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#coseserie: Zerocalcare e “Strappare lungo i bordi”, un processo fra generazioni

Articolo. Carmen Pupo (classe 1994) e Marina Marzulli (classe 1983, come Zerocalcare) dibattono sulla tanto chiacchierata serie tv Netflix. Fra citazioni pop, cadenza romana, nostalgie, impegno e silenzio. C’è chi la ritiene un capolavoro, chi una boiata. Forse la verità, per così dire, sta nel mezzo

Lettura 6 min.

Probabilmente non tutti sanno – o meglio tutti coloro che non hanno visto “ Strappare lungo i bordi ” – che Michele Rech , cioè il nome che si nasconde sotto allo pseudonimo Zerocalcare , parla anche francese. La lingua di sua madre, con cui trascorse i primi anni di vita oltralpe, per poi andare a vivere a Roma in adolescenza e frequentare il Liceo Chateaubriand , una scuola francese in Italia. Che cosa c’entri ciò con la famigerata serie tv è presto detto: tutto , a cominciare dal titolo. Ma prima di entrare in questa sorta di processo a “Strappare lungo i bordi” è bene riepilogare i fatti essenziali (si fa così, no, in sede di dibattimento?).

Cominciando col dire, per chi non lo sapesse, che la serie è suddivisa in sei puntate della durata di poco più di 18 minuti e che i ritmi sono talmente serrati che ad un certo punto mi sono assicurata di stare a guardare le immagini con una velocità di riproduzione normale e non accelerata. La trama è incentrata sulla vita di Zero , l’ormai noto alias dei fumetti di Zerocalcare, che incarna perfettamente la disillusione e la frustrazione della sua generazione (è nato nel 1983, quindi la generazione dei quarantenni o giù di lì): vive a Rebibbia, da solo, in una casa in cui regna un perenne disordine e qualsiasi contatto con l’esterno, anche il più banale (come un SMS), ravviva e acuisce la sua ansia sociale.

Come forse avrete capito, Zero è la classica persona che non sa che pesci pigliare , da che parte stare, qual strada intraprendere e come trovare un posto nel mondo. E così, nell’indecisione più totale, resta fermo, immobile, imperterrito, ad aspettare che la vita faccia il suo corso . Oppure a disegnare su fogli di carta trasposizioni di mondi più o meno fittizi, in attesa che sia la vita a decidere per lui: “ Allora noi andavamo lenti, perché pensavamo che la vita funzionasse così, che bastasse strappare lungo i bordi e piano piano seguire la linea tratteggiata di ciò a cui eravamo destinati e tutto avrebbe preso la forma che avrebbe dovuto avere. Perché avevamo 17 anni e tutto il tempo del mondo ”.

In realtà l’esistenza di Zero è animata da continui dubbi. Si dichiara ateo e aderisce allo stile di vita Straight Edge che prevede, tra le altre cose, l’astinenza dal consumo di alcol, tabacco e il divieto di assumere droghe. Si tratta di una tendenza che emerge dalla musica punk degli anni ’80: riecheggia nella scelta della colonna sonora curata da Giancane e nell’ostinazione caparbia del protagonista ad indossare una maglia col teschio anche in occasioni in cui sarebbe richiesto un outfit del tutto diverso. Zero, dicevamo, non crede in alcun dio, e quindi nemmeno nell’esistenza di un qualche tipo di fatalità chiamata destino. Dunque perché preoccuparsi di disegnare una sagoma tratteggiata per ciascuno di noi?

Il destino di Zerocalcare, o meglio il destino che la madre aveva ritagliato per lui, esibiva i tratti di un disegno perfetto: quello di un ragazzo di origini italo-francesi, poliglotta che frequenta una scuola da ricchi perbene. Peccato che poi la vita lo abbia trasformato in un disegnatore di Rebibbia, incompreso (almeno a sé stesso), e pure un po’ coatto . Via al dibattimento.

L’arringa dell’accusa: i nati nel 1983
di Marina Marzulli

Sono perplessa che Zerocalcare venga considerato come l’intellettuale di riferimento della mia generazione. Il fumettista romano, per sua stessa definizione, è uno che fa i disegnetti . Ed è bravo, anche se (sempre sua descrizione) non sa l’anatomia. “Strappare lungo i bordi” è una serie carina, ma non è niente di nuovo per chi per anni ha letto il suo blog ogni lunedì mattina. Storie ironiche di vita quotidiana, piene di citazioni pop, spesso acute. Non andrei oltre.

Poi c’è la questione del dialetto romano. Amo il dialetto, trovo arricchente conoscerlo e parlarlo. Quindi non capisco la polemica su Zerocalcare che fa una serie in romano. Il problema è che, per sua stessa ammissione, Zerocalcare non parla romano, ma italiano con cadenza romana.

Non che non si possa fare: abbiamo tutti visto una serie intera in coreano. Ciò che mi irrita è che quel modo di esprimersi venga scambiata per un italiano comprensibile da tutta la penisola , quando se al suo posto ci mettessimo un bergamasco, o un veneto, o un sardo (o qualunque rappresentante di una variante linguistica sottorappresentata dai media) verrebbe considerato un baluba appena uscito dal suo antro.

La difesa: i nati nel 1994
di Carmen Pupo

Il mio destino ha voluto che nascessi nello stesso anno in cui Berlusconi decise che era arrivato il momento “di scendere in campo”. Non so se considerarlo un caso fortuito. Credo però fortemente che la mia sagoma sia il complotto di un Dio che ancora se la ride mentre tratteggia la mia figura . Inserita nel grande libro di un’epoca in cui c’è un omonimo cantante rimasto nella memoria collettiva che si diletta a cantare canzoni dai titoli discutibili che autorizzano la gente a esordire ininterrottamente con domande del tipo: “ Ma Pupo come il cantante?? ” Per la serie “ Per caso hai l’accendino? ” “ No, non fumo ”.

E sì, lo ammetto, anche io, come lui (Zerocalcare intendo, non Berlusconi), ho il mio repertorio di nostalgie. Sono cresciuta con Bim Bum Bam , guardavo la Melevisione quando ci fu l’attentato alle Torri gemelle (avevo sette anni). E la mia intelligenza emotiva – che per certi versi potrebbe essere paragonata a lla coscienza Armadillo di Zero – non si è mai ripresa del tutto dopo la puntata in cui Tonio Cartonio decide di trasferirsi per sempre a Cittàlaggiù .

Nei primi anni 2000 cantavo “ A chi mi dice ” (scritta da Tiziano Ferro , i cui brani compaiono nella colonna sonora della serie) per il gruppo del momento, i Blue . E come per tutti gli adolescenti di quel periodo, i miei sentimenti chiaramente platonici erano ostinatamente concentrati su un dubbio amletico senza risoluzione alcuna: Lee Ryan o Duncan James ?

Oltretutto, sono anche tra coloro che guardavano “ Dawson’s Creek ” e ancora non mi spiego come facessi a stare dalla parte di un piagnone che passava le sue giornate a inseguire amori impossibili. Forse perché sono esattamente come lui.

È proprio questo il punto che sintetizza e determina il successo di Zerocalcare. Ovvero l’essere riuscito a risvegliare in maniera trasversale quelle emozioni ancestrali, ataviche – puerili però autentiche – che ci riportano a ciò che siamo stati e che forse non smetteremo mai di essere.

Il ricorso in appello: i nati nel 1983
di Marina Marzulli

La nostalgia è il fallimento della mia generazione. Sono del 1983, lo stesso anno di Zerocalcare. Tutte le generazioni magnificano l’età della loro infanzia e giovinezza, ma nessuna mai come la nostra. Il perché non è un mistero: eravamo piccoli in una fase di espansione economica e su di noi sono state riposte le più fulgide speranze per l’avvenire . Poi sappiamo come è andata: la crisi, la precarietà, i bamboccioni. Ce n’è abbastanza per rimpiangere il tempo in cui guardavamo “Dawson’s Creek” (io mai, mi ha sempre fatto schifo) e “ Titanic ” e giocavamo col Tamagotchi , tanto per citare qualcuno dei riferimenti pop di “Strappare lungo i bordi”. Ecco, io sogno di entrare in una stanza piena di coetanei urlando che dei loro ricordi d’infanzia e dei cartoni animati degli anni ’80 e ’90 non mi può interessare meno.

Il suicidio è la parte più seria. Nanni Moretti diceva che col tema impegnato si vince sempre perché si ricatta il pubblico. “Strappare lungo i bordi” è un inanellarsi di gag comiche (più o meno riuscite, ma comunque generalmente piacevoli) su un’esile impalcatura di tragedia: il suicidio di un’amica . Amica di cui non viene detto quasi nulla, suicidio sostanzialmente inspiegato. Che però costringe a prendere la storia sul serio. È un escamotage narrativo abbastanza semplice, che mette al riparo da qualsiasi critica, perché – di fronte a un lutto – che vuoi dire? Se non ti commuovi l’insensibile sei tu.

La Corte Suprema di Cassazione e la sentenza finale
di Carmen Pupo

Ok, faccio l’avvocato della difesa e anche il giudice. In fondo l’articolo l’hanno assegnato a me, quindi sono io che devo trarre le conclusioni.
Ciò che fa ridere di “Strappare lungo i bordi” per quanto mi riguarda, non sono tanto le gag in quanto tali, ma l’esasperazione quasi petulante con la quale Zerocalcare descrive la sua incapacità di trovare compromessi con il mondo . Se la prende con l’aria condizionata dei treni, coi vecchi, con la scarsità di igiene dei bagni pubblici maschili, perfino con il catalogo di Netflix perché ci sono troppi film per poi prendere amaramente consapevolezza, grazie alla sua coscienza-armadillo, che “ Non puoi trovare fuori quello che non hai dentro ”.

Poi c’è la morte, il colpo di scena . Il suicidio (a quanto pare) inaspettato di Alice, quell’amicizia storica rimasta in sospeso, tra quell’amore che avrebbe potuto essere e quel passo che, ancora una volta, Zero non ha mai avuto il coraggio di fare. Perfino di fronte alla morte della sua amica, Zero trova una scusa per prendersela con il mondo che gli ha scaricato l’ennesima responsabilità , che, per restare in tema, s’accolla . Probabilmente, se avesse avuto il coraggio di accollarsi quest’altra relazione – forse – le cose sarebbero andate diversamente, si dice.

Ho letto tanti commenti sui social rispetto a “Strappare lungo i bordi”. Quello che mi ha fatto ridere di più la paragonava al panino di McDonald preparato da Joe Bastianich . Concordo con l’accusa nel dire che la morte è un ottimo espediente narrativo per chiudere il cerchio, per mettere a tacere le critiche, perché la morte impone silenzio, decoro. Poi ho letto il post di una ragazza che in una discussione su Facebook ha parlato proprio del silenzio. Del silenzio che diventa una barriera, un vuoto assordante , cosmico, dietro al quale si nasconde un unico interrogativo: perché si è uccisa?

E sì, è facile dire che siamo fili d’erba ma bisogna anche avere il coraggio di assumersi la responsabilità, il carico delle proprie scelte, soprattutto di quelle che non si ha il coraggio di fare. Così pensi al messaggio che avresti potuto mandare, alla chiamata alla quale avresti potuto rispondere , alla cena che hai rimandato perché hai lasciato vincere la tua inerzia sociale.

È facile rifugiarsi nella retorica perbenista racchiusa nella massima “ Era una brava persona ”. Ci mette a posto la coscienza o, per meglio dire, la mette a tacere. Perché preferiamo rimanere in silenzio, piuttosto che ammettere che quando qualcuno arriva a commettere un gesto così estremo come il suicidio, forse sarebbe giusto riflettere su quello che avremmo potuto fare , forse sarebbe meglio parlare. Perché magari a uccidere Alice, è stato proprio il silenzio.

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