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Dal reggae al folk acustico, il mondo incantevole di The Sleeping Tree

Intervista. Il bassista dei Mellow Mood torna con il suo progetto solista a ben otto anni dal suo ultimo disco. Potremo sentirlo live venerdì 22 aprile all’Ink Club

Lettura 6 min.
The Sleeping Tree

Abbiamo dovuto aspettare ben 8 anni per poter sentire un nuovo lavoro a nome The Sleeping Tree: il progetto solista di Giulio Frausin, bassista dei fortunatissimi Mellow Mood (tra le realtà reggae più valide e internazionali del nostro Paese), era fermo dall’ultimo «Painless» del 2013. Il 4 marzo di quest’anno è invece finalmente uscito «Timeline», un nuovo album per La Tempesta Dischi che verrà presentato all’Ink Club venerdì 22 aprile. Folk acustico chitarra e voce, per un’identità artistica diversissima dall’attività come bassista nel suo gruppo madre. Anche se i punti di contatto tra le sue due anime sono più di quanto si potrebbe immaginare. Abbiamo raggiunto Giulio per una bella chiacchierata sulla sua lunga pausa, sul suo nuovo disco, sulla sua formazione e sullo stato di salute del suo progetto.

LR: Sono passati circa otto anni da «Painless», il tuo ultimo lavoro: come mai così tanto tempo? So che nel frattempo le cose con i Mellow Mood sono andate avanti a gonfie vele, come mai invece il tuo progetto solista è stato messo in stand-by?

TS: Quando è uscito «Painless» nel 2013 ho continuato a fare date come The Sleeping Tree fino al 2015. Quell’anno feci poi uscire un piccolo EP di remix da «Painless», intitolato «Colours». Nello stesso tempo la mole di lavoro con i Mellow Mood aveva iniziato a essere così impegnativa che ho preferito dedicarmi interamente alle loro uscite e al tour con loro, oltre a tutta la parte relativa a La Tempesta Dub. Quindi volevo aspettare un momento propizio per tornare come The Sleeping Tree: quando avrei avuto la testa sgombra.

LR: Questo momento quando è arrivato esattamente?

TS: Per “tragica” combinazione ormai due anni fa i Mellow Mood hanno fermato il tour a causa del covid, e io mi sono trovato a casa con del materiale scritto nel frattempo. Da un punto di visto compositivo non sono mai rimasto fermo. Così ho deciso che fosse il momento giusto per pubblicare qualcosa. Ci ho messo un po’ a registrare questo disco perché inevitabilmente la logistica di questi ultimi due anni non era proprio facile, dovendo incastrare i momenti in cui potersi spostare. Alla fine comunque ce l’ho fatta, ed ecco qua.

LR: The Sleeping Tree che troviamo adesso in «Timeline» quanto è diverso da quello che avevamo lasciato nel disco precedente?

TS: Non c’è stato nessuno stravolgimento del progetto: sono sempre canzoni di folk/cantautorato acustico. Però sicuramente è molto cambiato il mio approccio alla scrittura, perché ho cercato di capire in questi anni cosa mi piace scrivere e cosa mi piace suonare, quali sono le mie debolezze e i miei punti forti. Quindi c’è stato questo lavoro di presa di autocoscienza artistica, e poi sono anche cresciuto da un punto di vista emotivo. Le sensazioni che provo sono diverse: ora sono un uomo più maturo, che accetta le cose che succedono in maniera diversa.

LR: I pezzi “vecchi” erano in sostanza delle tue esperienze soggettive oggettivate in modo che anche l’ascoltatore potesse ritrovarcisi. La prospettiva è sempre quella?

TS: Sì, perché alla fine è il mio modo di leggere la realtà. Però allo stesso tempo ho sentito questo grosso cambiamento: anni fa ero convinto che la mente potesse dominare in qualsiasi momento ciò che ci circonda. In un certo senso ero estremamente propositivo nella ricerca di un atteggiamento che ci permettesse di trovare il bello in tutte le cose. Adesso, forse alla luce delle cose successe negli ultimi anni, mi sono reso conto che ogni tanto la sfiga arriva, indipendentemente da quello che può essere il nostro spazio emotivo e la nostra voglia di affrontare le cose con il sorriso. I momenti difficili arrivano, per tutti. Penso soprattutto a quello che è successo negli ultimi due anni, in particolare proprio a Bergamo. Quindi forse la sensazione che ho voluto trasmettere non è stata tanto un incoraggiamento quanto piuttosto una sorta di abbraccio collettivo a noi che siamo rimasti dopo la tempesta.

LR: Possiamo quindi dire che è il tuo primo disco in cui ci sono delle infiltrazioni da quello che accade fuori, da un contesto “mondo” più allargato?

TS: Sicuramente sì.

LR: Durante il lockdown la reclusione forzata in casa ti ha permesso di scrivere con più tranquillità? Come hai vissuto la cosa?

TS: In realtà gran parte del materiale esisteva già, quindi non sono andato a scrivere tanto. Da un punto di vista compositivo melodie e armonia erano già nate, o comunque abbozzate. Ho avuto sicuramente un anno e mezzo di tempo, quasi due, per mettere mano ai testi e lavorare sugli arrangiamenti. Cercavo di arrivare in studio il più pronto possibile, senza improvvisare niente in fase di registrazione o missaggio. Avevo un’idea molto chiara di dove volessi andare. I due anni a casa mi hanno permesso di ri-registrare i demo tantissime volte, finché non fossi soddisfatto.

LR: Il fatto di riportare live una dimensione diversa da quella che trovi con i Mellow Mood che effetto ti fa? Sei carico?

TS: Sono molto carico, anche perché con Mellow Mood la dimensione “professionale” è molto valorizzata: andiamo all’estero, facciamo tour molto impegnativi su palchi molto grandi, siamo una compagine numerosa. Il concerto di The Sleeping Tree è un’esperienza molto più personale, in cui spesso viaggio da solo e sono più vulnerabile rispetto a tutte le variabili di un tour. La solitudine è una cosa che mi piace anche perché approfitto di questi concerti per rincontrare degli amici che ho nelle varie città. Mi piace moltissimo rimanere a parlare dopo il concerto con chi viene a sentirmi. Questa cosa nei tour più grandi inevitabilmente viene a mancare, ed è invece il piacere più grande che ho suonando come The Sleeping Tree.

LR: Personalmente sono molto affezionato al tuo «Colours», trattandosi della mia prima recensione musicale che feci come “provino” per una webzine: di fatto fu simbolicamente l’inizio del mio percorso. Pensi di ripetere un esperimento simile in futuro, dando una veste elettronica ai tuoi pezzi e magari facendo mettere mano ad altri negli arrangiamenti?

TS: Questo non lo so. In questi giorni piuttosto mi sto domandando se – essendo «Timeline» più “arrangiato” – mi piacerebbe suonare questi pezzi con qualcun altro sul palco. Mi piacerebbe poter avere qualcuno che suona gli arrangiamenti che ho pensato io, per vedere se le idee che ho avuto suonano altrettanto bene anche se eseguite da terzi. Quel che è certo è che vorrei non far passare così tanto tempo prima di un nuovo lavoro.

LR: Quali tuoi ascolti recenti sono entrati nel disco?

TS: Tantissimi. Ho ascoltato moltissimi autori miei coetanei soprattutto americani che mi hanno illuminato la via: soprattutto i Fleet Foxes, Andy Shauf, Bonny Light Horseman, Angelo De Augustine. Queste sono le cose che mi hanno spinto di più nell’ultimo periodo. Ah, ovviamente ascolto sempre tantissima reggae music.

LR: Sempre progetti di matrice anglosassone quindi. L’italiano tu lo bazzichi poco…

TS: Sarà che ho passato molti anni all’estero, che negli ultimi anni ho viaggiato molto: credo di essermi fatto un po’ l’orecchio. Ci sono artisti italiani che ascolto: l’ultimo disco italiano che ho ascoltato molto è stato quello di Giorgio Poi. Però effettivamente sono più affezionato alla musica inglese e americana.

LR: Da dove viene la tua preparazione alla chitarra?

TS: Non sono diplomato al conservatorio, ma ho iniziato a studiare la chitarra quando avevo circa 8 anni e ho proseguito fino all’università. Quello è stato lo strumento su cui ho speso le ore da ragazzo, il basso è arrivato dopo. L’altro giorno parlavo con un amico che diceva che forse il contrario sarebbe stato più difficile.

LR: Sei venuto tante volte a suonare a Bergamo: ti ho visto una volta sulle mura di Città Alta, un’altra volta all’Edonè. Come ti trovi qui?

TS: Mi trovo molto bene perché riconosco una certa sintonia tra bergamaschi e pordenonesi: alla fine siamo montanari tutti quanti (ride, ndr). Ma ho imparato che, a differenza di Pordenone, Bergamo è proprio una bellissima città. Ho un mio carissimo amico anch’egli di Pordenone, che vive a Bergamo: la prima volta che sono venuto a trovarlo e ho visitato Città Alta quasi non ci credevo. Ero stato a Bergamo molte volte con i Mellow Mood ma passandoci in autostrada o nei paesi limitrofi, ma non l’avevo mai “vissuta” veramente. Ho scoperto che è una città proprio bella, dove si mangia bene, si beve bene e si sta bene. È un posto a cui mi è stato facile affezionarmi, e in cui la cultura viene molto apprezzata: c’è un bel fermento, almeno per quello che mi sembra percepire da fuori.

LR: Vista la nostra comune origine di montanari ti chiedo: da dove nasce il tuo amore per la cultura giamaicana, che è una cosa completamente aliena rispetto alle nostre origini?

TS: Mi ci sono appassionato alle superiori, un po’ perché avevo amici che lo ascoltavano e un po’ perché incontrai i gemelli dei Mellow Mood e iniziammo a suonare. Loro lo amavano già da prima che ci arrivassi io. Alla fine il collegamento tra le mie due anime credo che sia che tanto la musica reggae quanto quella folk siano musiche popolari, e siano due generi con una stratificazione storica molto importante. Perché sono entrambe musiche con più di 50 anni di storia, e questa cosa mi affascina moltissimo. Sia nella fase di ascolto che in quella di composizione, la possibilità di poter approfondire un’analisi storica mi stimola molto.

LR: Anche a livello di studio linguistico mi sembra che sia tu che i gemelli vi spendiate parecchio, facendovi risultare credibili nel fare della vostra vita qualcosa che non vi apparterrebbe per DNA.

TS: Esatto. Alla fine io e loro abbiamo imparato due inglesi diversi: io anche all’università ho studiato inglese come interprete. Quindi mi piace cercare una forma linguistica precisa e chiara. Penso di poter dire che scrivo in inglese abbastanza bene. È qualcosa che spesso viene un po’ tralasciato, nel senso che generalmente si tende a pensare che chi scrive in inglese lo faccia perché non ha abbastanza coraggio da farlo in italiano. Invece a me piace proprio scrivere in inglese, è una lingua che ritengo di conoscere abbastanza bene da poterla scegliere come lingua di espressione artistica. I gemelli invece da quando hanno iniziato ad ascoltare musica reggae da ragazzini studiano il patois giamaicano. In quello sono molto più fluidi di me. Forse hanno un inglese colto meno fluente del mio, ma sulla parte giamaicana sono imbattibili.

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