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Carlo «Skizzo» Biglioli: nell’«OmegaBar» giochi di parole e canzoni d’amore per Bergamo

Intervista. Il nuovo disco dell’ex Famiglia Rossi è tutto dedicato alla nostra città, con brani pieni di leggerezza, voglia di vivere e testi “a specchio” che sono un enigma dietro l’altro. A supportarlo una band formata da alcuni dei migliori musicisti bergamaschi. Per un disco divertente e curioso da parte di un songwriter con il cervello sempre in movimento

Lettura 6 min.
Carlo «Skizzo» Biglioli

Con Carlo ci troviamo sulla chat di Skype per fare una lunga chiacchierata su un disco che è già stato presentato due volte dal vivo all’Ink Club (che con il marchio Do Ink Yourself produce e fa da etichetta) e allo Spazio Polaresco. Gli aspetti da sondare nel labirintico «OmegaBar» («un anagramma di “A Bergamo”, un’indicazione geografica, ma anche una dedica nascosta») sono tanti. Tutto è nato da un mare «che non c’è».

LB: «OmegaBar» nasce dalla canzone «Dal mare che non c’è» che hai scritto con Osvaldo Schwartz durante i mesi più duri della pandemia.

CB: Erano appena passate in tv le immagini dei camion che trasportavano le bare, e Osvaldo mi ha chiamato. Voleva fare qualcosa che fosse una testimonianza per i nostri morti, ma non voleva che fosse una cosa deprimente. Mi ha chiesto di collaborare, e insieme abbiamo coinvolto Ennio Ravasio (Arpioni, Orobians...). La canzone è stata compilata da me, dopo aver ascoltato diversi stimoli (comunicavamo in chat o per email). Lo sforzo di scrittura è stato immane, perché era la classica materia sulla quale come parli rischi di sbagliare. All’inizio volevo rifiutare, ma un amico, che su quei camion aveva entrambi i genitori, mi ha incoraggiato a farlo. Alla fine il risultato, secondo me, è buono: niente frasi strappalacrime, niente riferimenti precisi a Bergamo, ma un testo che chiunque avesse vissuto qui quel periodo capiva immediatamente. Da lì è nata l’idea di un disco totalmente dedicato a Bergamo. Se ero riuscito a scrivere su quella tragedia, potevo farcela a scrivere qualcosa di più leggero...

LB: Un disco come una dichiarazione d’amore a Bergamo, dove le canzoni parlano d’amore impersonandosi in alcuni aspetti della città.

CB: Sì, dal mio punto di vista sono due livelli di lettura diversi. La sfida era proprio quella di scrivere canzoni che avessero pienamente senso per ascoltatori italofoni di qualsiasi luogo, ma che prendessero altri significati per i bergamaschi, senza mai citare la parola «Bergamo». L’esempio più immediato è «In Long Well Town», dove racconto una storia d’amore che nasce a Colognola (ma è il nostro quartiere o la più famosa Colognola ai Colli, in Veneto?), raggiunge l’apice a Loreto (qui o nelle Marche?), entra in crisi a Monterosso (qui o alle Cinque Terre?) e finisce a San Paolo, a tempo di samba. Chi non è di Bergamo pensa immediatamente a scenari diversi, ma la storia resta quella, il dubbio al limite è capire se è ben raccontata, se ognuno può provare certe emozioni ascoltandola.

LB: Non avevo colto questi doppi significati anche nei luoghi, oltre ai tanti giochi di parole che ci sono nei testi di questo disco e nel precedente «La scomparsa dell’Uomo invisibile».

CB: Io sono sempre stato appassionato di calembour, li ho anche sempre inseriti, nelle mie canzoni come in quelle della Famiglia Rossi. Il disco precedente è stato un punto di svolta, perché volevo vedere se mi riusciva di scrivere tutto un album basato su giochi linguistici, forse anche a causa del fatto che, col passare degli anni, ho sempre meno voglia di scrivere «da cantautore», cioè facendomi ispirare da quello che mi succede dentro o intorno. Amo scrivere su commissione, svolgendo un tema. Bergamo era il tema che riuscivo a darmi da solo. Del resto mi sembra di capire che, in Italia, in questi ultimi dieci anni, complice l’affermarsi del rap, il gioco di parole è diventato di moda. Da una parte può essere il segno di un certo nichilismo poetico (la perdita del significato), ma dall’altra potrebbe essere anche un tentativo più o meno conscio di usare il metalinguaggio per trovare nuovi significati al discorso.

LB: Nel tuo caso parlerei di metalinguaggio per trovare nuovi significati. Come mai hai sempre meno voglia di fare il cantautore “classico”?

CB: Non saprei. Forse, perché invecchiando, riesco sempre meno a prendermi sul serio, ad illudermi di avere qualcosa di necessario da raccontare.

LB: Però in qualche modo, permettimi, esci dalla porta e rientri dalla finestra: nel senso che si capisce bene che «non vuoi fare il cantautore», tuttavia alla fine qualcosa da raccontare ce l’hai. A cambiare semmai è il modo: stai cercando di scrivere canzoni che non siano necessariamente lineari, ma abbiano un significato in “3D”...

CB: Vero, anche Valerio Baggio, dal suo punto di vista, strettamente musicale (e lui ne sa), mi ha fatto notare che sto cambiando stile compositivo. Probabilmente sto cambiando ora, più di quanto abbia fatto negli ultimi vent’anni.

LB: Tornando alle canzoni del disco, oltre a quelle d’amore ci sono due eccezioni: quella già citata «Dal mare che non c’è» e «La aca», giocata sul celebre scioglilingua bergamasco «A chèla aca la che la ‘a ‘n chè cà là», che per Bergamo è molto caratterizzante, sia in senso identitario, sia per l’impressione che dà all’esterno. Di una lingua rozza, una specie di finto arabo…

CB: Beh, quel brano è nato nella mia classe alla scuola dell’infanzia. Volevo far cantare ai bambini una canzone sul meccanismo botta e risposta (tipo «Cab Calloway» nei Blues Brothers, per capirci), e siccome lavoro in un territorio ad altissimo tasso di immigrazione, l’effetto di vedere bambini di ogni provenienza uniti nel cantare in bergamasco mi sembrava stimolante. Quando ho ragionato sul disco, ho pensato fosse una canzone da inserire, perché utilizza il dialetto, è vero, ma come una lingua straniera, e il presupposto «comprensibile a Bergamo ma equivocabile in tutta Italia» mi sembrava rispettato. Poi, siccome sono un autentico pirla, ci ho aggiunto un coro iniziale che facesse il verso alla Aka dei Maori (la danza di guerra resa famosa dagli All Blacks), giusto per aumentare le possibilità di fraintendimento.

LB: Alcuni giochi di parole sono molto raffinati, penso a quello di «Dea», dedicata all’Atalanta: «in questa notte stellAta / L’Antares brilla neanche la metà di te». C’è molta ricerca dietro questi risultati?

CB: La ricerca c’è stata, quasi per ogni canzone. Per «Dea» ho dialogato con i Miners e i Prodotti Locali, alcuni ragazzi della curva (e del giro hard-core made in Bg, presentatimi da Dimitri dell’Ink, che fra le altre cose ha prodotto il disco), facendomi raccontare alcune parole chiave, luoghi, passioni e sensazioni che io non conosco bene, perché non amo particolarmente il calcio. Mi sono appassionato all’Atalanta perché ho una moglie ultrà (!) e perché, durante i giorni della pandemia, ho capito il suo valore comunitario (malgrado fossimo tutti tappati in casa, ragionevolmente spaventati, vederla impazzare in Champions League era un toccasana). Il ritornello della canzone è nato come un coro da stadio, e recitava esplicitamente «Atalanta», ma poi ho sostituito con vari aggettivi, per uniformarmi al tono del disco. Comunque, per tornare alla tua domanda, come hai detto, la ricerca effettivamente c’è stata, ma sicuramente per il mio tipo di scrittura essere “bigolo” è un aiuto.

LB: Pure l’associazione tra la Morla e l’amor, che genera questa canzone-slogan sul potere salvifico dell’amore nasce da un gioco di parole. Anche qui: perché una canzone sulla Morla?

CB: Prima di tutto, io sono un habitué del Morla Bistrot, di via Giulio Cesare, e il primo nucleo della canzone è nato proprio lì, dai versi «L’amore come tutti sanno è femmina / l’amor l’amo... la Morla va». Del resto «Morla», per quelli della mia generazione, era qualsiasi fosso o fogna a cielo aperto, nemmeno sapevo che fosse un fiume, fino a quando, negli anni ’90, il comune di Ponteranica ne ha bonificato il primo tratto. Mettere insieme romanticismo e Morla mi sembrava una bella sfida! Nel testo ho inserito, mascherandole, alcune informazioni geografiche (raccolte più che altro dal lavoro eccellente di Nicola Eynard) e anche i nomi dello staff del bar.

LB: Volevo parlare un momento anche della parte musicale di questo disco. Hai costruito una super band, che coinvolge almeno un paio di generazioni di grandi musicisti bergamaschi (Robi Zonca, Valerio Baggio, Matteo Milesi, giusto per citarne alcuni) e artisti (Dulco Mazzoleni che ha realizzato la copertina e Carlo Capitanio la grafica).

CB: Quando avevo in testa una bozza del disco (due o tre pezzi pronti e tante idee sparse) mi sono chiesto a che condizioni assumermi lo sbattimento di produrlo, se poi qualsiasi disco ben arrangiato tu faccia, quando lo porti come spettacolo nei club, devi uscire a presentarlo one-man-band, o al massimo in duo, perché questo è il “mercato” attuale, a un certo livello di investimento. Allora ho cercato Ink (nessuno me ne voglia, ma la miglior realtà bergamasca per la musica dal vivo), e ci siamo accordati per dare un respiro live al lavoro, cioè, una volta prodotto l’album, garantire un certo numero di concerti pagati per i musicisti. Questo significava trovare finanziamenti. Inizialmente abbiamo cercato di entrare in «Bergamo Brescia capitale della cultura», ma nessun bando era adatto alle nostre caratteristiche, infatti abbiamo dovuto ridimensionare il progetto.

LB: È un peccato, non aver trovato uno sbocco…

CB: La «super band» nasceva dal desiderio di registrare “vecchia scuola”, cioè dal vivo in studio, almeno per l’ossatura degli arrangiamenti. Utilizzare musicisti molto esperti implica dover fare meno prove e sessioni di registrazione (risparmiando tempo e denaro), e poi ad eccezione di Paolo Legramandi, col quale non avevo mai lavorato, sono comunque tutti amici, e so che c’è reciproca stima e voglia di collaborare. Le collaborazioni sono meno di quelle che avevamo progettato (sempre per problemi di tempo e di revisione del budget), ma sono significative. Giovo Dust lo conosco da quando è nato (è figlio del mio amico Ennio) e la sua creatività è palesemente deliziosa, Max Milesi (sassofonista pazzescamente bravo e versatile) aveva già collaborato con la Famiglia Rossi, e sapevo che avrebbe fatto un ottimo lavoro. Osvaldo ed Ennio erano già «fieno in cascina». La spinta a collaborare e a mischiare le generazioni è stata soprattutto un portato della produzione made in Ink, che per me, al di là della scelta dei musicisti, è stata ed è fonte di continui apprendimenti e cambi di prospettiva.

LB: «OmegaBar» è stato presentato già due volte dal vivo. Com’è andata? E ora cosa ti aspetti?

CB: Dal vivo direi che “spacca”. La gente sembra contenta di farsi coinvolgere nel gioco. Tra l’altro, essendoci “gemellati” con i CircoStanza in questa prima parte del tour, oltre a poterci presentare ad un pubblico più giovane del nostro solito, abbiamo temporaneamente sostituito Paolo al basso (che è spesso in tour per l’Europa) con Manuele Mariani, che è bravissimo, e sta dando anche una bella svecchiata al nostro aplomb da vecchi boomer brontoloni. Sono in previsione ancora un paio di date in primavera, poi, in estate, dovremmo riuscire a suonare in alcuni festival, ma è tutto ancora top-secret. Se poi si dovesse riaprire la partita dei finanziamenti, abbiamo pronte idee per un secondo capitolo più aperto a tutta la provincia. Per il momento «L’Isola» è l’unico brano esplicitamente extra-città.

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