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#coseserie: “Euphoria”, provare a raccontare i giovani d’oggi senza radici

Articolo. La serie tv prodotta da HBO e distribuita da Sky Atlantic ha debuttato anche su NOW con la seconda stagione e sta riscuotendo successo tra il pubblico dei più giovani. Perché senza tanti fingimenti parlano di loro (e degli adulti)

Lettura 6 min.
Zendaya nel ruolo di Rue Bennett in Euphoria

Una premessa di base necessaria per gli over duemila che si apprestano a leggere questo pezzo: in questo articolo non si parlerà di quanto sia bona Zendaya (attrice protagonista della serie). Scherzi a parte, la prima impressione che ho avuto guardando questa serie tv che sta spopolando tra il pubblico dei più giovani era una netta presa di distanza.

In tutto ciò che guardo cerco sempre di trovare qualcosa in cui identificarmi e ogni volta – anche quando faccio qualcosa che è puro intrattenimento come guardare una serie tv – finisce sempre che ne traggo degli spunti per capire qualcosa in più su me stessa. Questo perché mi sforzo di andare al di là delle interpretazioni superficiali di chi si ferma a ciò che vede e provo a dare una lettura alternativa. Con “Euphoria” ho fatto fatica, lo ammetto.

Poi ho cominciato a chiedermi perché mi facesse storcere il naso e ho capito che la questione era molto più complessa di quella che forniscono i risultati di ricerca su Google “una serie tv che racconta la vita degli adolescenti alle prese con problemi familiari, dipendenze, crisi di identità, depressione”.

Ho pensato all’adolescente che sono stata. La mia storia è la storia di una ragazzina di provincia cresciuta in un contesto che veniva vessata ed emarginata a causa della sua diversità (per chi non lo sapesse, sono disabile e su Eppen ne ho scritto parecchio). E poi decise che in fondo non è poi così male stare da sola, che pure i libri sono un’ottima compagnia e che in fondo bisognava solo pazientare un pochino. Quando sarebbe cresciuta avrebbe trovato il modo di scacciare via quei fantasmi, di capire chi era e dove sarebbe voluta andare.

Poi sono diventata adulta. E quegli adulti che da piccola mi sembravano inarrivabili, erano in realtà più simili a adolescenti cresciuti che se ne vanno in giro con gli stessi problemi irrisolti di quando erano ragazzi: non riescono a gestire le relazioni, soffrono d’ansia. Con in più un aggravante: sono adulti.

Abbiamo solo bisogno di appartenere

La serie si apre con Rue Bennett (la già citata Zendaya) che torna a casa dopo aver trascorso l’estate in riabilitazione. La giovane, che fa da voce narrante agli eventi delle prime due stagioni, ha passato la sua infanzia a combattere contro improvvisi attacchi di panico, un disturbo ossessivo compulsivo e uno da deficit d’attenzione. Per questo crede che le droghe siano l’unico modo per mettere a tacere queste difficoltà, pur essendo finita in comunità a causa di un’overdose.

Quello che subito colpisce della narrazione è la facilità con la quale questi adolescenti ricorrono all’abuso di stupefacenti. La protagonista dichiara che ha iniziato a drogarsi quando aveva 14 anni: suo padre si era ammalato di cancro, la sua famiglia era praticamente sul lastrico nel tentativo di gestire le spese mediche e lei molto semplicemente aveva approfittato di quel barattolo di pillole a fianco al divano per farsi un regalo: due secondi di nulla.

Nel presente della storia suo padre è morto, ma non c’è spazio per affrontare questa sofferenza, non c’è spazio per questo dolore. Tutto si intuisce e diluisce mentre le vicende si susseguono velocemente, però quella ferita, seppur non dichiarata, è una cicatrice dalla quale Rue continua a togliere la crosta, trovando sollievo solo nel senso di apatia che le donano le droghe.

Lo psicologo statunitense Abraham Maslow elaborò una teoria negli anni ’70 nota anche al di fuori dell’ambito specialistico come “Piramide dei bisogni”. Questa struttura definisce quali sono le motivazioni che spingono le persone ad agire. Alla base di questa piramide ci sono i bisogni fisiologici: bere, mangiare, dormire, fare sesso. Subito dopo ci sono i bisogni di appartenenza. Avete presente quando nei documentari sui mammiferi si vedono le scene in cui la mamma coccola i suoi cuccioli? È esattamente questo. Abbiamo bisogno di sentirci amati, protetti, in un posto sicuro.

Giovani sradicamenti

Tutte le storie dei protagonisti di “Euphoria” hanno in qualche modo a che fare con radici spezzate: il padre di Rue è morto, la sua migliore amica Jules (Hunter Schafer) è una ragazza transgender che da piccola è stata rinchiusa dalla madre in un reparto psichiatrico (e che poi ha pensato bene di andarsene). Nate Jacobs (Jacob Alordi), il quarterback della scuola che assume su di loro atteggiamenti persecutori, si trova a dover gestire ogni giorno il pesante segreto di un padre che dietro alla figura di irreprensibile uomo di successo, reprime la sua omosessualità.

Perfino la ragazza più bella dell’istituto Cassie Howard (Sidney Sweeney) per la quale tutto sembra ruotare attorno alla sua bellezza appariscente, è solo un’adolescente che deve gestire il peso di una madre che combatte la dipendenza da alcol e che aspetta che suo padre si faccia vivo, un giorno all’altro. E poi c’è Kat (Barbie Ferreira), la ragazza grassa che ha sempre vissuto nell’ombra e che viene derisa e umiliata a causa del suo sovrappeso.

Di contro tutti i personaggi in un modo o nell’altro sviluppano delle dipendenze che si declinano in diverse forme, trovando in esse una via di fuga. La stessa Rue anche nel momento in cui riesce a rimanere sobria, si lega affettivamente a Jules, trasformando questo legame in un’ulteriore dipendenza affettiva. Dal canto suo Jules, che ha sempre vissuto la sua identità come un problema da curare, ora che può esplorare il mondo sentendosi veramente sé stessa, avverte il peso della responsabilità di essere l’unica fonte di felicità per un’altra persona. Mentre l’unica cosa che vorrebbe è essere libera di vivere le sfumature della sua identità, senza vincoli e senza limiti.

Kat si sente costantemente insicura per via del suo aspetto fisico. Il confronto esasperante con le sue coetanee la porta a sentire il bisogno di crearsi una realtà alternativa in rete (ne abbiamo parlato anche qui e qui), dove riesce a diventare famosa scrivendo fan fiction di successo. La notorietà conquistata online le fa acquisire una certa sicurezza che la porta a decidere di utilizzare il suo corpo per fare soldi. In rete trova delle persone che provano piacere ad essere umiliate, ritorcendo a suo favore il fardello che la tormentava fin da quando era piccola: vergognarsi delle sue fragilità.

Sessualizzando il suo corpo Kat acquista fiducia in sé stessa, si sente forte, potente. Ma anche quella che si sviluppa online non è altro che un’ulteriore facciata. Perché nella realtà al di fuori continua a rimanere la ragazzina profondamente insicura che è sempre stata. La differenza, rispetto a quando era bambina, è che ora ha trovato il modo di nasconderlo, indossando una maschera.

Cassie dipende dall’amore. Si innamora costantemente di chiunque le mostri un briciolo di attenzione, ed è ossessionata dal compiacere gli altri, perché fin da bambina ha normalizzato il comunicare in modo violento a causa dei genitori che litigavano scambiandosi parole pesanti. Crescendo, poi, suo padre ha abbandonato la famiglia e questo ha portato la ragazza a sviluppare una paura dell’abbandono tale che lei non riesce mai a dire di no. Cassie ignora completamente i propri bisogni e i propri sentimenti, anche di fronte al fatto che il suo corpo viene letteralmente trattato come un fantoccio da violare.

Infine Nate è un personaggio violento e manipolatore che sfrutta le vulnerabilità altrui perché dipende dalla sua mascolinità tossica, dalla paura di non essere un vero uomo, per via dell’educazione ricevuta da suo padre.

Quella che qui si sta cercando di trovare nell’“ecatombe corale” di “Euphoria” – che in una sola narrazione raduna diverse casistiche che magari abbiamo incontrato o vissuto personalmente – non è certo una giustificazione. Ciò che voglio dire è che spesso ci dimentichiamo che siamo figli dei nostri genitori, che il nostro passato ci definisce. Che i bambini che siamo stati influenzano gli adulti che saremo e che spesso le difficoltà che sorgono nella gestione del rapporto tra genitori e figli risiede nel fatto che si fa fatica ad ammettere che anche gli adulti commettono degli errori nei confronti degli adolescenti. E che sì, anche i grandi di tanto in tanto dovrebbero trovare il coraggio di chiedere scusa.

Gli adulti che saremo

Ho perso mio padre quando avevo poco meno di tre anni e ho passato buona parte della mia adolescenza a tentare di colmare quel vuoto, a chiedermi perché. Però sono stata una bambina gioiosa e se ancora conservo la speranza nel cuore è forse merito di quella bambina. È stato difficile crescere con quest’assenza, fatta di parole impronunciabili, non dette, sospese tra la paura di ferire mia madre e la sensazione di non voler ricevere risposte per le quali mi sono sempre considerata troppo piccola. O almeno così volevo che fosse.

Paradossalmente ho sempre odiato la Festa della Mamma quando frequentavo le scuole elementari. Questo perché quando scrivevamo la letterina da consegnare nei giorni successivi, fino all’arrivo del giorno fatidico, le maestre ci chiedevano di nasconderla con la complicità dei papà. Io soffrivo in silenzio, anche se a mia madre non importava ed era felice, soffrivo perché mi mancava quel pezzo, quella complicità, quella gioia.

Se racconto tutto questo è perché quando guardiamo gli adolescenti di oggi e ci affrettiamo a sentenziare che sono distanti, distratti, svogliati, pigri, forse se ci sforzassimo di andare oltre, di analizzare attentamente le cause, invece di nascondere i problemi sotto al tappeto, potremmo renderci conto che magari stanno solo chiedendo aiuto, stanno solo cercando, faticosamente, di rimettere insieme i pezzi. Adesso, però, è arrivato il momento di alzare il volume della musica. Del resto, lo diceva profeticamente anche il titolo di un film di James Dean: “Vivi veloce, muori giovane e sii un bel cadavere”.

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