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#coseserie: Depp contro Heard, ovvero come i social network influenzano la giustizia

Articolo. La nuova docuserie Netflix diretta dalla plurinominata Emma Cooper esplora il controverso processo di diffamazione tra Johnny Depp e Amber Heard. Oltre ai dettagli legali, la serie evidenzia l’effetto dei social media sull’esito del caso

Lettura 6 min.

Ok, lo ammetto, quando è uscito il documentario «Depp vs Heard» sono caduta anche io nella trappola. Premetto che non sono una grande fan di Jonny Depp, ma visto il clamore mediatico della vicenda, ero curiosa di scovare il colpevole. Ecco, quindi, il primo bias interpretativo col quale mi sono approcciata alla visione. Cercavo una vittima e pretendevo un carnefice, quando era chiaro che di fronte a un caso con una tale risonanza, tutti e due erano complici nel voler trarre dalla loro vita privata il massimo della visibilità, per schiacciare letteralmente l’altro agli occhi dell’opinione pubblica.

Parto dunque subito con uno spoiler: quello che emerge è che i due protagonisti di quella che possiamo definire a tutti gli effetti una rappresentazione soffrono di una dipendenza. Emotiva lei, da droghe e alcol lui. Ma ricostruiamo i fatti.

La storia dietro al processo

Da un idillio degno di un film romantico a un finale da thriller, l’avventura amorosa tra Johnny Depp e Amber Heard ha avuto tutto: passione, dramma e colpi di scena. Le due stelle di Hollywood si sono conosciute e innamorate sul set di «The Rum Diary» nel 2009 e nel 2015 hanno convolato a nozze. Ma come in ogni buon film, il paradiso si è trasformato in un inferno, dal momento che ben presto sono emerse le loro reciproche fragilità e i reciproci scheletri nell’armadio.

Il climax? Il 2022: Heard sotto i riflettori per un pezzo audace sul Washington Post , scritto quattro anni prima, dove si ergeva come paladina contro la violenza sulle donne. «Depp vs. Heard» si è trasformato in un vero e proprio blockbuster mediatico. I social sono esplosi: meme, video virali su TikTok, YouTube... tutti ne parlavano, dai fan accaniti ai wannabe avvocati, dai creator di tendenza ai comici. Non solo il processo è diventato l’attrazione principale, ma tutto ciò che lo circondava ha assunto le dimensioni di un grande show.

Social e giustizia: un’arma a doppio taglio

Nell’epoca moderna, i social media hanno guadagnato un’influenza immensa, toccando ogni aspetto della nostra esistenza. Ma come impattano sul sistema giudiziario? Questi strumenti presentano sia pro che contro, avendo il potere di influenzare l’opinione pubblica e potenzialmente gli esiti dei processi.

I media non sono solo canali di informazione: sono pilastri del processo democratico. Attraverso il loro potere di definire la visione degli eventi e la loro priorità agli occhi del pubblico, ci guidano non solo su ciò che accade, ma anche su come dovremmo interpretarlo. Essi giocano un ruolo cruciale nell’illuminare il pubblico sul sistema giudiziario, in particolare riguardo ai tribunali. Hanno il compito di fornire dettagli accurati e tempestivi sulle decisioni e le attività giudiziarie, aiutando la società a comprendere meglio le dinamiche in gioco. Con una copertura continua, garantiscono che il pubblico sia sempre al passo con gli eventi chiave nel sistema giudiziario.

La diffusione su larga scala di Internet ha reso accessibili enormi quantità di informazioni in un attimo. Recentemente, ha anche permesso alle persone di condividere opinioni su piattaforme come Facebook e Twitter, influenzando la percezione pubblica dei processi in corso. Giurati, giudici, testimoni e avvocati, hanno ben presto cominciato ad utilizzare i social media per vari scopi, inclusa la preparazione dei loro casi. I giornalisti, ad esempio, spesso usano Twitter per fornire aggiornamenti in tempo reale dai tribunali e anche i tribunali stessi stanno iniziando a curare la loro presenza sui social network.

Tuttavia, l’uso dei social media da parte dei giurati ha sollevato non pochi problemi. Quando, infatti, i giurati condividono dettagli o opinioni sui casi attraverso queste piattaforme, ciò può compromettere l’integrità del processo. Il sistema giudiziario si basa sull’idea che i giurati debbano prendere decisioni basate esclusivamente sulle prove presentate in aula, senza influenze esterne. Ma con l’ascesa dei social media, c’è un crescente rischio che questi possano essere influenzati da opinioni esterne.

Oltre a ciò, l’uso dei social da parte dei giurati può anche danneggiare la percezione pubblica del sistema giudiziario. La fiducia del pubblico nelle decisioni della giuria è fondamentale, e vedere i giurati discutere pubblicamente dei casi su piattaforme come Facebook, Twitter e TikTok può alterare questa relazione. Non a caso, visto il clamore mediatico suscitato dalla vicenda è stato proibito ai componenti della giuria di utilizzare i social e di cercare informazioni in rete, per evitare condizionamenti. Ci saranno riusciti secondo voi?

Il confine tra verità e giustizia

Dopo la pubblicazione dell’articolo sul Washington Post di cui abbiamo già parlato, in cui Amber Heard parlava della sua esperienza come vittima di violenza domestica, è nato un contenzioso legale per diffamazione. Dopo le accuse di Heard, Depp è stato etichettato come un uomo violento e ha perso molte opportunità nel mondo del cinema. Tuttavia, grazie a questo processo e alla strategia mediatica del suo team, Depp è riuscito a cambiare la narrativa, facendo apparire Heard come la vera antagonista.

Il documentario «Depp contro Heard» non si concentra solo sulle testimonianze in tribunale, che erano state rese pubbliche per volontà di Johnny Depp, ma offre anche una panoramica dei video degli youtuber, dei meme, dei TikTok e delle reazioni dei fan, la maggior parte dei quali erano schierati dalla parte di Depp. Il punto di forza della mini-serie è mostrare l’immensa influenza dei media sulla percezione del pubblico, ponendo l’accento su come anche quando si cerca di essere obiettivi, è facile essere influenzati da ciò che viene presentato.

D’altra parte, la selezione delle clip testimoniali nel documentario può confondere lo spettatore sul vero obiettivo del processo, che era determinare se Heard aveva effettivamente diffamato Depp, non scavare sui dettagli del loro tumultuoso matrimonio. L’attore non ha voluto accettare l’etichetta di aggressore e vedere la sua reputazione, costruita in decenni di carriera, compromessa. Pertanto, ha deciso di citare in giudizio l’ex moglie Amber Heard per diffamazione e, non a caso, ha scelto di farlo in Virginia. Non in California, dove i due vivevano o nello Stato di Washington in cui è stato pubblicato l’editoriale. Ogni stato degli USA, infatti, ha le proprie leggi e la Virginia è particolarmente severa con chi viene riconosciuto colpevole di diffamazione. È ipotizzabile che Depp abbia scelto la Virginia per questo motivo. Alla fine, una giuria di Fairfax ha riconosciuto Heard colpevole e l’ha condannata a pagare a Depp 10,4 milioni di dollari. Lui sceglie di presentarsi con un atteggiamento molto composto e misurato a tratti indignato per quello che si dice di lui, mentre lei accusa l’ex marito di violenze fisiche e psicologiche, confidando nella maggiore predisposizione collettiva a risarcire, almeno in termini di credibilità, chi denuncia un abuso oppure abbia detto la verità su una relazione tossica in cui lei si sentiva parte debole e offesa.

Il documentario suggerisce che sia Depp che Heard potrebbero non essere in grado di vivere al di fuori dei loro ruoli, quasi come se fossero persi senza una sceneggiatura da seguire. O abbiano paura di scoprire chi sono al di fuori del set. Risulta paradossale, quasi al limite del ridicolo, che Depp non guardi mai la sua ex moglie durante il processo solo perché durante una lite furibonda tra i due lui le aveva giurato che non avrebbe mai più incontrato il suo sguardo. La serie, pur mantenendo una posizione neutrale, mette in luce come la vicenda sia stata amplificata dal pubblico e dai creators. La questione centrale rimane: chi ha ragione? E la verità può davvero essere scoperta in un caso così complicato? Ma soprattutto verità per chi?

Il documentario ci ricorda anche quanto siamo ossessionati dalla vita delle celebrità, al punto da trascurare le nostre stesse esistenze. Siamo affascinati da ogni dettaglio, sia esso un bacio appassionato sul set o un gesto di disprezzo, anche macabro. Ma forse c’è un altro aspetto su cui riflettere. Come dicevo all’inizio, l’unico dato incontrovertibile che emerge dal processo è che Depp e Heard sono vittime l’uno dell’altro.

Infatti, dal processo non viene fuori la verità né tantomeno una sorta di aderenza al principio di giustizia. Il processo, non a caso si conclude con un patteggiamento: un milione di dollari di risarcimento. La giustizia non ha solo a che fare con le autorità, con le aule di tribunale. Il senso di giustizia è (o dovrebbe essere) innato. Se vedo qualcuno in difficoltà lo aiuto, gli porgo la mano, non lo trascino in un fosso, non rido delle sue disgrazie, non mi faccio beffa delle sue fragilità. Quando spegniamo la televisione, quando riponiamo lo smartphone sul comodino, quando smettiamo di scorrere il feed, cosa rimane dei principi cristiani dell’amore, della compassione e del perdono? E non parlo qui del rapporto tra i due protagonisti che abbiamo appurato essere vittime di loro stessi, quanto della relazione tra i protagonisti e l’opinione pubblica, che di fronte a qualcuno che annega preferisce voltarsi dall’altra parte o, ancora peggio, documentare con uno smartphone.

La verità, come diceva il celebre detto, è spesso la prima vittima in guerra. Nel tumultuoso teatro della celebrità, la realtà si sfuma in un miscuglio di percezioni, pregiudizi e narrazioni contorte. Ma, al di là delle luci e delle ombre della popolarità, c’è una chiamata profonda e intrinseca a quel senso innato di giustizia, all’amore e alla carità. Una chiamata che, purtroppo, nella tempesta mediatica attorno a Depp e Heard, è stata soffocata dai suoni assordanti dei clic, delle notifiche e delle opinioni frettolose. In un mondo in cui la comprensione dovrebbe guidare le nostre azioni, troppo spesso scegliamo l’indifferenza o, peggio, il cinismo.

Così, mentre i titoli di coda del documentario scorrono e mentre ci ritroviamo immersi nei nostri pensieri, dobbiamo chiederci: vogliamo essere individui che cercano la propria umanità e che scavano nella complessità, andando oltre ciò che appare o restare semplicemente spettatori che si perdono nell’effimero bagliore dell’attenzione?

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