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Cantautore e “affabulatore”: Roberto Vecchioni contro la mediocrità

Intervista. Chiuderà il Bergamo Festival con “Lezioni di volo e di atterraggio”, titolo dell’incontro di domenica 4 luglio alle 21 al Centro Congressi Giovanni XXIII e del libro uscito per Einaudi lo scorso ottobre. Il musicista milanese negli ultimi anni ama soprattutto parlare davanti al pubblico, nel segno delle parole che “salvano la vita”

Lettura 4 min.
Roberto Vecchioni (Matteo Bazzi)

Fernando Pessoa disse in un aforisma che “La letteratura, come tutta l’arte, è la confessione che la vita non basta”. C’è molto di Roberto Vecchioni – che su Pessoa scrisse la bellissima “Le lettere d’amore– in questa frase. Siamo partiti da lì per la nostra chiacchierata.

LB: Vecchioni, centinaia di canzoni e parecchi libri. Se diamo ascolto al suo amato Pessoa a lei la vita non è bastata…

RV: Pessoa aveva ragione. Dobbiamo però ricordarci che gli artisti di per sé non danno soluzioni alle problematiche dell’esistenza, semmai pongono domande e si occupano soprattutto dell’io, del proprio essere. Il loro e magari, quando va bene, quello di chi ascolta. Possono aiutare ad armonizzarsi con il mondo. Non c’è la ricerca della verità nell’arte, quella appartiene ai filosofi e agli scienziati.

LB: Pessoa significa letteratura. Letteratura in qualche modo significa Vecchioni. Lei nelle sue canzoni l’ha utilizzata spesso.

RV: È il mio grande amore per la cultura, per la letteratura classica che ha stabilito degli archetipi sul nostro modo di vivere, su certi sentimenti, cose che sono valide ancora oggi. Ho anche cantato spesso i grandi personaggi della storia, che a volte erano anche letteratura e a volte no.

LB: Cervantes e Rimbaud, giusto per citarne due. Ma anche Alessandro Magno, che lei trasfigura in un uomo che vuole superare il limite, cioè il mare, e annega con tutto il suo esercito.

RV: Sono figure che prendo come spunto iniziale, soprattutto quando noto in esse qualcosa della mia persona, che magari va bene anche per tutto il mondo. Sono personaggi universali, spesso entrati nell’immaginario comune. Io prendo queste figure da un angolo particolare, magari raccontandone una debolezza o una sofferenza, in modo che ci si possa riconoscere, perché c’è un elemento che dice qualcosa a tutti noi.

LB: Ma le parole delle canzoni e dei libri possono salvarci?

RV: A me le parole hanno salvato la vita e conosco tante persone per cui è stato così.

LB: E possono anche cambiare il mondo?

RV: In linea di massima direi di sì: possono salvare le nostre vite e teoricamente anche il mondo. Il problema è che il mondo con l’andazzo che ha non si salverà, perché continuiamo a rimandare problemi che dovremmo affrontare oggi. La globalizzazione, la crisi economica, l’ambiente sono tutte questioni fondamentali su cui non facciamo niente oggi, tiriamo a campare, magari facendo peggio domani.

LB: De André, Gaber, Jannacci, Dalla, Lolli non ci sono più.

RV: E sono diversissimi uno dall’altro.

LB: Fra i cantautori che hanno fatto la storia della canzone d’autore siete rimasti lei, Conte De Gregori, Venditti e altri minori (ma non per qualità, uno su tutti: Locasciulli). Guccini e Fossati si sono ritirati. C’è l’eredità, ma non ci sono gli eredi.

RV: Forse non possono esserci. Siccome io sono un vecchio realista mi permetto di dire che se non cambiano l’economia e la società sarà difficile che ci siano dei cambiamenti profondi e di spessore in ambito artistico. I giovani d’oggi hanno una modalità di comunicazione molto diversa dalla nostra di allora e anche di oggi: più veloce, più dinamica, trasmettono quattro o cinque concetti e basta, spesso senza una visione storica.

LB: Quindi trap, rap e it-pop bocciati in toto?

RV: Le canzoni di oggi non sono quelle di una volta. Non sto dicendo che siano brutte, anzi, molte sono fatte bene. L’indie, il pop come viene inteso oggi. Però sono diverse, parlano ad un altro pubblico in un altro tempo. Guccini o De André sono più universali di tutti i rapper attuali, ma sono periodi, e quello dei cantautori aveva la possibilità di andare oltre il proprio tempo per varie ragioni sociali e politiche, oltre ovviamente alla qualità dei brani. Forse ora no, dobbiamo attendere che le cose cambino prima nella società. Intanto la musica di oggi si limita a rispecchiare il tempo che stiamo vivendo.

LB: Accanto al Vecchioni cantautore negli ultimi anni è nata la figura di un Vecchioni “affabulatore”…

RV: Ha ragione. Col tempo hai dentro così tante cose da dire e senti l’esigenza di raccontare tantissimo. Le canzoni non bastano, devi “cantare” la parola in modo parlato. A me fa bene e penso faccia bene anche al pubblico, lo dico per la reazione dei ragazzi a cui vado a parlare, per il pubblico nelle piazze e per quello che trovo alle presentazioni dei libri. Una canzone arriva in modo più limitato, magari solo a chi ti conosce già bene. Invece parlare ti permette di incontrare e di dire delle cose a gente che magari non sa di te più di tanto. E magari puoi parlare davanti a mille, duemila persone, se non addirittura in tv dove i numeri sono enormi. Sono contento, come dice lei, di “affabulare”.

LB: Lei però è un grande comunicatore anche sul palco: i gesti e le espressioni del viso con cui canta le sue canzoni. Ma anche quella capacità tutta francese di “porgere” le parole. C’è molto mestiere, ma anche tanta naturalezza…

RV: Un po’ di mestiere c’è certamente, ma soprattutto ciò che ho dentro mi spinge a fare certi gesti e ad avere certe espressioni facciali, magari perché le canzoni mi ricordano un momento della mia vita e si portano dietro degli stati d’animo.

LB: Insomma Vecchioni, o dell’interpretazione.

RV: Quando sei lì sul palco di un teatro hai la gente davanti, non la vedi ma c’è e devi stabilire un contatto. In tutto questo la canzone è solo una parte dello spettacolo, dipende anche come la canti, come la presenti, come la spieghi, come la commenti. Come la vivi in quel momento. Chi ti viene a vedere di solito le canzoni le sa quasi tutte. È il resto che conta molto. I miei musicisti, che mi vengono dietro da centinaia di concerti, dicono che non canto mai le canzoni allo stesso modo, neanche la stessa “Luci a San Siro”, che potrei cantare in automatico, in realtà ogni volta ha delle sfumature diverse. A me questa cosa fa molto piacere.

LB: Ha intitolato il suo penultimo disco “Io non appartengo più”. È ancora così?

RV: La mia appartenenza politica è nota, anche se è più ideale che pratica. Il problema è che io non ho più voglia di ascoltare il cicaleccio di persone che credono di sapere tutto. E poi l’invidia che serpeggia tra la gente, la tristezza diffusa, l’impossibilità di dire una parola senza che una marea di gente davanti a uno schermo faccia dei commenti stupidi e inutili, se non volgari. Invece dovremmo pensare al rispetto che dobbiamo agli anziani e al rapporto paritario e preciso che dobbiamo avere con le donne. Contro questo tipo di mondo, che per fortuna io credo sparirà, ci posso combattere contro, e lo faccio, ma non me la sento di appartenere a questa mediocrità diffusa, a una realtà che è spesso incolta e poco intelligente. Forse, più di tutto, vi è la mancanza d’intelligenza, di stare in silenzio quando serve.

Tutti gli eventi sono ad ingresso gratuito con prenotazione online.

Sito Bergamo Festival

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