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#coseserie: «The Good Mothers», il coraggio delle donne che hanno sfidato la ‘ndrangheta

Articolo. Tratta dall’omonimo romanzo di Alex Perry, la serie tv vincitrice del «Berlinale Series Award», in onda su Disney+, racconta in sei puntate cosa significa ancora oggi essere una donna all’interno di una delle organizzazioni criminali più potenti e pericolose al mondo

Lettura 5 min.
Micaela Ramazzotti e Gaia Girace (Foto Claudio Iannone)

Qualche sera fa stavo navigando tra le varie piattaforme alla ricerca di una serie tv da guardare, avevo voglia di qualcosa di leggero per passare una serata tranquilla, sgranocchiando qualcosa davanti al pc. Poi mi sono imbattuta in questo titolo e siccome avevo visto il trailer, ho premuto «play». Il finesettimana tranquillo si è trasformato in una serata piena di tensione, tanto che sono rimasta sveglia tutta la notte per cercare di vedere più puntate possibili.

Fresca di intervista a Nicaso, tra i massimi esperti di organizzazioni criminali nel mondo, ero curiosa di sapere come effettivamente viene rappresentato un fenomeno che mi riguarda da vicino, dato che sono calabrese, ovvero la ‘ndrangheta. Da quando sono andata via dalla Calabria, paradossalmente è come se determinati problemi che la attanagliano, li sentissi ancora più vicini. E qualche giorno fa, guardando un film di tutt’altro tenore, sempre ambientato nella mia regione natia mi sono chiesta: è davvero questa la Calabria? Una regione che ha preservato immutata la fisionomia rurale di certi borghi? Le strade sterrate? I paesaggi ruvidi, roventi e soleggiati?

Mentre mi immergevo nelle atmosfere cupe di «The Good Mothers» ho pensato all’insegna sbiadita del negozio di alimentari che era dei miei nonni, chiuso da più di 10 anni. Un’attività commerciale con una storia di sessant’anni che rappresentava il fulcro di un rione ormai spopolato, in cui sopravvive qualche anziano e che si ripopola durante l’estate.

Perché racconto tutto questo? Perché lasciando la mia terra mi sono resa conto che uno dei punti di forza di questa rappresentazione risiede nella sua capacità di mettere in scena quel senso di svuotamento che è insieme materiale e spirituale, di una provincia sperduta. Da Pagliarelle, frazione di Petilia Policastro, in provincia di Crotone, a Rosarno, in provincia di Reggio Calabria, è come se l’orologio fosse rimasto fermo, in quel solito bar al centro della piazza, rigorosamente di fronte alla chiesa. Vi garantisco che anche nel paesino da cui provengo io ce n’è uno.

È in questo entroterra arido che si innestano le vicende reali di Lea Garofalo (Micaela Ramazzotti), Giuseppina Pesce (Valentina Bellé) e Concetta Cacciola (Simona Distefano), collaboratrici di giustizia. «The Good Mothers» adotta il punto di vista femminile su un genere come quello del gangster movie che è spopolato in Italia negli ultimi dieci anni. E ci sono soprattutto donne anche dal lato della giustizia. Perché la magistrata Anna Colace (interpretata da Barbara Chichiarelli) ha la geniale intuizione di aiutarle a uscire dalle dinamiche oppressive delle loro famiglie, spingendole a denunciare e attaccando l’organizzazione dall’interno.

Il ruolo delle donne nella ‘ndrangheta

La mafia è un’organizzazione criminale fortemente gerarchizzata e maschilista nella quale le donne hanno pian piano assunto un duplice ruolo. Da un lato possiamo considerarle come una sorta di anticorpo naturale all’interno di un’organizzazione per certi versi ancora tribale, nella quale i legami d’onore prevalgono su quelli d’amore. Dall’altro, sono sempre di più i casi di cronaca che testimoniano come le donne stiano assumendo anche ruoli di potere all’interno dell’organizzazione.

Giuseppina Pesce ha meno di trent’anni e tre figli di cui la più grande ha già 16 anni. Suo marito è in carcere per associazione mafiosa e lei se ne va in giro in sella ad una moto a riscuotere il pizzo nelle attività commerciali del paese. Suo padre, a capo della cosca, vuole chiedere un aumento della percentuale e lei osa opporsi. I bottegai non hanno soldi, sono al lastrico, lei li guarda, li capisce, si vergogna, ma non può fare diversamente. Del resto lei cosa ne sa degli affari? È una donna, muta deve stare, con la testa spalmata nel piatto.

Concetta appartiene alla famiglia Bellocco, si sposa a soli tredici anni, per permettere a suo marito di entrare nel clan, Salvatore Figliuzzi. Quando quest’ultimo viene condannato a otto anni di reclusione per associazione mafiosa, il padre e il fratello rinchiudono lei e i figli in casa senza contatti esterni, secondo il codice d’onore della ‘ndrangheta. Tuttavia, Concetta tramite internet riesce ad appropriarsi di una sua normalità, nella quale può truccarsi, sentirsi bella, piacente, desiderata, giovane, libera, amata. Ma, cosa più importante, riesce ad avere una relazione con un altro uomo, sventata dalla madre che la fa picchiare a sangue dal fratello e dal marito, segregandola nuovamente in casa.

E poi c’è Lea Garofalo, della quale vediamo solo gli ultimi giorni di vita a Milano, quelli nei quali crede al marito, Carlo Cosco, anche lui colluso con la mafia, quando le dice che vuole perdonarla per essere diventata testimone di giustizia, per poi ucciderla con un tranello strappandola via alla figlia Denise (Gaia Girace), con la quale era fuggita per proteggerla da quell’ambiente tossico.

Tutte queste donne cercano di lottare per il loro futuro, compiendo una scelta di vita che si tramuterà, per due di loro, in una scelta di morte. Dal momento che le famiglie mafiose sanno come far leva sul loro ruolo di madri per farle sentire in colpa e riattrarle nella loro rete.

«The Good Mothers» riesce a combinare efficacemente espressività nella produzione, nella scrittura e nelle performance di attrici talentuosissime (impressionante il lavoro della Bellè sul linguaggio e la postura) dando vita a un prodotto narrativo di assoluto valore, che pur trattando un tema consolidato, lo fa dal punto di vista delle donne che hanno sfidato la criminalità organizzata. Mosse dall’intimo bisogno di riappropriarsi del proprio sé, dal desiderio di conquistarsi una libertà che è stata loro negata, forse ancor prima di nascere, solo per il fatto di essere donne. Ma qual è il prezzo che devono pagare le donne di ‘ndrangheta che vogliono cambiare vita?

Cosa significa essere una brava madre?

Il titolo della serie richiama l’attenzione sul fatto che le tre protagoniste, prima di essere donne, devono soprattutto essere delle brave madri, o probabilmente all’interno della «famigghia» devono preoccuparsi di essere solo questo. Ma Concetta e Giuseppina sono due giovani ragazze che vogliono ridere senza pensare alle conseguenze, sentire il cuore che batte, essere felici. È proprio questo che sognano per le loro figlie: vederle lontane da un contesto in cui sono costrette a sposarsi ancora prima di raggiungere la maggiore età.

Troviamo ancora rappresentata quel tipo di mafia rurale dedita ai sequestri di persona, animata dalle solite faide paesane sanguinose e interminabili. Sono perlopiù cosche che vivono col traffico di cocaina e il racket, ma che abitano in case anguste, riproponendo quel modello di famiglia patriarcale in cui per estensione i figli convivono insieme ai genitori. E c’è il vuoto nelle strade, quel deserto di intenti e di prospettive di tanto in tanto interrotto da qualche ragazzo che corre col motorino, interrompendo un silenzio disarmante e sconsolante che chi proviene dai paesini del sud, come me, conosce bene.

«The Good Mothers» è forse la serie di denuncia sulla ‘ndrangheta che più mi ha colpita, come donna e come calabrese. Anzi, che più precisamente mi ha ferita. Perché c’era qualcosa di più importante dell’intrattenimento che mi spingeva a stare incollata allo schermo: pensare che dietro alle storie che vedevo sono esistite delle donne. Donne picchiate, intrappolate, umiliate.

Queste storie, lo ribadisco, sono vere. Lea Garofalo è stata davvero uccisa brutalmente dal marito, nel 2009. Il suo corpo rinvenuto tramite uno dei suoi aguzzini nel 2012. Concetta Cacciola è morta suicida ingerendo dell’acido, dopo che i suoi genitori l’avevano raggiunta a Genova costringendola a ritrattare le sue dichiarazioni. E l’unica sopravvissuta, Giuseppina, vive in una località segreta insieme ai suoi tre figli. Così come Denise Cosco, che ha cambiato identità.

Oggi mi sento una privilegiata perché ho avuto la possibilità di scegliere, di andarmene, di scrivere la mia storia. Eppure, mentre scrivo, sono qui a ripensare all’insegna gialla di un negozio che non esiste più, a chiedermi se tra dieci anni il sacrificio di queste donne avrà avuto un senso e se ancora la Calabria sarà rappresentata e ricordata come una terra di mare, di sole e di sangue.

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