio.

Il nome che si sono scelti trae ispirazione da un passaggio del «De Rerum Natura» di Lucrezio e dal «tirso» che, nella mitologia greca, è il bastone sacro di Dioniso, simbolo di fecondità e di rinvigorimento. La «¥» che sostituisce la «i», rappresenta, invece, la valuta dello yuan cinese e quella dello yen giapponese e nasce da una provocazione. Ovvero utilizzare un simbolo economico decontestualizzandolo dall’ambito capitalistico in cui si colloca abitualmente, per calarlo in una parola che si rifà alla vita, alla natura e alla fecondità, raccontando in modo ambiguo la volontà di «T¥RSO».

Un collettivo musicale aperto che vuole tornare a un’idea essenziale di musica, lontana dalle logiche competitive che caratterizzano il mercato discografico odierno, dall’ossessione per le views delle piattaforme di streaming che annichiliscono e mortificano la passione e il desiderio, che dovrebbero essere alla base della fruizione gioiosa e pura di ogni forma d’arte. «T¥RSO» propone una musica alternativa, parola certamente abusata negli ultimi anni. Ma che forse riacquista valore e dignità se calata in questo collettivo, dal momento che la musica di «T¥RSO» è poco prodotta e pensata a tavolino. Ciò è lampante sia nelle esecuzioni nelle quali prevale una forte componente di improvvisazione, che nella scelta di utilizzare strumenti musicali canonici e non canonici, come la carriola.

La performance con la quale si esibirà Luca Barachetti si intitola «Acufena» e nasce dalla sua convivenza quotidiana con un disturbo uditivo ad entrambe le orecchie – uno dei vari disturbi della sua malattia rara. «È un gesto sonoro e corporeo sul vivere con gli acufeni e con il rumore del mondo, che rende difficile il silenzio, la riflessione e l’autoconsapevolezza». «Acufena» cerca di creare attraverso i suoni prodotti dalla carriola preparata e dall’elettronica, il senso di malinconia che questi disturbi acustici possono suscitare in chi ne è affetto. Uno stato d’animo che, se ci pensiamo bene, possiamo rintracciare anche nelle persone comuni, i cui acufeni sono quei rumori da cui siamo continuamente disturbati, spesso per volontà e per pigrizia. Il cosiddetto «rumore del mondo», in cui siamo immersi quotidianamente.

«Acufena» è quindi un gesto di profondo altruismo, una performance che parte da un’esperienza intima e personale che diventa corale e che vuole aprirsi a tutti. «Perché tutti abbiamo bisogno di un silenzio essenziale e generativo per vivere bene».

Abbiamo fatto a Luca qualche domanda prima della sua esibizione.

CP: Raccontaci un po’ chi sei e come descriveresti il momento che stai attraversando.

LB: Sono Luca Barachetti, 39 anni, bergamasco con una lontana parentela brasiliana. Non ho mai pensato a descrivere questa fase della mia vita. Diciamo, in transizione verso una radura di possibilità.

CP: Come nasce l’idea di suonare una carriola?

LB: Nasce tanti anni fa, quando ero la voce di un gruppo che si chiamava «Bancale». Ad un certo punto, come a volte mi accade, mi è sembra normale che una band come la nostra, cioè con una chitarra, una batteria con delle lamiere al posto dei piatti e una voce che diceva parole più o meno riferite all’immaginario della pianura bergamasca, o più in generale della profonda pianura italiana, potesse avere sul palco una carriola, che per la provincia bergamasca è una sorta di oggetto apotropaico, ovviamente da percuotere selvaggiamente.

CP: Il collettivo aperto a cui hai dato vita si chiama «T¥RSO», il cui significato rimanda ambiguamente ad un’idea di fecondità. Quali sono le peculiarità che rendono la vostra musica generativa e imprevedibile?

LB: La nostra musica, per ora mia e della mia compagna Alexandra Lagorio, si basa sull’improvvisazione, quindi sull’imprevedibilità (che di per sé è generativa), sull’imprevisto, sul dialogo reciproco tra strumenti. Il tutto caratterizzato da una tensione verso tutto ciò che è “Altro”, inconoscibile, indicibile, che è poi una delle tensioni con la quale l’arte si genera, evolve, rinasce.

CP: La performance con la quale ti esibirai all’INK si intitola «Acufena» e si ispira al disturbo uditivo col quale convivi. Che rapporto hai col silenzio e che ruolo gioca la musica?

LB: Con il silenzio vero e proprio, cioè con l’assenza di suono o rumore, ho un rapporto nullo, perché i miei acufeni sono costanti e cangianti. Sto però scoprendo una forma di silenzio che sta, come dire, “al di sotto” della superficie degli acufeni. Succede quelle rare volte che riesco a raggiungere uno stato di concentrazione profonda. La musica è ovviamente filtrata dagli acufeni, ma credo non al punto da non averne una cognizione dignitosa. Inoltre la musica, come capita certe volte con «Acufena», mi permette di raggiungere quello stato di concentrazione di cui dicevo prima. Di recente mi è successo anche con la danza, durante un laboratorio per persone che non hanno mai danzato tenuto da Virgilio Sieni.

CP: In uno dei tuoi articoli hai scritto che l’acufene è in grado di influenzare la percezione del mondo. Qual è la visione delle cose che ti ha dato il convivere con questo disturbo?

LB: Gli acufeni influenzano necessariamente la percezione del mondo. Ad esempio, banalmente, con il fatto che fatico molto a sentire quello che le persone dicono, soprattutto quando la voce che ho di fronte ha alcune frequenze che il mio cervello, a causa della malattia rara che ho, non percepisce. Però, a parte questo, gli acufeni mi hanno aiutato a capire quanto il rumore del mondo, dei centri commerciali, il caos cittadino oppure quello che ci autoimponiamo per sfuggire dal silenzio (la musica, la tv sempre accesa, etc.), ci allontanano dall’autoconsapevolezza di sé, dal dolore e dalle difficoltà. Rendendoci spesso deboli e impreparati di fronte a ciò che può accadere. È quello che cerco di raccontare anche con la mia performance, provando a estendere a tutti questa esperienza personale degli acufeni. Perché quasi tutti, seppur in modo diverso dal mio, viviamo con degli “acufeni” che ci distraggono e ci allontanano da noi.

CP: Nei tuoi scritti ritorna il bisogno di riappropriarsi di un’autenticità spirituale che parte dalla consapevolezza di una materialità che colloca l’essere umano su un piano di parità rispetto agli altri esseri viventi. Che rapporto hai con la corporeità e con i limiti che definiscono l’essere umano?

LB: Con la corporeità ho un rapporto sacro, quindi etimologicamente parlando «separato». Credo che i gesti che compiamo (abbracci, carezze, baci e via dicendo) oggi siano inflazionati e abbiano perso un po’ il loro valore e il loro significato. Sono diventati molto convenzionali, come del resto è diventato molto convenzionale il primo approccio con un’altra persona. «Ciao, come va?», spesso non è una domanda che nasconde un reale interesse sullo stato di salute fisico e mentale dell’altra persona, ma un modo per rompere il ghiaccio. In generale posso dire di avere un rapporto molto stretto con il limite. Sia perché il mio corpo malato ha dei limiti, sia perché è dal superamento del limite che nascono molte cose negative del passato e del nostro tempo. Rimanendo all’oggi le guerre o il riscaldamento globale, per fare due esempi.

CP: Ultima domanda: quali sono le incursioni che immagini nel vostro collettivo che definisci «aperto» e i vostri progetti futuri?

LB: Ci sarà un’incursione al «Festival Clamore» fatta da me ai tubi sonori e da Alessandro Adelio Rossi alla chitarra. Saranno venti minuti di musica, come prevede il festival, di improvvisazione pura all’interno di un contesto che predilige il songwiriting in tutte le sue forme. Prossimamente organizzeremo dei ritrovi casalinghi con musicisti che stimiamo per suonare insieme improvvisando e vedremo cosa ne verrà fuori. Se sarà qualcosa di buono, cercheremo di proporlo pubblicamente. Infine per ora abbiamo una data in autunno al «Joe Koala», dove probabilmente presenteremo l’altra performance di «T¥RSO», intitolata «Chthulucene» per chitarra elettrica e carriola preparata. Poi ci sono tante idee che abbiamo in testa, ma vogliamo anche procedere con calma. Essendo un collettivo aperto, ne approfitto per fare un appello. Chi è interessato a «T¥RSO», magari dopo aver letto il manifesto pubblicato sul nostro sito, ci scriva. Siamo aperti a tutti, compatibilmente con il tempo e gli impegni che abbiamo. Musicisti, ma non solo!

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