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#allamiaetà: Pietro Roncelli burattinaio, l’artigiano dell’immaginario

Racconto. È probabilmente il burattinaio in attività più rappresentativo della tradizione bergamasca. L’abbiamo incontrato a casa sua con il nipote Gabriele Codognola, che da qualche anno lo accompagna per imparare il mestiere e dare continuità all’arte del teatro di figura

Lettura 8 min.
Pietro Roncelli

C’è un piccolo magazzino al piano terra della palazzina. La porta è di ferro e vetro opaco, di quelle di una volta. “Chiudo sempre bene perché si me röba ‘l Giupì i me porta vià ‘l bràss” dice. E aggiunge: “È come se mi portano via il braccio”. Pietro Roncelli accompagna volentieri la traduzione italiana alle formule dialettali che usa per raccontare le cose. Ha 82 anni, ci incontriamo perché è il burattinaio bergamasco per eccellenza, conosciuto come l’interprete più verace di una lunga tradizione che nella seconda metà del Novecento aveva trovato in Benedetto e Pina Ravasio i più illustri rappresentanti. Recitazione, improvvisazione teatrale, drammaturgia, artigianato. È tutto dietro una baracca e dei fantocci di legno che si animano.

Con Pietro c’è anche suo nipote Gabriele Codognola, 23 anni. Segue il nonno da quando ne aveva 16. Ha condotto il suo primo spettacolo pubblico in totale autonomia a 18 anni. Oggi anche lui può considerarsi un burattinaio: “Quando ero alle superiori e presi la scelta di accompagnare mio nonno non sapevo come dirlo ai miei coetanei. Era una cosa talmente strana che mi faceva provare anche un po’ di vergogna. Ora, col passare del tempo, sto capendo che quello che faccio è qualcosa di pazzesco, fuori dall’ordinario, che poche persone possono avere il piacere di provare. Non ha senso nasconderlo. Mi ritengo molto fortunato”.

Tutto quello che contiene il piccolo magazzino l’ha costruito Pietro. Ogni pezzo, dal primo all’ultimo. “Lui vive di rendita” dice sorridendo al nipote, che ancora non ha imparato a scolpire, a intagliare, a gestire i colori a olio: tutte quelle operazioni artigianali che fanno parte del mondo del teatro di figura. C’è tempo, viene da pensare. Del resto anche suo nonno racconta di aver imparato a costruire teste di legno solo dopo i quarant’anni. Almeno, solo dopo aver costruito il magazzino e tutto quello che ci sta attorno. La palazzina, con la casa dove vive, l’ha costruita negli anni Sessanta. “Ho fatto su questa casa pezzo per pezzo. Lavoravo alla Dalmine, facevo il tornitore, i turni dalle sei alle due. Poi venivo qua”.

Un tintinnare di chiavi, la porta del magazzino si apre. Li troviamo tutti a dormire nella penombra. Un telo di stoffa li protegge dalla polvere e dalla luce che non sia della ribalta. Le mani di Pietro e Gabriele ne svegliano qualcuno dal sonno. Quelli si raddrizzano e si sistemano il vestito per presentarsi. Hanno lo sguardo magnetico, i lineamenti grezzi ma dettagliati, qualcuno sembra sbronzo, con quelle guance e il naso rosseggianti. Guardarli da vicino scatena come un’epifania, c’è qualcosa di indefinibile che colpisce e scava e arriva dritto all’infanzia, a ricordi sbiaditi ma che riaffiorano rapidi: immagini di una baracca, un gruppo di bambini seduti a terra o su panchine mobili, il naso all’insù a guardare ‘o spetàcol dì büratì.

Sono geloso” dice dei suoi Giupì, che sono cinque in tutto.
Lui è geloso di tutti” aggiunge Gabriele con il tono di chi ha imparato a fare l’abitudine alle piccole manie di suo nonno.
Fino a che faccio il burattinaio... Il mio Gioppino l’ho dato in mano a lui, e basta”.

I burattini più noti ci sono tutti, naturalmente.
Arlecchino, “ü che l’ha semper püra de töt”.
Brighella, “l’è mbruiu, al sirca semper de fala franca”.
E Pantalone, che “l’è sciòr ma al dìs che ghe n’ha gna ü. È uno di quei personaggi che piange sempre ma che alla fine i ghe n’ha semper in sacoccia” – personaggio di enorme attualità, il Pantalone.
C’è anche la Margì, uno dei pochi personaggi femminili al netto di streghe e principesse. “È la fidanzata del Giupì. La sò fidansalata, come ‘l dìs lü”. Pietro spiega che la tradizione bergamasca vuole che le femmine siano mosse col bastone, non con la mano, e che le braccia restino a penzoloni.

E poi c’è il Gioppino, naturalmente. Coi tre gozzi e il suo vestito verde e rosso. Pietro accenna qualche battuta e l’epifania è compiuta. Mi piace pensare che il suo timbro e quel suo modo così riconoscibile di recitare sia diventata la materia di un meccanismo di reminiscenza collettiva in grado di far vibrare le corde di chiunque abbia assistito almeno una volta a un suo spettacolo, anche solo tra chi era bambino negli anni Ottanta e Novanta.

“Quando i ghe dà una bèla notisia al Giupì, faga èt come ‘l fa...” – si rivolge a Gabriele.
Faga èt te...” – risponde lui.
Quando ghe dà una bèla notisia, che al ghè de mangià e de bif, al fà: mooodooona me!
(Il Gioppino si piega all’indietro).
E dopo al pica sö la sò manina”.

Il Gioppino fatto da Pietro Roncelli è familiare. Al punto che quella maschera, per essere davvero quella maschera, sembra non possa avere altra voce che la sua, e muoversi in altro modo da come lo fa muovere lui. “La recitazione conta. Conta parecchio il movimento del burattino. A volte è il movimento del burattino che si esprime, che parla senza parlare. Parla nel movimento che fa. A Venezia il Gioppino non parlava italiano, parlava in bergamasco. E ghera i giapunes, ghera... toć i dientàa màt con sto Giupì”.

Vicino al garage ha un piccolo laboratorio, su una mensola poggiano delle teste-guida di pongo su cui provare prima di lavorare alla crapa de legn. Ci sono pezzi di ricambio, strumenti di lavoro, la locandina di uno spettacolo appesa al muro. Le teste si ricavano tutte da un cubo di cirmolo, un legno che è ricavato dal pino cembro. “È un legno che non viene intaccato dal tarlo” spiega, “E poi si lavora abbastanza bene... Non perché non ci sono i nodi eh, i nodi ci sono. Ma si lavora abbastanza bene”.

Po dopo me n’ha fać dì aventüre eh... An s’è ‘ndać depertöt coi büratì. Siamo andati dappertutto. In Francia, in Svizzera, a Roma, al carnevale di Venezia. Anche a Uno Mattina, Rai Uno, in diretta. Nel ’96 mi pare. Iè stace un po strapasàde eh... però iè bèle sodisfasiù girà coi büratì. Sono belle soddisfazioni”.

Saliamo in casa. Gabriele prepara un caffè. Mentre è in cucina, Pietro parla del nipote. Dice: “Lui lo fa bene l’Arlecchino, l’è brao a fa l’Arlechì. Ghel dighe mia a lü però”.
Sul tavolo del soggiorno ci sono due DVD realizzati dalla Fondazione Benedetto Ravasio. “Ritorno a Stasù”, che racconta tutta la storia di Pietro Roncelli, e “Pacì Paciana – Ol padrù de la Val Brembana”, uno spettacolo che vede la collaborazione del cantautore Luciano Ravasio, e che ormai è un classico del repertorio roncelliano. Il burattinaio e il cantastorie. Insieme, i due hanno anche realizzato lo spettacolo “Gioppino e la sepolta viva” (che riprende la vicenda della “Ginevra degli Amieri”) e “Il Fornaretto di Venezia”.

Pietro racconta di aver imparato a fabbricare le teste dei burattini da un capo reparto della Dalmine che lavorava il legno, e che era anche pittore. C’è un suo quadro appeso alla parete del soggiorno. Erano i primissimi anni Ottanta e Pietro già organizzava spettacolini con una piccola baracca e dei burattini fatti con semplici bastoncini. Un giorno lo chiama in ufficio questo collega, si chiamava Livio Belloli. “Mi fa: m’à dìt che i te piass i büratì... Apre il cassetto e tira fuori una testa scolpita, di legno, ma tanto bella... E mi ha regalato sta crapina”. Quella piccola testa è finita poi da qualche parte in Giappone. Ma questa è un’altra storia. “Il Belloli faceva su delle teste di legno per lui. Da lì è nato un rapporto. Un sabato sono andato a trovarlo a casa sua e mi ha fatto vedere. Un paio di scalpellate e poi mi fa: domani è domenica, ti metti lì con la vetrata e lo lisci un po’, cerchi di capire com’è l’anatomia. Io sono tornato a casa e ho passato tutta la domenica a lisciare la testa. Me so ciapàt. Mi sono preso. E ho fassó ol prim Giupì. Una quarantina di anni fa”.

Quasi come un miracolo, la passione per il teatro dei burattini si trasforma in attività artigianale tra il tornio e l’ufficio del caporeparto della Dalmine. Probabilmente non è un caso. Per come la racconta Pietro è stata una specie risposta anticorpale all’ambiente di fabbrica. L’amore per i burattini arriva però da più lontano nel tempo. E nello spazio: lontano dalla fabbrica. Parte tutto da “Stasù”, una cascina di Almenno San Salvatore dove la famiglia si trasferisce durante la guerra.

Quando ero ragazzino non c’era niente, cinema, televisione. Ogni tanto arrivavano lì ad Almenno San Salvatore dei burattinai, non ricordo chi fossero, se il Benedetto Ravasio... Lui non me lo ricordo, ma la moglie me la ricordo perché lei era quella che gestiva l’entrata del pubblico e faceva pagare qualcosa. Arrivavano col carretto e mettevano giù la baracca. La lasciavano lì nel cortile una settimana, anche dieci giorni. Siccome io di soldi non ne avevo davo una mano a mettere giù le panchine, eccetera. E così non pagavo. Ho cominciato lì a vedere i burattini e da lì mi sono innamorato. Le storie che vedevo io poi il giorno dopo con dei bastoncini le facevo a casa mia nella finestrella di una porta. Senza nessuno che mi seguiva ovviamente, però queste storie mi sono rimaste dentro. Alcune di quelle che porto in giro adesso sono ancora quelle che vedevo da bambino, naturalmente adattate ai tempi de adès. Perché allora non c’era nessuno che fiatava, lavoravano anche senza microfono. E non facevano partecipare i bambini, come adesso. In certe storie oggi sono loro che gestiscono la storia, e ‘l giupì al ghe ‘a dré no”.

Gioppino e Brighella servi imbroglioni”, “Gioppino a Venezia in cerca di fortuna”, “Gioppino al castello del terrore”, “Gioppino e la fonte dell’acqua miracolosa”, “Pacì Paciana padrù de la Val Brembana”, “Gioppino alla corte del re di Persia”, “Arlecchino còto e stracòto di amor”, “Gioppino e i marziani” (una storia originale che catapulta il Giupì in scenari nuovi e inediti - se ne va su Marte con Arlecchino). Sono solo alcuni dei titoli degli spettacoli che Pietro mette in scena da anni, e che continua a riproporre oggi insieme a Gabriele.

Soggetti, canovacci, storie che si tramandano anche grazie alla liquidità che le caratterizza. Ci sono i canovacci, ci sono i soggetti, e poi ci sono i burattinai con la capacità di inventare, improvvisare e interagire con il pubblico, di tessere un intreccio (“l’inturciàda”). Pietro si è inventato gran parte delle vicende in “Gioppino alla corte del re di Persia” o di “Arlecchino còto e stracòto d’amor”. Dice che in ogni caso la storia non viene mai uguale due volte, cambia sempre in base alla risposta del pubblico, a ciò che percepiscono da dietro le quinte. Perché la tradizione non è un fossile, non è semplice ripetizione. Deve lasciarsi modellare: anche l’improvvisazione sul canovaccio è tradizione. E la capacità di Pietro di farlo è ciò che lo ha reso così rappresentativo. Un merito che è anche di sua moglie, “la mia assistente e la mia critica” dice lui.

Il Gioppino poi, naturalmente, deve essere soprattutto in dialetto. Con la parlata storpiata tipo: abbiamo capisciato. Il dialetto è importante per ol Giupì. A volte mi dicono: potrebbe parlare un po’ più in italiano... ma se i vé ché col Pulcinella non lo fanno mica parlare italiano. Il Fagiolino parla bolognese. Poi magari la battuta la fa anche in italiano se è difficile capirla, però le battute devono essere in dialetto. L’è bèl quando ol Giupì al dìs: Porca sigóla! Se non la fai in dialetto non ha nessun senso. Se uno non sa parlare il bergamasco l’è inötel che’l faghe ‘l Giupì. Sennò perde le sue caratteristiche”.

Il futuro della tradizione è anche qui. Il dialetto nelle abitudini linguistiche, e di conseguenza nelle rappresentazioni teatrali. Gabriele dice che lui sa solo il dialetto del Giupì, nel senso che lo sente solo da lui e lo parla solo quando lo manovra. Col nonno non lo parla. Capisce tutto, ma non lo parla. “Ol Giupì al ghe manca, non ha il bel dialetto” dice Pietro. “Però ol prim spetàcol che l’ha fàt io sono rimasto a bocca aperta. Ha fać ü spetàcol... i sćèć de la scöla i vulìa toć l’autografo. Bravissimo”.

E allora, inevitabilmente, finiamo a parlare del futuro di quest’arte. Di una scelta, quella di Gabriele, che, senza bisogno di retorica, finisce davvero per avere qualcosa di eroico nel suo piccolo. “Molti [coetanei] quando pensano a uno spettacolo di burattini, non danno l’importanza che secondo me merita. La reputano magari una pagliacciata, fatta esclusivamente per bambini, senza mai aver visto uno spettacolo”.

Pietro è convinto che i burattini non moriranno mai, finché c’è qualcuno che ci mette il cuore. Conveniamo che in qualche modo una tradizione abbia bisogno di essere rinnovata per continuare a vivere. “Rinnovare sì, ma non stravolgere” dice Gabriele. “Io spero che non cambi sinceramente. Ho avuto proposte di aggiungere agli spettacoli qualcosa di più tecnologico, ologrammi, schermi al posto degli scenari. Ma è già bello così, a me lo spettacolo piace così. Se non ci fosse il riscontro del pubblico capirei, ma finché il pubblico reagisce come reagisce...”. “Se tu noti, se ’l ghè o spetàcol dì buratì, se uno passa si ferma sempre a vedere”.

E in effetti è così. I burattini funzionano ancora, e funzionano alla grande. Anche in una società iper-mediatizzata, bombardata di stimoli visivi e da format di intrattenimento. L’essenzialità dello spettacolo dei burattini è ancora efficace e potente, capace di farti pendere dalle labbra di due teste di pino cembro che si muovono. Ne parliamo mentre torniamo giù in magazzino per qualche fotografia. Pietro e Gabriele si beccano, quasi come moglie e marito.

Ma sai che non posso fargli un’osservazione?” mi dice.
E perché, io posso fartela invece? Dai...”
Ma te ólet faghela a ü che l’è quarant’agn che l’è ‘n giro?!

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