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Perché non ti trovi un lavoro vero? Ma quello culturale lo è già

Articolo. Una filiera di 830 mila persone in Italia, che stanno davanti e dietro le quinte del mondo della cultura e dello spettacolo. Un comparto che per Mauro Danesi, direttore artistico del festival Orlando, produce cibo essenziale, fonte di coraggio, benessere e libertà. E ci permette di sognare immaginari plurali

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Graces (Giulia Casamenti)

Un anno di lavoro per un’edizione prevista a maggio in presenza, spostata in parte online per la sezione dedicata ai cortometraggi e in parte riorganizzata su agosto la sezione performativa. Un secondo capitolo ricalendarizzato su ottobre e poi saltato definitivamente, in seguito al DPCM. Ospiti come Alessandro Sciarroni, Leone d’Oro alla Biennale Danza 2019, e Silvia Gribaudi, attiva nel panorama internazionale delle arti performative. Laboratori nelle scuole e workshop in città e provincia. Una manifestazione che per quest’ultima edizione ha invaso Bergamo, intessendo relazioni e collaborazioni: dall’Accademia Carrara alla Gamec, arrivando anche sul palco del Lazzaretto e facendo rete con realtà associative del territorio.

Quella di Orlando è la storia di un festival queer nato da un gruppo di volontari sette anni fa, ma anche un’occasione per riflettere sul valore del lavoro culturale in Italia. Un settore che coinvolge 830 mila persone secondo i dati Eurostat 2018 e che genera l’1,7% del fatturato italiano, dato allineato con gli altri Paesi europei.

“Il lavoro culturale nell’Italia contemporanea - spiega Mauro Danesi- raramente viene considerato un lavoro – spiega – ecco perché quando il festival è saltato la prima volta abbiamo fatto una scelta molto impegnativa, ma motivata dal voler dare un segnale forte: abbiamo dichiarato che avremmo pagato gli artisti anche se fosse saltato tutto, un modo per riconoscerne la professionalità”.

Davanti ai provvedimenti introdotti dal Governo, che hanno portato alla chiusura di teatri, cinema e sale da concerto, l’associazione Immaginare Orlando che organizza il festival ha scelto di cancellare l’evento, già presentato alla stampa la scorsa settimana. Questa volta la scelta non è stata passare all’online, ma reindirizzare le energie su una futura edizione. “Volevamo salvaguardare lo spazio e la presenza delle persone in sala. Abbiamo scelto l’online in primavera, ma riteniamo che sia diventata una soluzione abusata e quindi abbiamo deciso di fermarci, per ora”.

Orlando, come molte altre realtà culturali italiane, era pronto ad anticipare le proiezioni per il coprifuoco, tutto il calendario era già stato ridefinito e ogni provvedimento preso per garantire lo svolgersi del festival in sicurezza. “Siamo rimasti perplessi non tanto dalla chiusura, quanto dalle contraddizioni da cui è emersa, dalla modalità della scelta, fatta da un giorno all’altro, dopo tante promesse e senza riconoscere quanto la cultura sia un cibo importante come quello concreto: è il cibo del poter pensare, dello stare bene, è un nutrimento e tutto questo non è stato minimamente capito”.

Al momento il festival quindi è sospeso, i soci dell’associazione riprenderanno a impegnarsi per la prossima edizione, ma la sua storia è un’occasione per riflettere sul lavoro culturale e sul suo senso per il territorio: “Orlando nasce sette anni fa come un investimento di volontariato. Non avevamo capitali, avevamo deciso di investire il nostro tempo di lavoro, non potendo investire in denaro e gradualmente abbiamo cercato di rendere sostenibile il festival e pagare sempre di più le persone che ci lavorano. Si tratta di un processo lungo, che porta con sé tutta la difficoltà di far capire quanto la cultura sia allo stesso tempo un lavoro e un valore in quanto fonte di benessere, empowerment e strumento di formazione di spirito critico, essenziale per non farsi manipolare”.

Attualmente dietro Orlando c’è un’associazione di promozione sociale, che si avvale di moltissime professionalità sia per la parte del festival, sia per quella di formazione, “che è grande, ma meno visibile. Il lavoro occupa tutto l’anno: basti pensare che, mentre stavamo annullando il festival, tre di noi erano a Copenaghen a selezionare i film per la prossima edizione e a condividere progettualità con altre realtà. Non si capisce che dietro la produzione di un oggetto di qualità, che può essere un festival, uno spettacolo o un film c’è un’intera filiera di realtà impegnate”.

Oltre a coinvolgere numerose professionalità, un festival come Orlando nasce anche grazie a una rete di relazioni con differenti partner: da Lab 80 per la parte cinematografica al Comune di Bergamo, passando per oltre venti realtà del territorio, insieme al coordinamento dei festival italiani di cinema LGBTQI e alla rete nazionale di Educare alle Differenze. “Sostenere un festival significa sostenere i suoi contenuti e permettere di ampliare gli orizzonti delle possibilità, insieme, per tutti. Orlando nasce proprio sull’onda di questo desiderio: ampliare gli immaginari possibili. Esiste un campo di pensabilità dato dagli orizzonti che conosciamo e in cui riusciamo a immaginarci. Ampliarli significa permetterci maggiore respiro. Questa è la grande responsabilità della cultura: permetterci di sognare immaginari plurali, come plurale è la vita e non fermarci a modelli soffocanti e stereotipati”.

Riguardo a Orlando poi i macro temi sono quelli dell’identità, della relazione e del possibile: ciò che possiamo e non possiamo essere, immaginare e fare. “Siamo nati sognando che il progetto diventasse inutile, perché speravamo che molte tematiche, soprattutto quelle di genere, col tempo non fossero più critiche. Invece anno dopo anno il progetto è diventato sempre più necessario, perché le cose non sono migliorate”.

La sfida di un festival come Orlando è anche dimostrare come parlare di questi temi non riguardi solo una comunità ristretta: “perché in modo intersezionale le questioni che tocchiamo sono comuni a molti. Il modo in cui si sente una persona che subisce discriminazioni o attacchi omofobici non è distante da come si può sentire una persona con disabilità, o un’altra vittima di razzismo per origini geografiche. Il sentire è comune è una questione complessa e collettiva.

Guardando alle possibilità di corpi, identità, limiti e di quello che possiamo o non possiamo fare, Mauro Danesi mette a fuoco anche un altro stereotipo: quello legato all’età e ai corpi anziani. “Con Silvia Gribaudi abbiamo fatto un laboratorio dedicato alle donne over 60, che ha dimostrato quanta energia, coraggio e potenza si possano mettere in gioco. Un coraggio che mi ha fatto pensare a me stesso e a quanto anche io mi stessi limitando da solo. Sì, si può fare. La sfida si amplia”. E ancora una volta gli orizzonti si allargano.

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