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Da Frankenstein alla Silicon Valley. Fino a dove arriva l’assenza di limiti nella scienza

Articolo. Biotecnologie, immortalità e genetica personalizzata: dalla Silicon Valley ai laboratori europei, la scienza riscrive la vita. Tra cure straordinarie e dilemmi etici, ci chiediamo: dove finisce la ricerca e dove comincia la manipolazione dell’umano?

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«P otrete controllare il fuoco, Prometeo, o vi brucerete le mani prima di consegnarlo?» È con questa domanda, tratta dal romanzo di una giovanissima Mary Shelley, che inizia la storia di «Frankenstein»: un uomo accecato dalla smania di creare la vita dopo la morte, che finisce per dare forma a una creatura viva, ma nata dal caos. Oggi, più di due secoli dopo, Guillermo del Toro ha riportato sullo schermo quel mito, ricordandoci che la vera paura non è la morte, ma l’assenza di limiti.

Voliamo nella realtà, e negli Stati Uniti: Bryan Johnson, imprenditore milionario, spende milioni per cercare di ringiovanire: trasfusioni di sangue del figlio, diete calibrate, supplementi e una disciplina da cyborg. Ma il caso che più fa discutere viene dalla Silicon Valley: la startup Preventive ha annunciato la ricerca su embrioni geneticamente modificati per eliminare malattie ereditarie. Sembra fantascienza, ma non lo è. L’interesse crescente dei fondi americani per il DNA mostra quanto vicino siamo a una nuova era della biologia.

C’è un filo rosso, lungo decine di chilometri e centinaia di anni, che lega Victor Frankenstein, Bryan Johnson e i biologi della Silicon Valley. È lo stesso impulso antico: sfuggire alla morte e migliorare la natura umana. A prima vista sembrano mondi lontani, il laboratorio gotico del dottor Frankenstein e gli open space ultratecnologici tra San Francisco e Palo Alto, ma in realtà ci riguardano da vicino. Perché anche se non possiamo permetterci infusioni di plasma giovanile, la paura della fine e la fame di miglioramento abitano tutti noi: nel fitness ossessivo, nei ritocchi estetici, nei filtri social che promettono una versione più “perfetta” di noi stessi.

«Avendo raggiunto i confini della Terra, non c’era più un orizzonte». Frankenstein, dopotutto, non è che un simbolo: un uomo che non accetta la perdita, e tenta di creare la vita dove la vita non dovrebbe più esserci. Un collage di corpi, un’ossessione per la resurrezione.

Scienziati e scienziate (spesso) simpatici

Noi scienziati, diciamocelo, non abbiamo una grande reputazione mediatica. Quando pensiamo a uno scienziato, spesso ci viene in mente lo «scienziato pazzo»: il laboratorio pieno di fumi verdi, i capelli arruffati, lo sguardo allucinato. Da Victor Frankenstein a Doc Brown di «Ritorno al Futuro» (interpretato da un esilarante Christopher Lloyd), fino ai genetisti di «Jurassic Park», la cultura pop ci ha sempre dipinti come visionari pericolosi, brillanti ma un po’ fuori di testa. La realtà è molto meno cinematografica: siamo solo persone innamorate della conoscenza, curiose, e spesso molto più simpatiche di quanto sembri. Una delle cose che conosciamo tutti è quanto i media siano capaci di presentare una scoperta, una nuova tecnologia, o un fatto, come qualcosa di opinabile, o come “cattivo”, quando in realtà ciò che ci spinge a ricercare cose nuove è la volontà di applicarle per il bene degli esseri umani, inseriti in una biosfera ricca di biodiversità.

Dal camice bianco alla felpa da startupper

Nella Silicon Valley, diverse startup stanno lavorando su tecnologie di editing genetico applicate alla riproduzione. In parole povere: la possibilità di modificare gli embrioni prima della nascita, scegliendo (o eliminando) tratti genetici specifici. L’idea non è nuova. La parola «eugenetica» viene dal greco: eu (buono) e genos (nascita) - «buona nascita». Nel secolo scorso, purtroppo, si è tradotta in politiche di selezione e sterilizzazione, fino agli orrori del nazismo e all’ideale del «figlio perfetto». Oggi, però, l’eugenetica ha cambiato volto. Non è più imposta dallo Stato: è privata, volontaria, tecnologica e finanziata da venture capital. Ma siamo davvero a questo livello? Quant’è labile il confine tra una superficiale selezione del colore degli occhi e la ricostruzione di un pezzo danneggiato di DNA che potrebbe causare malattie genetiche ancora incurabili?

Alla base di questa rivoluzione c’è « CRISPR-Cas9 », una tecnologia scoperta nel 2012 da Jennifer Doudna ed Emmanuelle Charpentier («Premio Nobel» 2020) che funziona come una forbice molecolare: può tagliare un pezzo di DNA e sostituirlo con un altro, correggendo errori o inserendo nuove sequenze. È semplice, economica, e straordinariamente precisa. Grazie a «CRISPR», malattie genetiche prima incurabili oggi possono essere trattate o perfino eliminate. Nel 2023 è stato approvato il primo farmaco «CRISPR» per curare la beta-talassemia e l’anemia falciforme, salvando la vita delle persone. Vi ho già parlato di KJ, un bambino che non avrebbe avuto scampo con le terapie tradizionali, e per cui hanno sviluppato una terapia basata sul gene editing che lo ha salvato dall’altissima quantità di ammoniaca che il suo corpo produceva e con cui si auto-intossicava.

Nel 2018, lo scienziato cinese He Jiankui annunciò la nascita di tre bambini geneticamente modificati per resistere all’HIV. Questa scelta, però, al tempo gli costò tre anni di prigione e una multa salata. Questi, comunque, sono gli usi «buoni», le storie che fanno credere nel progresso, la scienza che salva.

Ma poi arriva la parte inquietante: e se la stessa tecnologia servisse non per curare, ma per migliorare?

Non per eliminare una malattia, ma per scegliere un tratto: colore degli occhi, altezza, QI?

Tra cura e controllo

Le tecnologie di editing genetico, oggi impiegate a scopo terapeutico dopo la nascita, permettono agli scienziati di tagliare, modificare e sostituire porzioni di DNA con una precisione impensabile fino a pochi anni fa. Ma quando questo stesso processo viene applicato a sperma, ovuli o embrioni, la questione si fa molto più delicata. È proprio in questo ambito che la comunità scientifica internazionale ha chiesto una moratoria globale, almeno finché non verranno stabilite regole etiche e scientifiche condivise. La modifica genetica di embrioni umani finalizzata alla nascita di bambini geneticamente alterati è, infatti, vietata negli Stati Uniti, in Europa e nella maggior parte dei Paesi del mondo. Il motivo è semplice quanto cruciale: l’imprevedibilità delle conseguenze a lungo termine e il rischio di aprire la strada a nuove forme di eugenetica. Il caso della startup Preventive, con sede nella Silicon Valley, lo dimostra chiaramente. L’obiettivo dichiarato è nobile — prevenire la trasmissione di malattie genetiche —, ma, secondo alcune fonti interne, la società sarebbe anche in grado di sviluppare strumenti capaci di prevedere tratti complessi, come il quoziente intellettivo, l’altezza o il colore degli occhi. Caratteristiche che, se selezionate su base genetica, potrebbero spostare la frontiera tra cura e progettazione, e trasformare il concetto stesso di nascita.

In teoria la legge distingue chiaramente tra editing terapeutico (curare una malattia) e editing germinale (modificare caratteristiche ereditarie). In Italia, l’uso di tecniche di editing genetico su embrioni è vietato dal Decreto legislativo 191/2007 e dalla Legge 40/2004 sulla procreazione assistita. Mettiamola così: se un giorno tu, lettore, scoprissi che tuo figlio porta nel DNA una mutazione letale, non vorresti correggerla e salvargli la vita? E se la stessa tecnologia potesse renderlo immune alle infezioni o meno vulnerabile all’ambiente, dove tracceresti il confine tra terapia e potenziamento? È qui che nasce il dilemma: una tecnologia non è buona o cattiva in sé — dipende da come la usiamo. Ma sappiamo usarla con misura?

Una riflessione finale

Sarebbe un sogno poter eliminare anche solo una parte delle oltre 7.000 malattie genetiche ereditarie finora conosciute. Immaginare un corpo umano libero dalle sue fragilità, in cui il concerto perfetto di migliaia di voci molecolari non venga più interrotto da una nota stonata. Eppure, in questo sogno di perfezione, non dovremmo mai smarrire il senso del limite. La strada che separa la cura dal controllo è sottile: basta poco per scivolare nelle disuguaglianze genetiche, nella mercificazione della vita, o, peggio ancora, nell’abuso di un concetto ormai inflazionato di “normalità”.

Oggi, gli strumenti per riscrivere la vita esistono davvero: «CRISPR», bioingegneria, cellule staminali, terapie geniche. La domanda, però, non è più «possiamo farlo?», ma «in quali termini, e con quali obiettivi, dovremmo farlo?» Diffidate da chi urla al complotto, da chi vede in ogni progresso il preludio all’apocalisse, o da chi spara a zero sull’innovazione senza comprenderla davvero. Ma diffidate anche di chi, in nome del profitto, piega la scienza a interessi secondari. Lo spirito critico è uno dei veri anticorpi che abbiamo: la curiosità informata, il dubbio costruttivo, la volontà di capire prima di giudicare. Perché dall’innovazione possono nascere dibattiti vivi e necessari, a patto che non si trasformino in propaganda, ma in dialogo.