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Jazz e hip hop, elettronica e world music: i viaggi immaginari di Karu

Intervista. Il contrabbassista Alberto Brutti ci parla del suo progetto Karu, un sound cosmopolita che potremo sentire dal vivo venerdì 2 settembre allo Spazio Polaresco

Lettura 5 min.
Karu

È Alberto Brutti la mente (e il contrabbasso) dietro al progetto Karu. Jazz e hip hop, elettronica e world music, viaggi tra culture altre e mondi lontani, ricerca e ritualismo tribale: nei suoi brani si spazia un po’ dappertutto in quel ricchissimo macrocosmo che è la musica black. Il progetto è relativamente giovane ma da subito ben focalizzato e prolifico: dopo un album nel 2020 e un bel live registrato al Commerce di Milano, arriva ora «An Imaginary Journey» per Beat Machine Records, un nuovo disco dal titolo tanto didascalico quanto calzante che uscirà il 18 novembre.

Sei brani per innumerevoli suggestioni: potremo sentirlo dal vivo il prossimo 2 settembre allo Spazio Polaresco di Bergamo. Abbiamo raggiunto Alberto per una bella chiacchierata in cui approfondire tutto sul progetto Karu: origini e direzioni, influenze e composizione, tecniche e legami con scene e musiche “altre”.

LR: Ciao Alberto, partiamo dall’inizio: come è partito il tuo viaggio? Dove ti sei formato musicalmente?

KA: Suono da quando ero piccolino, ho iniziato a studiare il basso elettrico e ho avuto la fortuna di avere una famiglia che ha sempre accettato e incoraggiato questa mia passione; anche perché oltre a me tutto il resto della famiglia suona, quindi era un ambiente in cui la musica era parte integrante di tutte le giornate. Poi mi sono iscritto al conservatorio, facendo prima musica classica e poi jazz a Roma, e lì il mio pensiero musicale è cambiato molto: vivere Roma, una grande città, ti introduce facilmente in un ambiente underground, dove le culture musicali si fondono e si uniscono. Mi ha dato lo stimolo di conoscere sempre più persone e affrontare questo percorso a modo mio, combinando quello che ho in testa con il comunicarlo alle persone con cui suono nella maniera più semplice, intuitiva e divertente possibile.

LR: Quando e come nasce il progetto Karu?

KA: Nasce a fine estate 2019 nelle Marche (io sono marchigiano). Ho riunito un po’ di amici, persone con cui suono tutt’ora e che hanno sempre creduto in questa musica. È nato dalla volontà di ricreare quello che ho in testa. Da lì ho conosciuto Daykoda, un amico che fa parte dell’etichetta con cui lavoro, e da quella collaborazione è nato il primo disco a nome Karu, uscito nel 2020 e intitolato «Kuru».

LR: Che dischi di hanno formato quando eri piccolo?

KA: Un album che mi ha influenzato tantissimo che in casa si ascoltava tanto era «The Dark Side of the Moon» dei Pink Floyd, un disco che ancora oggi riesce a darmi moltissimo. Poi l’ascolto si è evoluto sempre di più. Da lì sono approdato al jazz: Mingus, Alice Coltrane. Sono esperienze che mi hanno formato come musicista ma anche – forse soprattutto – come spirito musicale. È comunque stata un’esperienza che è partita anche dalla musica popolare più “semplice”, come i Beatles o Battiato, per poi evolversi.

LR: Nella tua musica sento anche molte attinenze con tutta la scena inglese che sta andando tanto negli ultimi anni: Sons of Kemet e in generale tutti i progetti di Shabaka Hutchings e compagnia…

KA: Sì, è una scena che mi piace molto e che seguo: ho avuto anche la fortuna di vedere dal vivo diverse volte i Sons of Kemet, energia pura. Sicuramente è una scena che avrà anche da dire a lungo negli anni. Speriamo che si ricrei una cosa di questo tipo anche qui in Italia, perché ci sono gruppi e persone che stanno dicendo il loro e spero che gli venga data parola sempre di più.

LR: Qualche nome italiano che secondo te merita un approfondimento?

KA: Si sta sviluppando tutta una scena molto valida, a partire dagli Studio Murena (che a loro volta sono fan del mio progetto e lo hanno sempre spinto molto): il loro è un bell’ibrido e stanno girando tanto meritandosi tutto quello che stanno raccogliendo. Poi sicuramente Daykoda, che sta facendo a sua volta un bel percorso suonando su palchi importanti. Anche da noi ci sono queste realtà che stanno prendendo piede, speriamo via via in contesti sempre più ampi.

LR: Nei tuoi lavori c’è anche molta elettronica…

KA: Ho approfondito anche quel ramo: l’ho studiato e infatti nelle mie uscite mi occupo della parte di mixing e editing, e in generale di tutta una serie di meccanismi insieme ai musicisti con cui suono che fa sì che il risultato finale sia conforme a quello che avevo in testa sin dal principio.

LR: Nel vostro live al Commerce avete eseguito anche una sorta di Cover di «One Beer» di MF Doom. Karu e l’hip hop è un legame evidente…

KA: Quello è stato un tributo per la sua scomparsa. Poi noi facciamo musica strumentale, quindi l’hip hop si sente lì più che nel parlato. Un’altra mia grande influenza è J Dilla, che ha preso un campionatore che veniva usato praticamente solo in produzioni elettroniche e l’ha reso “umano”.

LR: C’è anche del sampling nei tuoi brani?

KA: Sì, ma sono campioni suonati, nel senso che è un sampling myself. Campiono me stesso e le persone con cui suono per poi ricreare delle texture sonore e organiche. È una cosa che crea anche una bella sfida in sede live, nel senso che proviamo a ricreare “umanamente” dei suoni che avvengono tramite l’editing e il sampling.

LR: Hai mai pensato di prestare la tua musica al rap? Non nel senso di produrre beat, ma magari di avere un MC che rappa sopra quello che suonate?

KA: Sicuramente è un’idea che ho preso in considerazione e che sarebbe bello provare. Però il fulcro di questo progetto è la musica strumentale che si crea tra di noi, improvvisazione in primis. Un gruppo che mi ha stupito è The Irreversible Entanglements con Moor Mother: lì si crea un grande pathos tra i musicisti partendo dall’improvvisazione, e lì c’è una voce – Moor Mother appunto – che canta o inserisce testi intesi come poesie pure. Quella sarebbe una cosa che sarebbe molto interessante trasporre qui.

LR: Anche il vostro nuovo disco nasce dall’improvvisazione?

KA: Sì, nasce da sessioni di improvvisazione collettiva che io ho poi analizzo, processo ed edito utilizzando la tecnica del sampling per creare i brani che sono poi presenti. Quest’ultimo disco è molto più suonato del precedente e siamo molto contenti del risultato finale.

LR: «An Imaginary Journey» è una sorta di viaggione psichedelico…

KA: È un viaggio personale tra luoghi e culture reali e immaginari. È stato creato durante la pandemia, con l’impossibilità di vedersi e di uscire. Questo mi ha dato la forza di creare un album che fosse un viaggio psichedelico inteso non come assunzione di droghe, quanto piuttosto immaginario: uno si mette nel suo letto con le cuffie e si immagina luoghi e sensazioni. La pandemia ha influito molto perché mi ha dato modo di stare tanto tempo da solo, come tutti, avendo forse più pensieri del solito e dandomi l’occasione per costruire questo immaginario sonoro così come l’ho sempre avuto in mente.

LR: C’è insomma anche una forte componente visiva in questo progetto…

KA: Il logo di Karu è una maschera che è stata creata insieme all’etichetta e a UNOLAB Studio (dei grafici di Milano, bravissimi), e tutto quell’immaginario lo intendiamo come una sorta di volto per coprire ma anche dare luce a nuove sensazioni mentre si suona. Stiamo anche lavorando a dei visual che speriamo di portare in giro suonando quest’inverno.

LR: C’è un brano particolare nel nuovo disco a cui sei particolarmente legato?

KA: Sicuramente «Pneuma»: un brano di nove minuti circa, il più lungo che abbia mai composto. Significa “«respiro vitale» ed è il primo brano da cui sono partito per creare tutto il disco. L’ho messo per ultimo ma è stato l’inizio di tutto, quindi ci sono molto affezionato.

LR: Al Polaresco che live potremo vedere?

KA: La formazione è a quattro elementi: oltre a me ci saranno Cristiano Amici alla batteria, Andrea Di Nicolantonio alla chitarra e Mario D’Alfonso al sax. Molto probabilmente ci sarà anche Matteo degli Studio Murena che insieme a me ha registrato alcune cose dell’album nuovo.

LR: E poi? Hai già qualcos’altro in cantiere?

KA: In realtà no, anche perché credo che sia arrivato finalmente il momento di godersi la musica fino in fondo. Puntiamo a fare dei live sempre più suggestivi e belli, che coinvolgano sempre di più le persone nel venirci a vedere. Ci stiamo lavorando parecchio.

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