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Non sparate sul pianista, è altrove (Brad Mehldau a Bergamo Jazz)

Racconto. Ci sono concerti brutti, belli, bellissimi. Poi ci sono concerti che riguardano il «sacro», quell’indicibile dimensione ulteriore che la musica e l’arte riescono a raggiungere. Come il concerto del pianista statunitense al Teatro Donizetti

Lettura 5 min.
Brad Mehldau (foto ©Rossetti)

Ho sempre pensato che da ogni concerto ci sia qualcosa da imparare. Anche da quelli brutti, magari su come non stare sul palco, sull’intenzione con cui non cantare (con superbia, indolenza e svogliatezza). Sulla non capacità di stabilire un contatto con il pubblico; banalmente, sul manifesto dilettantismo di una proposta musicale che consiglierebbe di stare a casa (o di ascoltare gli altri più bravi). E soprattutto sull’appartenenza al regime del «sacro» di ogni palcoscenico. Quel palcoscenico che musicisti mainstream o del cosiddetto sottobosco italiano desacralizzano, suonando con un approccio sciatto, pressapochista, o totalmente votato al denaro. Ma il palco è e rimane comunque «sacro». In quanto tale.

La parola «sacro», bandita o volgarizzata nel nostro tempo (al pari di «capolavoro», per intenderci) deriva dal latino sacer che a sua volta proviene in radice dall’accadico (un insieme di lingue semitiche ormai scomparse) saqāru: letteralmente «invocare la divinità»; e sakāru, ovvero «sbarrare, interdire, separare»; ma anche saqru, cioè «elevato».

Il palco è un luogo «sacro», perché è «separato» non dal divino ma dal pubblico: l’artista non è mai come chi lo ascolta, è profondamente differente (o pensate ad esempio di essere uguali a Lou Reed?) e quando si compara al pubblico (come ho raccontato qui per il caso Fabio Volo) desacralizza il palco e il suo potenziale artistico – insomma il tutto diventa mero entertainment.

Riunendo le radici etimologiche della parola «sacro», possiamo assegnare al palco una doppia accezione: l’unione con il divino (mai ordinaria, poiché solitamente vietata al «profano») e la separazione da esso rispetto all’artista (e quindi alla sua «sacralità»). Di conseguenza è facile comprendere che un concerto non possa essere solo liquidato nelle categorie di «bello» e «brutto» oppure di «emozionante» e «noioso» – sto ovviamente sintetizzando in quattro parole la reazione più diffusa, e spesso non così sintetica, all’esperienza di un concerto. Per dirla in altro modo, c’è qualcosa di più, qualcosa di ulteriore.

Personalmente, questo accadimento ulteriore mi è capitato poche volte, nonostante abbia assistito a centinaia e centinaia di concerti di tutti i tipi, molti dei quali belli, se non bellissimi, che mi hanno insegnato molto – come ad esempio, per me “artista” (le cui virgolette sono più che obbligo), i due che ho visto di Caetano Veloso e i vari degli Avion Travel, da cui ho appreso l’importanza di saper stare sul palco (aspetto su cui poi ho cercato di lavorare). Sono pochi però i concerti che hanno saputo portarmi sulla soglia del sacro, che per chi scrive non è tanto una questione di Dio o non Dio, ma di verticalità verso un indicibile a cui non si può accedere, ma solo percepire. Un profondissimo abisso di umanità “interiore” che sale verso l’assoluto a fulmine di spada.

Mi è successo due volte con Bob Dylan, sorta di san Giorgio che combatte il Drago nel fiume carsico della sua musica e delle sue parole – quel fiume che sgorga verso l’oltre, quell’uomo contro il Male: mani in tasca e gambe larghe da cowboy. Mi è capitato con Tom Waits: demone, spaventapasseri, mago che mi ha incantato e portato via in un altro mondo di luccichio e rovina, di polvere e raucedine. Sono stato rapito più e più volte anche da Paolo Conte l’incantatore, l’unico ad avere le chiavi del suo mondo così passato e così presente; ogni faccia un enigma, ogni canzone un invito: «”Descansate niño” / Che continuo io”». Mi è capitato infine l’ultima volta che ho visto Nick Cave, l’uomo e il suo sconfinato dolore, lo sciamano di sé stesso, il sacro che si fa croce in terra e albero di scheletri. Tutte le volte ero davanti alla soglia di questo ulteriore, non potevo entrare, ma solo ammirare. Ognuno di questi concerti è stato un esercizio di ammirazione (una parola che pratichiamo poco: chi prova a fare arte e chi no) verso persone che erano lì a suonare, ma anche altrove. Ognuno di questi concerti è stato un momento di conoscenza superiore: dell’umano, dell’amore, del dolore, della morte. Qualcosa di terapeutico ed epifanico. Ma soprattutto una fonte di pura gioia.

Non avrei mai pensato che un’altra soglia mi attendesse al concerto in piano solo che Brad Mehldau ha tenuto per l’ultima edizione di Bergamo Jazz. Anche lì la stessa sensazione: quella di una strada lungo le note del suo pianoforte, l’uomo sul palco e in un altrove che non mi è concesso visitare, ma di cui colgo il fulgore e il buio, quell’andare su in verticale dietro di lui. Una personalissima forma di meditazione occidentale, una lezione sul rigore nel fare arte, sullo stile come forma di rispetto verso chi ascolta e vede una persona che c’è e non c’è, mentre manipola e intaglia la materia sonora di una sua idea allargata di jazz. La fisionomia di una musica totale verso cui il genere forse sta andando, diventando soprattutto linguaggio: Radiohead, Oasis, Neil Young, Cole Porter, Beatles, Stevie Wonder, Chico Buarque, David Bowie e l’autografa e magnifica «In the kitchen», da «Suite: April 2020», la meditazione su disco composta durante la pandemia. Brani popular ricostruiti per plasmare l’argilla di una statua benedicente, suonare per vivere, contro ogni forma di piccola morte quotidiana e di grande morte finale. Non è forse questa la più autentica bellezza?

Mehldau era un pianista inquieto, facile alle improvvisazioni cervellotiche, arrovellate e arrovellanti. Nervoso, spandeva un’espressività tragica e un tocco tutt’altro che lieve, nonostante la ben nota formazione classica. Sapeva essere anche minimale, imbastendo melodie un po’ fredde e pensose. Poi, a fronte di quella drammaticità, qualcosa deve essere successo. La nascita dei figli (tre, e la conseguente riduzione del numero dei concerti delle sue tournèe), uno sprofondamento in quella parte buia che tutti ci portiamo dietro, o semplicemente il mondo sovente inumano e feroce. Oppure altro, chissà.

Sta di fatto che nel 2019 Brad ha pubblicato «Finding Gabriel», un disco ispirato dall’Antico Testamento e in particolare dai libri di Daniele e Osea, dall’Ecclesiaste, da Giobbe e dai Salmi (mentre il titolo rimanda all’arcangelo Gabriele, colui che rivela). «Un Mehldau che sembra alla ricerca di spiegazioni: i tempi sono travagliati, scarsamente leggibili, meglio provare a rintracciare qualche risposta nelle sacre scritture»: lo scrive Marco Maiocco sul Giornale della Musica. L’artista indaga a livello sonoro, visto che al pianoforte affianca un sintetizzatore analogico polifonico OB-6, xilofoni, organi, archi, fiati, voce (suonati da lui e da vari ospiti). In più sembra setacciare l’umanità, «come a configurare una sorta di chiamata a raccolta di anime e spiriti volenterosi, per meglio affrontare, in alleanza e comunione, le odierne indecifrabili avversità».

Per arrivare al concerto di Bergamo – dove il suo tocco è stato lieve e profondo – possiamo essere certi che Mehldau è passato attraverso l’esperienza di questo disco e del già citato «Suite: April 2020», un lavoro in solitaria meno virtuosistico del solito, dov’è chiara una sobrietà melodica che agguanta le emozioni del periodo (lo ricordiamo: quello del lockdown). Sono indizi, suggestioni, che però riconducono a quel tendere all’ulteriore, al superare la soglia.

Mentre guardavo Brad Mehldau suonare in quella sua postura tutt’altro che accademica, mi è venuto in mente come un lampo il suo osso sacro. Non è un caso che l’osso sacro si chiami così, e ci è voluto un tradimento lessicale dal greco al latino (in greco hieròn ostéon, «osso grosso», che viene confuso con ierós «sacro», e viene tradotto in latino os sacrum) per assegnare la “sacralità” di un osso della colonna vertebrale che è «sacro» perché «ci tiene su».

Ed è proprio questo «tenersi su», mentre si suona un pianoforte, una chitarra, o si canta, che dovrebbero imporsi come una sorta di base di partenza tutti coloro che, per passatempo o professione, fanno musica. «Stare su» per «andare su». E dispiegarsi verso la soglia, l’indicibile, l’assoluto. «Fate voto di vastità» come dice Alessandro Bergonzoni, un altro che la soglia la cerca e a volte la trova. Il palco, dal più misero al più grande, è «sacro». La musica è una delle strade verso il «sacro». Il concerto di Brad Mehldau è stato qualcosa appartenente al «sacro».

Varcare la soglia di quel luogo ulteriore alla bellezza ed esso stesso bellezza maggiore assoluta è cosa per pochi, tutti gli altri però devono tendervi: è un dovere che ci spetta come uomini, come hombre vertical. Altrimenti è solo intrattenimento, banalità a buon mercato, canzoni-prodotto e increspatura in superficie. Sta scritto anche negli Atti degli Apostoli, che si creda o no: «Ma poiché sei tiepido, non sei cioè né freddo né caldo, sto per vomitarti dalla mia bocca».

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